Da Internazionale.
ROMA
Tra bamboccioni e coccodè
IGIABA SCEGO
Faccio parte di una generazione curiosa, per non dire sfigata: quella dei trentenni bamboccioni,
quella dei trentenni che non faranno mai la rivoluzione, quella dei trentenni che si accontentano e così sia. Poi, se io e molti della mia generazione non siamo bamboccioni, vogliamo fare la rivoluzione e magari siamo stufi di accontentarci, be’ questo è un altro paio di maniche. Il corpo sociale nella sua interezza ci ha etichettati così, eterni giovani a cui al massimo si può offrire uno
stage, un coccodè qualsiasi, non un lavoro. In uno dei suoi ultimi discorsi Benedetto xvi ha consigliato ai fedeli riuniti a piazza San Pietro di guardarsi dai rischi della giovinezza a oltranza. Mi chiedo però quanto questa giovinezza sia voluta da quelli che la proclamano e quanto invece sia costruita da un mondo che vuole carne fresca da sfruttare. Io ho 34 anni e non mi definisco giovane. Un giovane per me ha tra i 19 e i 25 anni. Un giovane è qualcuno che deve fare esperienza. Un giovane è chi ha ancora gli occhi parzialmente bendati. Un trentenne ha già un bagaglio di esperienza non indifferente. Spesso ha un percorso di studio, un curriculum lungo quattro pagine. Dire a un trentenne “sei giovane” è un atto ingiusto, se non un’offesa. Significa
voler cancellare la sua vita, la strada che ha percorso per arrivare in lì. Significa minimizzarlo. Annullarlo. Ormai si passa dalla giovinezza alla vecchiaia senza attraversare la terra di mezzo
dell’età adulta. La cosa curiosa (o tremenda, fate un po’ voi) è che di solito per campare devi fare più cose, più coccodè, più progetti. Non solo: la mia esperienza personale di bambocciona precaria mi porta a dire che gli stipendi di un tempo ormai sono un miraggio, ancora più lontano del paradiso che promettono ai kamikaze in Medio Oriente. E anche i pagamenti in genere sono lontani nel tempo. Magari lavori oggi, e se tutto va bene i soldi li vedi tra sei mesi. Di precariato si è parlato un po’, folclorizzandolo parecchio, in campagna elettorale. Ora il tema è scomparso
dall’agenda pubblica. È il momento della caccia ai rom e ai clandestini. Tutto questo bla bla sull’immigrazione crea razzismo tra italiani e stranieri, tra stranieri e stranieri, tra figli di migranti e figli di chi è sempre vissuto qui. E distoglie l’attenzione dai problemi reali. Così al potere non si fanno più quelle domande serie, adulte che bisognerebbe rivolgergli. Una mia amica nordamericana, Maya, mi ha chiesto: “Perché in Italia la ricerca non è mai un tema centrale
in campagna elettorale?”. Cosa dirle? Pd, Pdl, Udc, Arcobaleni vari: nessuno ha toccato l’argomento. Un paese cresce se investe nella ricerca, se punta sui giovani e sugli adulti
bamboccioni. Gli italiani emigrano ancora tanto e per la maggior parte sono bamboccioni con tanto di dottorato di ricerca e idee strabilianti. L’Italia forma cervelli, lo fa ancora bene, ma poi non sa dove piazzarli. E intanto, invece di trovare una soluzione, si lancia l’allarme sicurezza.
Non so gli altri bamboccioni, ma per quanto mi riguarda il precariato mi dà molta più insicurezza dei delinquenti. Nel frattempo la politica del capro espiatorio va avanti. Oggi pagano i rom,
ma le vittime siamo tutti noi.
IGIABA SCEGO è nata a Roma nel 1974 da genitori somali. Ha pubblicato Rhoda (Sinnos 2004) e due racconti nell’antologia Pecore nere (Laterza 2005). Un suo racconto è uscito nella raccolta Amori bicolori (Laterza 2008).
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