Yumurta - di Semih Kaplanoğlu (2007)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: essendo turchi, penzavo fumassero di più
Istanbul, Turchia. Yusuf è un poeta che lavora in una libreria della capitale. All'improvviso, riceve una telefonata che gli annuncia la morte della madre. A quel punto, deve recarsi a Tire, nella provincia di Smirne, per il funerale e la burocrazia del caso. Sono anni che non mette piede nei luoghi della sua adolescenza, e il tumulto interno che il ritrovarsi nel mezzo a tanti ricordi, in un'occasione tanto triste, gli provoca un attacco epilettico. Inoltre, rientrando a casa, scopre che una sua giovane cugina, Ayla, una ragazza molto bella tra l'altro, che sta studiando per entrare all'Università ed andarsene da Tire, si è presa cura della madre per gli ultimi cinque anni. Tra i due si crea subito uno strano rapporto, di cortesia e rispetto, ma forse anche di qualcosa d'altro. Ayla, oltre che mandare avanti la casa e accudire la madre di Yusuf, è la depositaria delle ultime sue volontà, e le comunica al figlio: deve sacrificare un agnello, in un luogo sacro. Nonostante Yusuf provi a scansare questa responsabilità, l'attrazione per Ayla e per il proprio passato lo portano ad intraprendere un breve viaggio assieme alla cugina, per compiere il rito.
Come spesso (mi) succede, riassumendo la trama di film come questo, ad un certo punto devo fermarmi perché mi accorgo che altrimenti racconterei tutto il film, senza paura di fare spoiler, perché in realtà il fattore sorpresa sembra non esistere: i film, le storie, dal ritmo asiatico, come amo definirli generalizzando ma non troppo (perché in realtà, il ritmo dei film di un certo tipo, siano turchi, iraniani, coreani, taiwanesi, vietnamiti, è diverso da quello dei film che arrivano dall'Europa, dal Nord America, o dall'Oceania; opinione personalissima), hanno un ritmo che ricorda da vicino quello della vita che noi avevamo molti decenni fa, un ritmo che oserei definire "di campagna", rurale, anche antico se volete. Un ritmo che fa si che lo spettatore sia convinto che non stia accadendo niente, proprio mentre succede. Le cose scorrono lente, ma inesorabili. Soprattutto, difficilmente sono dette, le cose. I dialoghi sono pochi, sembrano di poco conto, ma significano sempre qualcosa di più. E poi le facce. Facce che parlano da sole. Capisco che è sempre difficile, affrontare film come questo se non ci si è almeno un poco abituati. Ma, come ho avuto occasione di dire per altri esemplari di cinema "dell'altro mondo", basta un piccolo sforzo, che verrà ripagato da una grande soddisfazione. Kaplanoğlu paga ovviamente dazio al più esperto compatriota Nuri Bilge Ceylan, così come ad altri registi che fanno parlare molto più le immagini rispetto ai dialoghi dei personaggi, mostrando uno spiccato gusto per l'inquadratura ad effetto, che funziona anche senza una fotografia straordinaria (grazie a panorami mozzafiato, di una terra che evidentemente, ne offre a profusione), e risulta perfino più delicato, sempre rispetto al più conosciuto connazionale. Non gli manca l'ironia, ma la dosa con molta parsimonia. Il film sembra non concludersi (e, in effetti, alla luce del fatto che sia la prima parte di una trilogia, potrebbe farla sembrare una cosa logica, ed invece non lo è, visto che la trilogia va in ordine cronologico inverso), lascia allo spettatore la soddisfazione di immaginarsi il proseguimento degli accadimenti, ma riesce ad affascinare anche nel suo svolgimento. La nostalgia del ritorno, dei tempi della giovinezza, e al tempo stesso la speranza di un futuro condiviso, di andare avanti senza dimenticare il passato. Specchiarsi in un avvenimento in cui ci si imbatte casualmente. Camminare nella neve. Gli occhi, splendidi, di una donna giovane ma fortissima e delicata al tempo stesso (una davvero meravigliosa Saadet Aksoy nei panni di Ayla, una specie di Nelly Furtado di campagna, due occhi che ti fulminano), che ti stregano. Un pianto liberatorio. Tutto questo è Yumurta.
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