Biutiful - di Alejandro González Iñárritu (2011)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: boia 'm'è messo male lulì
Barcellona, oggi. Uxbal vive in affitto, in un appartamento fatiscente, con i due figli Ana e Mateo. E' formalmente separato dalla moglie Marambra, alla quale però rimane legato da un affetto strano e contorto, donna affetta da disturbi nervosi, prostituta non si capisce se a tempo perso o pieno. Uxbal ha l'affidamento dei bambini. Li accudisce come può, ma li ama profondamente. Non ha mai conosciuto suo padre, che abbandonò la Spagna per il Messico, per poi morirvi poco dopo, ai tempi di Franco, quando sua madre era incinta di lui. Vive facendo da intermediario tra polizia corrotta, africani irregolari che fanno gli ambulanti nel centro della città (qualcuno spaccia droga), e padroncini cinesi che sfruttano manodopera cinese irregolare, segregata in scantinati ai margini della città, verso Badalona. I cinesi fabbricano cose che gli africani vendono, ma se c'è qualche cantiere edile che cerca manodopera al nero, Uxbal, con gli agganci del fratello maggiore Tito, la manodopera la trova. Così come provvede a pagare qualche poliziotto, per fargli chiudere un occhio sugli ambulanti africani.
Uxbal è anche una specie di medium. Riesce ad entrare in contatto con i morti che ancora non riposano in pace. "Offre" un servizio di tramite ai familiari, parlando con persone decedute da poco, naturalmente, dietro compenso.
Soffrendo sempre più di un dolore alle parti basse, Uxbal si decide a farsi visitare. La diagnosi è una sentenza: il cancro alla prostata ormai è allo stadio terminale. Gli rimangono si e no due mesi di vita. Due mesi in cui sente la necessità di assicurare qualcosa che assomigli ad un futuro, per i suoi figli, e per cercare di essere una persona migliore, per riparare qualche torto.
Non sarà facile.
Iñárritu, dopo una collaborazione durata per i suoi primi tre film, Amores Perros, 21 Grammi e Babel, questa volta non ha, alla sceneggiatura, Guillermo Arriaga. E, probabilmente perché era Arriaga (ma a questo punto, diversi indizi parrebbero confermarlo) che voleva (e scriveva) la narrazione a-cronologica, la abbandona, per narrare una storia che segue, appunto, una linea cronologicamente coerente, a parte un piccolo, ma non trascurabile, particolare (che però abbiamo già visto in molti altri film): il film comincia con la fine. Posso dirlo, senza paura di rivelarvi niente che vi tolga la sorpresa. Capirete vedendolo.
C'è un'altra cosa da dire, naturalmente già sottolineata da recensori che hanno visto il film in anteprima: a differenza degli altri suoi film, qui non si affrontano storie corali, ma la storia si concentra fortissimamente sul protagonista, uno Javier Bardem che, ormai, oltre ad una delle facce più interessanti ed espressive che il cinema mondiale possa offrire, si avvicina sempre di più al tipo di interpretazione fisica che, in passato, ci hanno regalato, per esempio, De Niro, o pochi altri grandi attori.
Detto questo, possiamo anche aggiungere che la storia è collocata in un ambiente che potrebbe ricordare una parte delle storie di Amores Perros, in una classe sociale che, forse, non è corretto definire neppure sottoproletariato, con la sostanziale differenza che qui siamo in Europa, e in una della città più ricche e laboriose, capitale di un mini-Stato, anch'esso, tra i più ricchi d'Europa.
Iñárritu coglie perfettamente l'essenza dell'Europa-miraggio, quella sorta di terra promessa per africani e asiatici, e descrive, sullo sfondo, che è però un mezzo protagonista, il sottobosco dell'irregolarità, degli immigrati clandestini, e di quelle figure che si arricchiscono alle loro spalle (o forse sarebbe più corretto dire sulle loro spalle). Ma, come detto, questa, anche se importante, è solo la cosa che fa da sfondo alla storia del protagonista. Un protagonista che è una persona che non riesce a fare la cosa giusta. Mai. Eppure ci prova. Ci prova per tutta la durata del film, oltre due ore.
Diciamo la verità: se escludiamo la (ennesima) superba prova di Bardem, e la mano sapiente di Iñárritu, che ancora una volta riesce a creare immagini e scene indimenticabili (i cinesi "spiaggiati", l'ennesima meravigliosa scena in discoteca - ricordate quella "giapponese" in Babel? -in bilico tra diversi, profondamente diversi, stati d'animo e di alterazione), il film in sé non è all'altezza dei suoi precedenti. Troppo facile, con lo sfondo di cui abbiamo parlato prima, e con una storia di discesa agli inferi/scivolamento verso la morte, andare alla ricerca delle corde più sensibili degli spettatori. C'è qualcosa che non funziona, qualcosa che manca, qualcosa che non gira alla perfezione.
Quindi, nonostante, ripeto, la maestrìa (di regista e del cast, ottimamente diretto, che ha, come detto, la sua punta di diamante in un gigantesco Bardem), non boccio né promuovo a pieni voti questa quarta prova, sulla lunga distanza, del messicano.
Nonostante, come detto in occasione di Babel, lo attendessi ad una prova con narrazione "dritta", rimango convinto che sia un regista più che capace, e credo possa fare di meglio.
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