Valhalla Rising – Regno di sangue - di Nicolas Winding Refn (2009)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: la prossima vorta portativi la bussola…
Siamo intorno all’anno 1000 DC. In una imprecisata landa verde e brumosa del nord Europa, One Eye è un guerriero muto e ormai senza un occhio (appunto), tenuto prigioniero, incatenato ed ingabbiato, da un gruppo errante di vichinghi; viene liberato dalla gabbia (ma non dalle catene), solo per combattere contro altri prigionieri, durante scontri mortali, solo per il divertimento dei suoi carcerieri. Tra di loro, solo il piccolo Are mostra un pizzico di comprensione, pietà mista a paura, verso di lui. One Eye è capace di imprese straordinarie, quasi sovrannaturali, e quando sembra stanco della prigionia si libera, massacrando il gruppo che lo teneva prigioniero, e fugge insieme ad Are, che lo segue fedelmente. Si aggregano ad un altro gruppo di vichinghi cristiani, che hanno intenzione, di lì a poco, di partire per la Terra Santa ed unirsi alle crociate. Durante il viaggio, che si dimostra molto più lungo del previsto, un periodo di bonaccia prolungato fiacca i partecipanti e fa si che terminino le provviste e, soprattutto, l’acqua. Anche questa volta, una decisione improvvisa di One Eye darà la svolta alla situazione. Ma il luogo dove sbarcano non sembra essere la Terra Santa…
Ultimo (ancora per poco: il suo nuovo Drive uscirà in Italia, sembra, il 30 settembre 2011) lavoro del giovane regista danese, che, a mio modestissimo parere, e nonostante molte critiche avverse, sta probabilmente seguendo un verso di una delle canzoni più belle degli Afterhours (Posso avere il tuo deserto): “dando alla violenza una profondità”. Se seguite, e avete potuto farlo anche senza vedere tutti i suoi film, leggendone le recensioni su fassbinder, il suo percorso artistico, vedrete appunto che questo Valhalla Rising viene immediatamente dopo Bronson, bistrattato da una parte della critica, mai uscito in Italia, ma sicuramente personale e particolare. Creando una figura semi-mitologica come One Eye, anziché agganciarsi ad un’altra realmente esistita (come nel caso di Michael Gordon Peterson in, appunto, Bronson), il regista tenta la sublimazione della violenza, coronandola con la catarsi del sacrificio, ponendo le basi per un film dal respiro epico, disseminandolo di citazioni a grandissimi registi del passato, registi che hanno calcato degnamente questo tipo di genere. Sia chiaro: non è un film per tutti. E’ un film lento, un film che dura un’ora e mezzo ma che sembra durarne tre, diviso in capitoli dai titoli roboanti (Wrath, Silent Warrior, Men of God, The Holy Land, Hell, Sacrifice), con dialoghi rarefatti (il protagonista, One Eye, non emette neppure un suono in tutto il film), ma che lascia decisamente il segno, grazie agli stupendi scenari naturali scozzesi, alla fotografia, lasciatemelo dire, meravigliosa, di Morten Soborg (comprese le “virate” acide in rosso, che paiono suggerire i pensieri di One Eye), alla regia che abbonda con ralenti ed altri accorgimenti spiazzanti, e alla grande prova, ancora una volta, di Mads Mikkelsen (One Eye), che pur mettendo in scena un personaggio sfingeo, riesce a suscitare ammirazione totale; il tutto contribuisce a creare un’atmosfera (come detto) epica, cupa ed evocativa (che, prelevo la notizia dai Trivia di imdb.com, chissà come poteva essere se, come nelle intenzioni iniziali del regista, le musiche fossero davvero state affidati ai Mogwai, anziché al fido Peterpeter), che affascina.
Come detto, un film non per tutti, ma che si imprime nella mente.
Giudizio vernacolare: la prossima vorta portativi la bussola…
Siamo intorno all’anno 1000 DC. In una imprecisata landa verde e brumosa del nord Europa, One Eye è un guerriero muto e ormai senza un occhio (appunto), tenuto prigioniero, incatenato ed ingabbiato, da un gruppo errante di vichinghi; viene liberato dalla gabbia (ma non dalle catene), solo per combattere contro altri prigionieri, durante scontri mortali, solo per il divertimento dei suoi carcerieri. Tra di loro, solo il piccolo Are mostra un pizzico di comprensione, pietà mista a paura, verso di lui. One Eye è capace di imprese straordinarie, quasi sovrannaturali, e quando sembra stanco della prigionia si libera, massacrando il gruppo che lo teneva prigioniero, e fugge insieme ad Are, che lo segue fedelmente. Si aggregano ad un altro gruppo di vichinghi cristiani, che hanno intenzione, di lì a poco, di partire per la Terra Santa ed unirsi alle crociate. Durante il viaggio, che si dimostra molto più lungo del previsto, un periodo di bonaccia prolungato fiacca i partecipanti e fa si che terminino le provviste e, soprattutto, l’acqua. Anche questa volta, una decisione improvvisa di One Eye darà la svolta alla situazione. Ma il luogo dove sbarcano non sembra essere la Terra Santa…
Ultimo (ancora per poco: il suo nuovo Drive uscirà in Italia, sembra, il 30 settembre 2011) lavoro del giovane regista danese, che, a mio modestissimo parere, e nonostante molte critiche avverse, sta probabilmente seguendo un verso di una delle canzoni più belle degli Afterhours (Posso avere il tuo deserto): “dando alla violenza una profondità”. Se seguite, e avete potuto farlo anche senza vedere tutti i suoi film, leggendone le recensioni su fassbinder, il suo percorso artistico, vedrete appunto che questo Valhalla Rising viene immediatamente dopo Bronson, bistrattato da una parte della critica, mai uscito in Italia, ma sicuramente personale e particolare. Creando una figura semi-mitologica come One Eye, anziché agganciarsi ad un’altra realmente esistita (come nel caso di Michael Gordon Peterson in, appunto, Bronson), il regista tenta la sublimazione della violenza, coronandola con la catarsi del sacrificio, ponendo le basi per un film dal respiro epico, disseminandolo di citazioni a grandissimi registi del passato, registi che hanno calcato degnamente questo tipo di genere. Sia chiaro: non è un film per tutti. E’ un film lento, un film che dura un’ora e mezzo ma che sembra durarne tre, diviso in capitoli dai titoli roboanti (Wrath, Silent Warrior, Men of God, The Holy Land, Hell, Sacrifice), con dialoghi rarefatti (il protagonista, One Eye, non emette neppure un suono in tutto il film), ma che lascia decisamente il segno, grazie agli stupendi scenari naturali scozzesi, alla fotografia, lasciatemelo dire, meravigliosa, di Morten Soborg (comprese le “virate” acide in rosso, che paiono suggerire i pensieri di One Eye), alla regia che abbonda con ralenti ed altri accorgimenti spiazzanti, e alla grande prova, ancora una volta, di Mads Mikkelsen (One Eye), che pur mettendo in scena un personaggio sfingeo, riesce a suscitare ammirazione totale; il tutto contribuisce a creare un’atmosfera (come detto) epica, cupa ed evocativa (che, prelevo la notizia dai Trivia di imdb.com, chissà come poteva essere se, come nelle intenzioni iniziali del regista, le musiche fossero davvero state affidati ai Mogwai, anziché al fido Peterpeter), che affascina.
Come detto, un film non per tutti, ma che si imprime nella mente.
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