The Wild and Wonderful Whites of West Virginia - di Julien Nitzberg (2009 - Inedito in Italia)
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Way down in West Virginia/There are some people who are one of a kind
They don't need nothin' from nobody/'Cause they're already doin' fine
Comincia così D Ray White, una canzone di Hank Williams III dal suo Straight to Hell, un pezzo che parla, oltre che appunto del soggetto che titola la canzone, della sua famiglia. D. Ray White ed il figlio Jesco, sono riconosciuti come "notable residents" nella scheda Wikipedia della Contea di Boone, West Virginia. E però c'è del marcio in Danimarca: i White non sono proprio cittadini modello (e già, se ne parla Hank III in una sua canzone, ci sarebbe quantomeno da insospettirsi). Sembra una battuta, ma come dice Perri Nemiroff su cinemablend.com, "non c'è un modo carino per dirlo: i White sono white trash" (e qui vi invito, nel caso non aveste mai sentito la definizione, a leggere la definizione linkata). Il regista Julien Nitzberg, già regista del docu-corto su Hasil Adkins (leggendario musicista e altro notable residents della Boone County), e produttore di Dancing Outlaw, documentario su Jesco White del 1991, insieme alla Dickhouse Productions di Johnny Knoxville (Jackass; indizio che potrebbe portare lo spettatore fuori strada prima di aver visto il documentario in questione), indaga, seppur superficialmente, sulla famiglia White, sul loro habitat, e sulle relazioni familiari e con "l'esterno". Regalandoci uno spaccato statunitense che può sorprendere solo gli ingenui, ma che, con andamento altalenante e con intenzioni che non si capiscono fino in fondo, ci fanno capire che non è davvero tutto oro quello che luccica, e che il progresso di una delle nazioni più industrializzate del mondo ha lasciato senza dubbio qualche strascico, per dirla senza affondare troppo.
D. Ray ed in seguito Jesco, sono stati riconosciuti come favolosi mountain dancers, e pure qua ci sarebbe da approfondire (la mountain dance o clogging è un tipo di danza popolare che affonda le radici in Europa e, influenzata da altre danze africane e sudamericane, arriva negli USA agli inizi del secolo scorso, diventando di largo uso nella zona dei monti Appalachi; diffusa tra i minatori, ancora oggi è la danza ufficiale degli stati del Kentucky e del North Carolina); ma, vuoi lo sfondo sociale, vuoi la predisposizione, ha fatto si che la famiglia sia sempre stata considerata outlaw. Cominciando con un tono leggero, scherzoso, proseguendo come un dramma, evolvendosi in una sorta di reality kitsch (lo so, è una sorta di ripetizione), insinuando i motivi sociali per una tale assenza di evoluzione in una famiglia in cui qualcuno aveva pure delle qualità, con l'apparizione di Hank III e le interviste sia ai membri della enorme famiglia, sia ai locali non imparentati che alle Forze dell'Ordine, The Wild and Wonderful Whites of West Virginia è un documentario dall'indubbio fascino che ti lascia al tempo stesso attonito e divertito, indeciso sul senso di colpa che umanamente viene da provare per aver guardato con condiscendenza i vari membri dei selvaggi e meravigliosi White. Plus, credetemi, ci sono delle facce in questa famiglia che vale la pena di vedere almeno una volta.
Non c'entra niente, ma la visione di questo documentario dà tutto un altro senso alla visione della serie Justified.
No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20130331
20130330
zan zan zan zan le belle rane
Ciao Enzo,
sei per me l'occhio e il cervello artistico di milano.
la libertà senza confini.
tu, leggero con i leoni, incazzato degli ospedali, arrapato con le rane e deluso davanti alle fotografie.
mi mancherai.
sei per me l'occhio e il cervello artistico di milano.
la libertà senza confini.
tu, leggero con i leoni, incazzato degli ospedali, arrapato con le rane e deluso davanti alle fotografie.
mi mancherai.
ciao
Una delle prime cose che mi sono venute in mente alla notizia della morte di Enzo Jannacci è stata che di sicuro, anche se non ne abbiamo mai parlato, era uno dei pochi artisti che piacevano al mio co-blogger. La seconda è stata ripensare alla copia del 45 giri di Vengo anch'io. No tu no con quel pezzettino mancante che sembrava un morso. Era piccolo (il "morso"), non m'impediva di ascoltarlo. Avevo circa 5 anni e insieme a Stasera mi butto di Rocky Roberts era la colonna sonora delle mie giornate spensierate.
Ogni cosa che potrei dire saprebbe di frase fatta, e oggi ne leggerete e sentirete a centinaia. Quindi aggiungerò solo che di quel suo concerto di qualche anno fa, proprio qui al paesello, nel teatro, da adulto, in mezzo anche a signore impellicciate proprio come si fa a teatro, ho un ricordo indelebile soprattutto per lui, più che per le sue bellissime canzoni.
Ogni cosa che potrei dire saprebbe di frase fatta, e oggi ne leggerete e sentirete a centinaia. Quindi aggiungerò solo che di quel suo concerto di qualche anno fa, proprio qui al paesello, nel teatro, da adulto, in mezzo anche a signore impellicciate proprio come si fa a teatro, ho un ricordo indelebile soprattutto per lui, più che per le sue bellissime canzoni.
sesso droga e rock and roll
Sex & Drugs & Rock & Roll - di Mat Whitecross (2010 - Inedito in Italia)
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Ian Robbins Dury nasce ad Harrow, sobborgo di Londra, nel maggio del 1942. A sette anni contrae la poliomelite, che lo lascerà zoppo, con un fisico goffo. Studia letteratura, arte e recitazione, ma la sua passione sembra essere la pittura. Sposa Elizabeth "Betty" Rathmell nel 1967, dalla quale avrà due figli, Jemima e Baxter. Il loro è un rapporto pieno di contrasti, divorzieranno nel 1985, ma rimarranno sempre molto legati. Nel 1971, Ian forma una band, i Kilburn & the High Roads, che esistono con risultati alterni fino al 1975. Ian si mette in proprio, acquisendo i membri di un'altra band sciolta da poco, e così vedono la luce i Blockheads, aggiungendo il grande Chaz Jankel (che porta l'influenza funk nel punk rock delle due band, particolarità che li distinguerà dagli altri e ne diventerà il marchio di fabbrica), già con Dury nei Kilburn. Ian Dury ed i suoi Blockheads diventano una delle band più importanti del movimento punk e new wave, scrivendo canzoni memorabili e di grande successo anche commerciale (tra le quali anche quella che dà il titolo a questo film, un rock anthem universalmente riconosciuto). Ian Dury si distinguerà per il suo accento cockney e per le liriche mai banali, piene di poesia, ironia, giochi di parole, critica sociale e politica.
Morirà di cancro il 27 marzo del 2000 (dopo che due anni prima Bob Geldof ne aveva erroneamente annunciato la morte durante un programma radiofonico), descritto da Suggs, il cantante dei Madness, "possibly the finest lyricist we've seen". Questo film ci racconta un po' della sua vita, indicativamente dal suo ingresso nel mondo della musica, e ci aiuta a conoscere meglio un personaggio importante, che purtroppo in Italia non fu mai apprezzato a dovere.
E' un ottimo film questo del regista che aveva firmato qualche anno fa, insieme a Michael Winterbottom, il crudo Road To Guantanamo. Un film che naturalmente non ha trovato la distribuzione italiana, e che invece sarebbe stato davvero interessante, come ho detto poco prima, per conoscere un po' meglio un artista che in Italia è stato conosciuto poco, e soprattutto sull'onda del pezzo che intitola il film stesso. Io per primo conoscevo poco la storia di Ian Dury, e questo Sex & Drugs & Rock & Roll, recitato alla grande da un cast di caratteristi in grande forma e diretto con grande ritmo, mi ha aiutato ed incuriosito, regalandomi una figura, seppur postuma, davvero degna di nota.
Spettacolare Andy Serkis (il Gollum della trilogia dell'anello) nei panni di Dury, che come di consueto si cala anima e corpo nella figura traballante e nervosa del protagonista, per farlo rivivere e dargli lustro. Sempre diligente Olivia Williams, qui nei panni di Betty Dury, ottima Naomie Harris nella parte di Denise Roudette. C'è anche Toby Jones nella parte di Hargreaves.
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Ian Robbins Dury nasce ad Harrow, sobborgo di Londra, nel maggio del 1942. A sette anni contrae la poliomelite, che lo lascerà zoppo, con un fisico goffo. Studia letteratura, arte e recitazione, ma la sua passione sembra essere la pittura. Sposa Elizabeth "Betty" Rathmell nel 1967, dalla quale avrà due figli, Jemima e Baxter. Il loro è un rapporto pieno di contrasti, divorzieranno nel 1985, ma rimarranno sempre molto legati. Nel 1971, Ian forma una band, i Kilburn & the High Roads, che esistono con risultati alterni fino al 1975. Ian si mette in proprio, acquisendo i membri di un'altra band sciolta da poco, e così vedono la luce i Blockheads, aggiungendo il grande Chaz Jankel (che porta l'influenza funk nel punk rock delle due band, particolarità che li distinguerà dagli altri e ne diventerà il marchio di fabbrica), già con Dury nei Kilburn. Ian Dury ed i suoi Blockheads diventano una delle band più importanti del movimento punk e new wave, scrivendo canzoni memorabili e di grande successo anche commerciale (tra le quali anche quella che dà il titolo a questo film, un rock anthem universalmente riconosciuto). Ian Dury si distinguerà per il suo accento cockney e per le liriche mai banali, piene di poesia, ironia, giochi di parole, critica sociale e politica.
Morirà di cancro il 27 marzo del 2000 (dopo che due anni prima Bob Geldof ne aveva erroneamente annunciato la morte durante un programma radiofonico), descritto da Suggs, il cantante dei Madness, "possibly the finest lyricist we've seen". Questo film ci racconta un po' della sua vita, indicativamente dal suo ingresso nel mondo della musica, e ci aiuta a conoscere meglio un personaggio importante, che purtroppo in Italia non fu mai apprezzato a dovere.
E' un ottimo film questo del regista che aveva firmato qualche anno fa, insieme a Michael Winterbottom, il crudo Road To Guantanamo. Un film che naturalmente non ha trovato la distribuzione italiana, e che invece sarebbe stato davvero interessante, come ho detto poco prima, per conoscere un po' meglio un artista che in Italia è stato conosciuto poco, e soprattutto sull'onda del pezzo che intitola il film stesso. Io per primo conoscevo poco la storia di Ian Dury, e questo Sex & Drugs & Rock & Roll, recitato alla grande da un cast di caratteristi in grande forma e diretto con grande ritmo, mi ha aiutato ed incuriosito, regalandomi una figura, seppur postuma, davvero degna di nota.
Spettacolare Andy Serkis (il Gollum della trilogia dell'anello) nei panni di Dury, che come di consueto si cala anima e corpo nella figura traballante e nervosa del protagonista, per farlo rivivere e dargli lustro. Sempre diligente Olivia Williams, qui nei panni di Betty Dury, ottima Naomie Harris nella parte di Denise Roudette. C'è anche Toby Jones nella parte di Hargreaves.
20130329
awards
Facendo finta di aver capito questo post e questa specie di catena di Sant'Antonio blogghistica, proseguo ringraziando Dantès del blog Montecristo, e vado avanti seguendo lo schema.
1) ringraziare chi ha assegnato il premio citandolo nel post
2) rispondere alle undici domande poste dal blog che mi ha premiato
3) scrivere undici cose su di me
4) premiare undici blog che hanno meno di 200 followers
5) formulare altre undici domande a cui dovranno rispondere gli altri blogger
6) informare i blog del premio.
Vado col punto 2
1) Cos'hai pensato la prima volta che hai visitato questo blog?
Azz, questo ne sa. E soprattutto con 5 righe riesce a dire quello che non riesco a dire io in 50. Mi piace.
2) Più o meno quanti libri leggi in un anno?
Mi sto impegnando ad alzare il numero, ma è dura. L'anno scorso 36.
3) Cosa pensi di quelli che votano scheda bianca perché la politica l'è una roba sporca?
Li capisco fino ad un certo punto, visto che io è da qualche giro che non voto proprio. Li ammiro da una parte perché fanno anche la fatica di andare al seggio, cosa che fino a qualche anno fa mi piaceva proprio. Da un po' di anni non mi sento rappresentato e soprattutto mi sono rotto i coglioni di essere italiano.
4) Qual è la cosa più imbarazzante che ti è capitata?
Essere costretto a cagare in auto. La mia.
5) Quella più stupida?
Cagare dal finestrino del treno in corsa, credo.
6) Hai mai contestato uno spettacolo dal vivo facendo bu e robe simili?
Si. Non ne vado fiero, ma all'epoca ero un metallaro duro e puro, e quando i RAF accompagnarono Jovanotti a Sanremo e poi qualche mese dopo aprirono per i Manowar, fomentai una contestazione sotto al palco. Altre volte ho contestato l'apertura dei cancelli in ritardo di altri concerti, quasi sempre per ritardi delle Forze dell'Ordine.
7) Quale canzone che reputi orrenda conosci a memoria?
Así de Fácil di Otto Serge.
8) Definisci dio in poche parole comprensibili
Entità Superiore non Identificata.
9) Una delle cose che non faresti mai?
Chiedere uno sconto.
10) Cosa vorresti aver fatto prima di morire?
Il giro del mondo.
11) Cos'hai pensato la penultima volta che hai visitato questo blog?
Azz stavolta ha scritto un post lunghissimo!
Punto 3
1)Faccio battute sui capelli degli altri come se ne avessi.
2)Vorrei avere gli addominali di Gesù.
3)Mi piacerebbe apprezzare di più i cibi, invece mi rendo conto di essere ignorante in materia.
4)Una volta pensavo che il mondo del lavoro fosse molto simile a quello della scuola. Adesso che son passati circa 30 anni mi sembra che sia molto peggio.
5)Non ho più voglia di uscire, e mi faccio un po' cagare per questo, ma trovo sia giusto farlo se mi va.
6)Non riesco più a vedere film e serie tv doppiate in italiano.
7)Non capisco più la serie A di calcio.
8)Ho paura di innamorarmi ma al tempo stesso ho paura di non innamorarmi più.
9)Sto ancora pensando di andarmene dall'Italia quando e se riuscirò ad andare in pensione.
10)Mi piacerebbe avere il pisello più grosso.
11)Ho paura a prendere il Viagra.
Punto 4 (premesso che non so come si capisce quanti followers abbiano, e seguo pochi blog quindi probabillmente molti di questi non sono attivi da un po', spero di solleticarli)
http://abottleofsmoke.blogspot.com/
http://lastexitstrategy.blogspot.com/
http://lagazzettadiguelfo.myblog.it/
http://romeo-nemesis.blogspot.com/
http://drunkside.blogspot.com/
http://terra-di-nessuno.blogspot.com/
http://suevele.blogspot.com/
http://iacopocupelli.wordpress.com/
http://piazzatatu.blogspot.com/
http://lesirenedititano.blogspot.com/
http://inlovewithjaniejones.blogspot.com/
Punto 5
1)viaggio mai fatto ma molto desiderato
2)libro preferito
3)citta preferita (italiana o straniera)
4)film preferito
5)squadra del cuore (una, di qualsiasi sport)
6)serie tv preferita
7)nazione dove vorresti espatriare
8)pratica sessuale preferita
9)infradito o ciabatte a fascia?
10)pizza o mandolino?
11)disco da portare sull'isola deserta
Ora posto e avverto (punto 6)
The Woman That Dreamed About a Man
Kvinden der dromte om en mand - di Per Fly (2010 - Inedito in Italia)
Copenhagen. Karen è una fotografa di moda di grande successo, sempre in giro per il mondo per i suoi servizi richiesti e ben pagati. Ha poco tempo per la sua famiglia, il marito Johan e la figlia, ma l'affetto non manca, per cui non ci sono problemi. Non ci sono problemi finché Karen, a Parigi per lavoro, incrocia un uomo misterioso verso il quale sente immediatamente un'attrazione incontrollabile. E tra i due accade qualcosa, che potrebbe essere la classica "botta e via", ma per Karen, Maciek, un professore polacco della Scuola di Economia di Varsavia, a Parigi per una conferenza, diventa un'ossessione, perché riconosce in lui l'uomo dei suoi sogni (letteralmente). E la cosa diventa folle quando, con la scusa di un lavoro a Varsavia, Karen si porta dietro marito e figlia per inseguire Maciek fin sotto casa, scoprendo così che anche lui ha una famiglia, e accetta di aspettarlo per ore in un appartamento posto esattamente davanti alla sua casa di famiglia, per condividere con lui la passione, finché Maciek si stanca di lei.
Per Fly è un regista davvero molto interessante, e ve ne ho parlato in più occasioni, a proposito della sua cosiddetta "trilogia delle classi sociali", composta da La panchina, L'eredità e Gli innocenti. Questo film segue la trilogia, ma è completamente staccato da quei lavori e da quel mood. Fly gioca a fare l'Antonioni (e si evince facilmente fin dalla locandina), e se per una parte del film ci riesce (e di certo lo supera, se pensiamo agli ultimi lavori del regista scomparso qualche anno fa), mantenendo una narrazione lenta ma incessante, alternando tensione e momenti di abitudine familiare difficili da sopportare per lo spettatore che "sa", non riesce a portare a casa il risultato, usando la più classica delle metafore sportive, nonostante bei movimenti di macchine, ottima fotografia e perlomeno due ottime prove recitative, quelle della protagonista Sonja Richter (Karen), già vista in Open Hearts di Susanne Bier, e del per me sconosciuto Marcin Dorocinski (Maciek), attore polacco che certamente possiede il physique du role per questo ruolo. Nel cast anche Michael Nyqvist (Johan), il Mikael Blomkvist della trilogia Millennium nella versione cinematografica svedese.
Un film non del tutto convincente che però conferma un regista da seguire con un occhio di riguardo.
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Copenhagen. Karen è una fotografa di moda di grande successo, sempre in giro per il mondo per i suoi servizi richiesti e ben pagati. Ha poco tempo per la sua famiglia, il marito Johan e la figlia, ma l'affetto non manca, per cui non ci sono problemi. Non ci sono problemi finché Karen, a Parigi per lavoro, incrocia un uomo misterioso verso il quale sente immediatamente un'attrazione incontrollabile. E tra i due accade qualcosa, che potrebbe essere la classica "botta e via", ma per Karen, Maciek, un professore polacco della Scuola di Economia di Varsavia, a Parigi per una conferenza, diventa un'ossessione, perché riconosce in lui l'uomo dei suoi sogni (letteralmente). E la cosa diventa folle quando, con la scusa di un lavoro a Varsavia, Karen si porta dietro marito e figlia per inseguire Maciek fin sotto casa, scoprendo così che anche lui ha una famiglia, e accetta di aspettarlo per ore in un appartamento posto esattamente davanti alla sua casa di famiglia, per condividere con lui la passione, finché Maciek si stanca di lei.
Per Fly è un regista davvero molto interessante, e ve ne ho parlato in più occasioni, a proposito della sua cosiddetta "trilogia delle classi sociali", composta da La panchina, L'eredità e Gli innocenti. Questo film segue la trilogia, ma è completamente staccato da quei lavori e da quel mood. Fly gioca a fare l'Antonioni (e si evince facilmente fin dalla locandina), e se per una parte del film ci riesce (e di certo lo supera, se pensiamo agli ultimi lavori del regista scomparso qualche anno fa), mantenendo una narrazione lenta ma incessante, alternando tensione e momenti di abitudine familiare difficili da sopportare per lo spettatore che "sa", non riesce a portare a casa il risultato, usando la più classica delle metafore sportive, nonostante bei movimenti di macchine, ottima fotografia e perlomeno due ottime prove recitative, quelle della protagonista Sonja Richter (Karen), già vista in Open Hearts di Susanne Bier, e del per me sconosciuto Marcin Dorocinski (Maciek), attore polacco che certamente possiede il physique du role per questo ruolo. Nel cast anche Michael Nyqvist (Johan), il Mikael Blomkvist della trilogia Millennium nella versione cinematografica svedese.
Un film non del tutto convincente che però conferma un regista da seguire con un occhio di riguardo.
20130328
notte spaventosa
Fright Night - Il vampiro della porta accanto - di Craig Gillespie (2011)
Giudizio sintetico: si può perdere (1,5/5)
Las Vegas. Charley Brewster, che vive con la madre Jane, agente immobiliare, è un liceale che di recente ha subito una trasformazione sociale. Da nerd (anzi, dork) si è trasformato in uno dei ragazzi più popolari della scuola, conquistando la bellissima e desideratissima Amy, ed entrando quindi nel circolo sociale più ambito e cool. Non potrebbe andare meglio, anche se in questo processo, ha abbandonato i suoi vecchi e sfigati amici, in particolare Ed. La tensione tra Charley e Ed si fa altissima quando quest'ultimo, insospettito dalla sparizione di un loro comune amico, comincia a sospettare che Jerry, il misterioso ma affascinante nuovo vicino dei Brewster, sia un vampiro. Charley litiga pesantemente con Ed, ma presto dovrà ricredersi, insieme a tutti i suoi cari.
E' stato per me un momento abbastanza triste quando ho realizzato che il regista di questo inutile remake di Ammazzavampiri del 1985 (in originale hanno lo stesso titolo, Fright Night) è lo stesso di quel delizioso capolavoro che fu Lars e una ragazza tutta sua. Lo dico tra l'altro senza aver mai visto né l'originale, né il suo sequel del 1988. Non trovo nessun ragionevole motivo per spingere qualcuno a vedere questo film, che risulta assolutamente nella media come direzione, recitazione, effetti speciali, ironia e fotografia, per cui passo direttamente ad aggiungere qualche riga di curiosità e gossip.
Protagonisti due giovani attori che avranno sicuramente una scintillante carriera, e che già abbiamo avuto modo di apprezzare in diversi film, Anton Yelchin (Charley) e la bella Imogen Poots (Amy). Co-protagonisti Colin Farrell (Jerry) e Toni Collette (Jane), nel cast presenti anche Christopher Mintz-Plasse (Suxbad, Kick-Ass) nei panni di Ed, Sandra Vergara (si, sorella di Sofia, anche se in realtà sarebbe la cugina, biologicamente) e Lisa Loeb (che "conoscevo" come cantante).
E' veramente tutto qui.
Giudizio sintetico: si può perdere (1,5/5)
Las Vegas. Charley Brewster, che vive con la madre Jane, agente immobiliare, è un liceale che di recente ha subito una trasformazione sociale. Da nerd (anzi, dork) si è trasformato in uno dei ragazzi più popolari della scuola, conquistando la bellissima e desideratissima Amy, ed entrando quindi nel circolo sociale più ambito e cool. Non potrebbe andare meglio, anche se in questo processo, ha abbandonato i suoi vecchi e sfigati amici, in particolare Ed. La tensione tra Charley e Ed si fa altissima quando quest'ultimo, insospettito dalla sparizione di un loro comune amico, comincia a sospettare che Jerry, il misterioso ma affascinante nuovo vicino dei Brewster, sia un vampiro. Charley litiga pesantemente con Ed, ma presto dovrà ricredersi, insieme a tutti i suoi cari.
E' stato per me un momento abbastanza triste quando ho realizzato che il regista di questo inutile remake di Ammazzavampiri del 1985 (in originale hanno lo stesso titolo, Fright Night) è lo stesso di quel delizioso capolavoro che fu Lars e una ragazza tutta sua. Lo dico tra l'altro senza aver mai visto né l'originale, né il suo sequel del 1988. Non trovo nessun ragionevole motivo per spingere qualcuno a vedere questo film, che risulta assolutamente nella media come direzione, recitazione, effetti speciali, ironia e fotografia, per cui passo direttamente ad aggiungere qualche riga di curiosità e gossip.
Protagonisti due giovani attori che avranno sicuramente una scintillante carriera, e che già abbiamo avuto modo di apprezzare in diversi film, Anton Yelchin (Charley) e la bella Imogen Poots (Amy). Co-protagonisti Colin Farrell (Jerry) e Toni Collette (Jane), nel cast presenti anche Christopher Mintz-Plasse (Suxbad, Kick-Ass) nei panni di Ed, Sandra Vergara (si, sorella di Sofia, anche se in realtà sarebbe la cugina, biologicamente) e Lisa Loeb (che "conoscevo" come cantante).
E' veramente tutto qui.
20130327
Looking for Eric
Tremenda (in senso positivo) serie di documentari su 5 calciatori simbolo, a cura di Eric Cantona ed Al Jazeera, regia di Gilles Rof. Da vedere. Andate su questo link e cliccate sopra i ritratti. 25 minuti cadauno, in inglese.
http://www.aljazeera.com/programmes/footballrebels/
http://www.aljazeera.com/programmes/footballrebels/
ragazze
Girls - di Lena Dunham - Stagioni 1 e 2 (10 episodi ciascuna; HBO) - 2012/2013
Sex & the City ai tempi della crisi? Chissà. E' nella stessa New York, ma ai nostri tempi, che vivono (e sognano) quattro amiche. Hannah Horvath viene dal Michigan, ed è un'aspirante scrittrice. E' convinta di essere molto intelligente, e molto alternative (quindi molto snob), ma la realtà è che è senza un soldo. Non è quel che si dice una top model, ma sembra non avere nessun problema con il suo corpo, anche se decisamente fatica a controllare la sua dipendenza dal cibo, con una certa preferenza per il junk-food. Marnie Michaels è la sua amica del cuore, fin dai tempi del college, l'Oberlin. Marnie è una maniaca del controllo, lavora come segretaria in una galleria d'arte, è bellissima ma profondamente insicura. Il suo fidanzato storico è Charlie, un ragazzo dolce che è molto innamorato di lei, ma Marnie si sente soffocata dalle sue attenzioni. Spesso, non si capisce il motivo per cui Marnie ed Hannah siano amiche. Vivono insieme nella zona di Greenpoint, Brooklyn.
Loro amica comune è la selvaggia Jessa Johansson. Inglese, conosciuta dalle due allo stesso college, ha dovuto lasciarlo dopo qualche mese per una grave dipendenza dall'eroina. Ha girato il mondo con la madre, ma è da poco tornata a New York, e si è stabilita a casa di sua cugina, Shoshanna Shapiro. Jessa e Shoshanna sono agli antipodi, ma entrambe frequentano Hannah e Marnie. Jessa è sicura di sé, almeno apparentemente, impulsiva fino all'eccesso, imprevedibile e folle, beve, fuma, si droga, fa sesso con chiunque, conservando quell'altezzosità inglese che fa di lei una persona che le altre ragazze guardano quasi con invidia, sicuramente con ammirazione. Shoshanna è praticamente schizofrenica, indicativamente la più giovane delle quattro, attentissima alle mode, parla a raffica con tic verbali tipici dei giovanissimi, ed è l'unica vergine del gruppo, cosa che le crea qualche insicurezza in più, rispetto al già lungo elenco che è in suo possesso. E' una grande fan di Sex & the City.
Attorno alle ragazze, tutte tra i 20 e i 30 anni, ruotano un altro paio di ragazzi. Adam Sackler è il ragazzo di Hannah. Personaggio fuori da ogni schema, attore e falegname, vive in un appartamento che somiglia più ad un magazzino di un robivecchi, esce poco, gli piace il sesso rude, non sembra interessato ad avere una relazione seria con Hannah. Ray Ploshansky è un grande amico di Charlie, è il più "anziano" del gruppo (ha più di trent'anni), dirige un bar nella zona di Greenpoint, e col tempo diventerà sempre più legato alla cerchia.
Devo dire che dopo aver visto le prime due stagioni di Girls (la seconda è terminata poche settimane fa), trovandomi "costretto" a riassumerne i caratteri principali, mi sembra che sia più interessante a raccontarlo che a vederlo. Ma, attenzione, non è propriamente una critica, questa, ed il perché, è presto detto, è che nonostante la profonda sensazione negativa che ti lascia quasi ogni episodio, nonostante le aspre critiche che gli si possano fare, e nonostante che sia una serie che riesce a dividere in maniera importante il giudizio del pubblico, Girls sembra essere una serie che cerca di acchiappare davvero il senso, i valori dell'attuale gioventù statunitense. E, questo va detto, il quadro non è propriamente dei più incoraggianti.
Riprendendo anche la cosa che ho detto prima, e cioè quella a proposito della sensazione negativa, le quattro protagoniste di questa serie, nonostante siano persone che ormai dovrebbero essere responsabili, sono quattro donne che non sanno assolutamente cosa vogliono dalla loro vita. Vivono ogni loro giornata commettendo sbagli enormi, colossali a volte, e quando li vediamo a confronto con i loro genitori capiamo pure che di sicuro non sono loro che potrebbero guidarli da qualche parte o verso qualcosa. Sia sul versante lavorativo che su quello sentimentale, Hannah, Marnie, Jessa e Shoshanna, non hanno la più pallida idea di cosa vogliono, come dovrebbero comportarsi, cosa fare in concreto. Agiscono spinte dall'impulso del momento, e forse l'unica che riflette un minimo è Shoshanna, quella con il minutaggio minore sullo schermo rispetto alle altre, e che di sicuro al primo impatto appare la meno normale, schizzata com'è. Ecco quindi uno dei motivi per cui guardare Girls non è una passeggiata. Cioè, è una serie che quasi sempre ti irrita, tanto sono stupidi i comportamenti delle protagoniste: non ci si crede alle cose che riescono a fare, alle cazzate che riescono a mettere in piedi, e mica una volta sola!
Creata da Lena Dunham, sceneggiatrice attrice e regista, conosciuta per il suo film Tiny Furniture, Girls è decisamente personale, anche se spesso risente pesantemente proprio della personalità della sua creatrice, che dirige molti degli episodi e che interpreta uno dei caratteri protagonisti, Hannah. La Dunham scrive praticamente sempre cose molto autobiografiche, e quindi il tutto assume spesso un profilo che può interessare fino ad un certo punto. Come detto, per contro, la serie è innegabilmente originale (anche se il riferimento che ho fatto in apertura rimane valido) e spesso disturbante, e chi ha un cervello sa che non si può vivere di soli zuccheri e lieto fine. Altre critiche che spesso vengono mosse alla serie riguardano sempre la Dunham, che si spoglia praticamente ad ogni episodio (e che addirittura si "regala" un intero episodio a letto con Patrick Wilson - 2x05 One Man's Trash -): è vero, e spesso l'ho trovato forzato, ed è pure vero che preferirei vedere svestita Allison Williams (Marnie), che invece le poche volte che lo fa si copre insistentemente i seni, ma questo è soggettivo, e alla fine potrebbe rientrare tutto in quella "operazione" di disturbo che, chissà quanto volontariamente, Girls sembra prefiggersi, probabilmente nel tentativo di uscire dagli stereotipi. Interessanti le prove attoriali, quelle che mi hanno colpito maggiormente sono state quelle di Adam Driver (Adam Sackler) e di Zosia Mamet (Shoshanna). Curiosità: nella seconda stagione ci sono un paio di apparizioni di John Cameron Mitchell. Prodotto e spesso co-sceneggiato da Judd Apatow.
Insomma, è amore e odio, e nonostante mi sia ritrovato spesso con un'espressione attonita al termine degli episodi, sono abbastanza sicuro che continuerò a vedere Girls: la terza stagione, che consterà stavolta di 12 episodi, partirà probabilmente nel 2014.
Sex & the City ai tempi della crisi? Chissà. E' nella stessa New York, ma ai nostri tempi, che vivono (e sognano) quattro amiche. Hannah Horvath viene dal Michigan, ed è un'aspirante scrittrice. E' convinta di essere molto intelligente, e molto alternative (quindi molto snob), ma la realtà è che è senza un soldo. Non è quel che si dice una top model, ma sembra non avere nessun problema con il suo corpo, anche se decisamente fatica a controllare la sua dipendenza dal cibo, con una certa preferenza per il junk-food. Marnie Michaels è la sua amica del cuore, fin dai tempi del college, l'Oberlin. Marnie è una maniaca del controllo, lavora come segretaria in una galleria d'arte, è bellissima ma profondamente insicura. Il suo fidanzato storico è Charlie, un ragazzo dolce che è molto innamorato di lei, ma Marnie si sente soffocata dalle sue attenzioni. Spesso, non si capisce il motivo per cui Marnie ed Hannah siano amiche. Vivono insieme nella zona di Greenpoint, Brooklyn.
Loro amica comune è la selvaggia Jessa Johansson. Inglese, conosciuta dalle due allo stesso college, ha dovuto lasciarlo dopo qualche mese per una grave dipendenza dall'eroina. Ha girato il mondo con la madre, ma è da poco tornata a New York, e si è stabilita a casa di sua cugina, Shoshanna Shapiro. Jessa e Shoshanna sono agli antipodi, ma entrambe frequentano Hannah e Marnie. Jessa è sicura di sé, almeno apparentemente, impulsiva fino all'eccesso, imprevedibile e folle, beve, fuma, si droga, fa sesso con chiunque, conservando quell'altezzosità inglese che fa di lei una persona che le altre ragazze guardano quasi con invidia, sicuramente con ammirazione. Shoshanna è praticamente schizofrenica, indicativamente la più giovane delle quattro, attentissima alle mode, parla a raffica con tic verbali tipici dei giovanissimi, ed è l'unica vergine del gruppo, cosa che le crea qualche insicurezza in più, rispetto al già lungo elenco che è in suo possesso. E' una grande fan di Sex & the City.
Attorno alle ragazze, tutte tra i 20 e i 30 anni, ruotano un altro paio di ragazzi. Adam Sackler è il ragazzo di Hannah. Personaggio fuori da ogni schema, attore e falegname, vive in un appartamento che somiglia più ad un magazzino di un robivecchi, esce poco, gli piace il sesso rude, non sembra interessato ad avere una relazione seria con Hannah. Ray Ploshansky è un grande amico di Charlie, è il più "anziano" del gruppo (ha più di trent'anni), dirige un bar nella zona di Greenpoint, e col tempo diventerà sempre più legato alla cerchia.
Devo dire che dopo aver visto le prime due stagioni di Girls (la seconda è terminata poche settimane fa), trovandomi "costretto" a riassumerne i caratteri principali, mi sembra che sia più interessante a raccontarlo che a vederlo. Ma, attenzione, non è propriamente una critica, questa, ed il perché, è presto detto, è che nonostante la profonda sensazione negativa che ti lascia quasi ogni episodio, nonostante le aspre critiche che gli si possano fare, e nonostante che sia una serie che riesce a dividere in maniera importante il giudizio del pubblico, Girls sembra essere una serie che cerca di acchiappare davvero il senso, i valori dell'attuale gioventù statunitense. E, questo va detto, il quadro non è propriamente dei più incoraggianti.
Riprendendo anche la cosa che ho detto prima, e cioè quella a proposito della sensazione negativa, le quattro protagoniste di questa serie, nonostante siano persone che ormai dovrebbero essere responsabili, sono quattro donne che non sanno assolutamente cosa vogliono dalla loro vita. Vivono ogni loro giornata commettendo sbagli enormi, colossali a volte, e quando li vediamo a confronto con i loro genitori capiamo pure che di sicuro non sono loro che potrebbero guidarli da qualche parte o verso qualcosa. Sia sul versante lavorativo che su quello sentimentale, Hannah, Marnie, Jessa e Shoshanna, non hanno la più pallida idea di cosa vogliono, come dovrebbero comportarsi, cosa fare in concreto. Agiscono spinte dall'impulso del momento, e forse l'unica che riflette un minimo è Shoshanna, quella con il minutaggio minore sullo schermo rispetto alle altre, e che di sicuro al primo impatto appare la meno normale, schizzata com'è. Ecco quindi uno dei motivi per cui guardare Girls non è una passeggiata. Cioè, è una serie che quasi sempre ti irrita, tanto sono stupidi i comportamenti delle protagoniste: non ci si crede alle cose che riescono a fare, alle cazzate che riescono a mettere in piedi, e mica una volta sola!
Creata da Lena Dunham, sceneggiatrice attrice e regista, conosciuta per il suo film Tiny Furniture, Girls è decisamente personale, anche se spesso risente pesantemente proprio della personalità della sua creatrice, che dirige molti degli episodi e che interpreta uno dei caratteri protagonisti, Hannah. La Dunham scrive praticamente sempre cose molto autobiografiche, e quindi il tutto assume spesso un profilo che può interessare fino ad un certo punto. Come detto, per contro, la serie è innegabilmente originale (anche se il riferimento che ho fatto in apertura rimane valido) e spesso disturbante, e chi ha un cervello sa che non si può vivere di soli zuccheri e lieto fine. Altre critiche che spesso vengono mosse alla serie riguardano sempre la Dunham, che si spoglia praticamente ad ogni episodio (e che addirittura si "regala" un intero episodio a letto con Patrick Wilson - 2x05 One Man's Trash -): è vero, e spesso l'ho trovato forzato, ed è pure vero che preferirei vedere svestita Allison Williams (Marnie), che invece le poche volte che lo fa si copre insistentemente i seni, ma questo è soggettivo, e alla fine potrebbe rientrare tutto in quella "operazione" di disturbo che, chissà quanto volontariamente, Girls sembra prefiggersi, probabilmente nel tentativo di uscire dagli stereotipi. Interessanti le prove attoriali, quelle che mi hanno colpito maggiormente sono state quelle di Adam Driver (Adam Sackler) e di Zosia Mamet (Shoshanna). Curiosità: nella seconda stagione ci sono un paio di apparizioni di John Cameron Mitchell. Prodotto e spesso co-sceneggiato da Judd Apatow.
Insomma, è amore e odio, e nonostante mi sia ritrovato spesso con un'espressione attonita al termine degli episodi, sono abbastanza sicuro che continuerò a vedere Girls: la terza stagione, che consterà stavolta di 12 episodi, partirà probabilmente nel 2014.
20130326
Hearat Shulayim
Footnote - di Joseph Cedar (2011 - Inedito in Italia)
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Gerusalemme, Israele. Eliezer Shkolnik ed il figlio Uriel Shkolnik sono entrambi eminenti professori nello studio del Talmud all'Università Ebraica. Sono da sempre rivali, si detestano cordialmente. Il figlio ha sviluppato quasi una sorta di dipendenza dai riconoscimenti e dalle onoreficenze, il padre è un purista che nasconde la sua invidia nel rifiuto delle istituzioni che le assegnano. Entrambi eccentrici e pieni di sé, proseguono la loro vita immersi nei loro studi (a dire la verità molto più il padre rispetto al figlio), finché il premio più importante del loro campo, l'Israel Prize, viene assegnato al padre. Ma la cosa che sconvolge le loro vite è che il figlio scopre molto presto che in realtà, per un errore d'omonimia, il premio in realtà è destinato a lui.
Nella cinquina dei candidati al miglior film in lingua non inglese del 2012, Footnote è un altro di quei film che non ha avuto una distribuzione italiana denotando ancora una volta la cecità dei nostri distributori e pure la superficialità della stragrande maggioranza del pubblico ciniematografico. Perché Cedar, già candidato all'Oscar col precedente Beaufort (che mi impegno a recuperare), che gli fruttò un Orso d'Argento per la miglior regia a Berlino nel 2007, mette in scena una commedia grottesca dal profondo significato metaforico, denunciando l'ottusità di una società che evidentemente ben conosce (nato a New York, si è trasferito a Gerusalemme all'età di 5 anni), senza usare le armi (e potrei fermarmi qui) consuete quando si affronta il "problema" ebraico di una società arcaica e profondamente patriarcale.
Per quanto bravo Lior Ashkenazi nella parte del figlio Uriel, per quanto interessanti le figure femminili, naturalmente marginali, di Dikla (Alma Zack) e Noa (la splendida Yuval Scharf), ho trovato straordinaria la prestazione di Shlomo Bar-Aba nei panni di Eliezer Shkolnik.
Altro film da distribuire, altro regista da seguire.
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Gerusalemme, Israele. Eliezer Shkolnik ed il figlio Uriel Shkolnik sono entrambi eminenti professori nello studio del Talmud all'Università Ebraica. Sono da sempre rivali, si detestano cordialmente. Il figlio ha sviluppato quasi una sorta di dipendenza dai riconoscimenti e dalle onoreficenze, il padre è un purista che nasconde la sua invidia nel rifiuto delle istituzioni che le assegnano. Entrambi eccentrici e pieni di sé, proseguono la loro vita immersi nei loro studi (a dire la verità molto più il padre rispetto al figlio), finché il premio più importante del loro campo, l'Israel Prize, viene assegnato al padre. Ma la cosa che sconvolge le loro vite è che il figlio scopre molto presto che in realtà, per un errore d'omonimia, il premio in realtà è destinato a lui.
Nella cinquina dei candidati al miglior film in lingua non inglese del 2012, Footnote è un altro di quei film che non ha avuto una distribuzione italiana denotando ancora una volta la cecità dei nostri distributori e pure la superficialità della stragrande maggioranza del pubblico ciniematografico. Perché Cedar, già candidato all'Oscar col precedente Beaufort (che mi impegno a recuperare), che gli fruttò un Orso d'Argento per la miglior regia a Berlino nel 2007, mette in scena una commedia grottesca dal profondo significato metaforico, denunciando l'ottusità di una società che evidentemente ben conosce (nato a New York, si è trasferito a Gerusalemme all'età di 5 anni), senza usare le armi (e potrei fermarmi qui) consuete quando si affronta il "problema" ebraico di una società arcaica e profondamente patriarcale.
Per quanto bravo Lior Ashkenazi nella parte del figlio Uriel, per quanto interessanti le figure femminili, naturalmente marginali, di Dikla (Alma Zack) e Noa (la splendida Yuval Scharf), ho trovato straordinaria la prestazione di Shlomo Bar-Aba nei panni di Eliezer Shkolnik.
Altro film da distribuire, altro regista da seguire.
20130325
Superclassico
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Copenaghen. Christian è il proprietario di un'enoteca sull'orlo della bancarotta. La moglie Anna lo ha lasciato da quasi due anni, e vive in Argentina, nella capitale Buenos Aires, dove, per via del suo lavoro, procuratore calcistico, ha conosciuto e si è innamorata del famoso goleador Juan Diaz. Mentre Anna è felice, solare, attiva e piena di soldi, Christian, oltre, appunto, ad essere senza soldi, sull'orlo della bancarotta e del suicidio, è depresso, apatico, triste, e riflette questa sua tristezza sul figlio Oscar, più concentrato sui suoi studi di filosofia che sul divorzio dei genitori e sul fatto che sua madre sia dall'altra parte del mondo. Quando arrivano per posta i documenti da firmare, Christian, in uno scatto d'orgoglio, prende il figlio e parte per Buenos Aires, dove proverà in tutti i modi a riconquistare Anna, trovandosi in situazioni ridicole e perfino grottesche, dimenticandosi del figlio che soprendentemente incontrerà la sua strada da solo, scongelando il cuore grazie al calore argentino, e capirà che non tutto gira intorno al perduto amore.
Ole Christian Madsen è un altro regista danese da tenere d'occhio. Fattosi le ossa in televisione (quella danese; televisone alla quale è tornato ultimamente, lasciando il segno, visto che è regista di un paio di episodi di Banshee, tra cui quello forse migliore, Wicks), dopo un paio di lungometraggi si mette in luce con L'ombra del nemico (ne parleremo tra un po', titolo originale Flammen & Citronen, con Mads Mikkelsen), e con questo Superclàsico entra nella shortlist di nove film candidati all'Oscar 2012 nella categoria Best Foreign Language per poi essere escluso nel passaggio a cinque nominati. E però dimostra di saper maneggiare toni e generi diversissimi tra di loro, se è vero che questa strana commedia sentimentale è stata paragonata alle migliori cose di Woody Allen, e devo dire (avendo visto il film senza sottotitoli, capendo quindi solo le parti in inglese e in spagnolo, ed andando quindi per intuizione con quelle in danese) che è proprio vero. Il film è scoppiettante, agrodolce, con un'infinità di sfumature, una regia dinamica e sempre sul pezzo, condito da recitazioni tutte intense e perfino spettacolari in alcuni casi.
Bravi quindi Anders W. Berthelsen (Christian), Paprika Steen (Anna), Jamie Morton (Oscar) e Sebastiàn Estevanez (Juan Diaz), eccezionale Adriana Mascialino nella parte di Fernanda, la tuttofare di casa Diaz, deliziosa Dafne Schilling nei panni di Veronica, il love affair argentino di Oscar.
Film davvero interessante, che avrebbe meritato una distribuzione italiana.
Copenaghen. Christian è il proprietario di un'enoteca sull'orlo della bancarotta. La moglie Anna lo ha lasciato da quasi due anni, e vive in Argentina, nella capitale Buenos Aires, dove, per via del suo lavoro, procuratore calcistico, ha conosciuto e si è innamorata del famoso goleador Juan Diaz. Mentre Anna è felice, solare, attiva e piena di soldi, Christian, oltre, appunto, ad essere senza soldi, sull'orlo della bancarotta e del suicidio, è depresso, apatico, triste, e riflette questa sua tristezza sul figlio Oscar, più concentrato sui suoi studi di filosofia che sul divorzio dei genitori e sul fatto che sua madre sia dall'altra parte del mondo. Quando arrivano per posta i documenti da firmare, Christian, in uno scatto d'orgoglio, prende il figlio e parte per Buenos Aires, dove proverà in tutti i modi a riconquistare Anna, trovandosi in situazioni ridicole e perfino grottesche, dimenticandosi del figlio che soprendentemente incontrerà la sua strada da solo, scongelando il cuore grazie al calore argentino, e capirà che non tutto gira intorno al perduto amore.
Ole Christian Madsen è un altro regista danese da tenere d'occhio. Fattosi le ossa in televisione (quella danese; televisone alla quale è tornato ultimamente, lasciando il segno, visto che è regista di un paio di episodi di Banshee, tra cui quello forse migliore, Wicks), dopo un paio di lungometraggi si mette in luce con L'ombra del nemico (ne parleremo tra un po', titolo originale Flammen & Citronen, con Mads Mikkelsen), e con questo Superclàsico entra nella shortlist di nove film candidati all'Oscar 2012 nella categoria Best Foreign Language per poi essere escluso nel passaggio a cinque nominati. E però dimostra di saper maneggiare toni e generi diversissimi tra di loro, se è vero che questa strana commedia sentimentale è stata paragonata alle migliori cose di Woody Allen, e devo dire (avendo visto il film senza sottotitoli, capendo quindi solo le parti in inglese e in spagnolo, ed andando quindi per intuizione con quelle in danese) che è proprio vero. Il film è scoppiettante, agrodolce, con un'infinità di sfumature, una regia dinamica e sempre sul pezzo, condito da recitazioni tutte intense e perfino spettacolari in alcuni casi.
Bravi quindi Anders W. Berthelsen (Christian), Paprika Steen (Anna), Jamie Morton (Oscar) e Sebastiàn Estevanez (Juan Diaz), eccezionale Adriana Mascialino nella parte di Fernanda, la tuttofare di casa Diaz, deliziosa Dafne Schilling nei panni di Veronica, il love affair argentino di Oscar.
Film davvero interessante, che avrebbe meritato una distribuzione italiana.
20130324
La scintilla della vita
La chispa de la vida - di Alex de la Iglesia (2011 - Inedito in Italia)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Madrid, Spagna. Roberto è un pubblicitario senza lavoro. Eppure, qualche anno prima era stato l'inventore dello slogan vincente della Coca Cola per la Spagna (Coca Cola: la chispa de la vida, per la traduzione letterale vedi il titolo del post), un lavoro di grande successo che rimase impresso nelle menti degli spagnoli. La moglie Luisa lo sostiene, preservandolo dalla depressione, lo incoraggia, non gli fa mancare il suo amore. Roberto ogni mattina si sveglia di buon ora e si mette alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Un giorno chiede un appuntamento ad un suo vecchio e caro amico, ora a capo di una importante compagnia, che però gli concede pochissimo tempo, considerandolo poco e lasciandolo in uno stato che precede la disperazione. Per ricordarsi dei bei tempi andati, anziché lasciarsi andare, Roberto, non avendo di meglio da fare, si mette alla guida della sua auto ed arriva a Cartagena, dove, precisamente all'Hotel Paraìso, ha passato, insieme all'amata Luisa, la luna di miele. Con sua sorpresa, al posto dell'Hotel si sta aprendo un museo, visto che proprio lì vicino è stato riportato alla luce un antico teatro romano. Vagando tra gli scavi e le impalcature, sorpreso da un custode in una zona in cui sono ammessi solo gli addetti ai lavori, Roberto cade, si aggrappa ad una statua sostenuta da una gru, il sostegno cade, e lui si ritrova sdraiato su una intelaiatura di barre di ferro. Fortunatamente, non ha ferite né danni apparenti. C'è solo un problema: una barra di ferro verticale gli si è conficcata nella testa. Per il momento non gli ha danneggiato organi che compromettano la sua salute e le sue terminazioni nervose, ma non può muoversi, altrimenti rischia di rimanere danneggiato permanentemente. Vista la presenza di numerosi giornalisti per l'inaugurazione del museo, l'incidente, e soprattutto la situazione di stallo in cui viene a trovarsi Roberto, la gerenza del museo, i dottori che assistono Roberto, e la municipalità, acquista immediatamente una risonanza enorme, e diventa un caso nazionale, metafora della crisi galoppante e della situazione del Paese tutto. Accorrono Luisa ed i due figli, e Roberto è tentato di usare la situazione per assicurare in qualche modo un futuro migliore per i suoi, che però si oppongono decisamente.
Il folle Alex de la Iglesia (Azione mutante, El dìa de la bestia, Perdita Durango, La comunidad, Crimen perfecto, Oxford Murders, Ballata dell'odio e dell'amore) continua nella sua filmografia "svalvolata" affrontando però continuamente l'attualità e le grandi problematiche sociali (a modo suo). Autocitandosi e facendo della commedia grottesca la sua fede, anche questo La chispa de la vida lascia il segno, pur non spiccando per realizzazione accurata e visivamente memorabile come il precedente Balada triste de trompeta (il titolo italiano è, ancora una volta, una merda). Cast non particolarmente in forma, nel quale però spicca Salma Hayek nei panni di Luisa, la moglie del protagonista.
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Madrid, Spagna. Roberto è un pubblicitario senza lavoro. Eppure, qualche anno prima era stato l'inventore dello slogan vincente della Coca Cola per la Spagna (Coca Cola: la chispa de la vida, per la traduzione letterale vedi il titolo del post), un lavoro di grande successo che rimase impresso nelle menti degli spagnoli. La moglie Luisa lo sostiene, preservandolo dalla depressione, lo incoraggia, non gli fa mancare il suo amore. Roberto ogni mattina si sveglia di buon ora e si mette alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Un giorno chiede un appuntamento ad un suo vecchio e caro amico, ora a capo di una importante compagnia, che però gli concede pochissimo tempo, considerandolo poco e lasciandolo in uno stato che precede la disperazione. Per ricordarsi dei bei tempi andati, anziché lasciarsi andare, Roberto, non avendo di meglio da fare, si mette alla guida della sua auto ed arriva a Cartagena, dove, precisamente all'Hotel Paraìso, ha passato, insieme all'amata Luisa, la luna di miele. Con sua sorpresa, al posto dell'Hotel si sta aprendo un museo, visto che proprio lì vicino è stato riportato alla luce un antico teatro romano. Vagando tra gli scavi e le impalcature, sorpreso da un custode in una zona in cui sono ammessi solo gli addetti ai lavori, Roberto cade, si aggrappa ad una statua sostenuta da una gru, il sostegno cade, e lui si ritrova sdraiato su una intelaiatura di barre di ferro. Fortunatamente, non ha ferite né danni apparenti. C'è solo un problema: una barra di ferro verticale gli si è conficcata nella testa. Per il momento non gli ha danneggiato organi che compromettano la sua salute e le sue terminazioni nervose, ma non può muoversi, altrimenti rischia di rimanere danneggiato permanentemente. Vista la presenza di numerosi giornalisti per l'inaugurazione del museo, l'incidente, e soprattutto la situazione di stallo in cui viene a trovarsi Roberto, la gerenza del museo, i dottori che assistono Roberto, e la municipalità, acquista immediatamente una risonanza enorme, e diventa un caso nazionale, metafora della crisi galoppante e della situazione del Paese tutto. Accorrono Luisa ed i due figli, e Roberto è tentato di usare la situazione per assicurare in qualche modo un futuro migliore per i suoi, che però si oppongono decisamente.
Il folle Alex de la Iglesia (Azione mutante, El dìa de la bestia, Perdita Durango, La comunidad, Crimen perfecto, Oxford Murders, Ballata dell'odio e dell'amore) continua nella sua filmografia "svalvolata" affrontando però continuamente l'attualità e le grandi problematiche sociali (a modo suo). Autocitandosi e facendo della commedia grottesca la sua fede, anche questo La chispa de la vida lascia il segno, pur non spiccando per realizzazione accurata e visivamente memorabile come il precedente Balada triste de trompeta (il titolo italiano è, ancora una volta, una merda). Cast non particolarmente in forma, nel quale però spicca Salma Hayek nei panni di Luisa, la moglie del protagonista.
20130323
Banshee, Pennsylvania
Banshee - di Jonathan Tropper e David Schickler - Stagione 1 (10 episodi; Cinemax) - 2013
Un uomo, del quale non sapremo mai il vero nome, esce da una prigione, non lontano da New York City. Si è fatto 15 anni dentro. La prima cosa che fa è bersi una birra. La seconda è scoparsi la barista nel retro del bar. La terza è rubare un'auto, per andare in città a trovare il vecchio amico Job, un personaggino di tutto rispetto, che oltre ad essere un genio informatico è chiaramente gay ed ha una smisurata passione per trucco e parrucche. La ragione per cui gli serve Job è che sta cercando una persona: la sua complice in quel colpo che ha fruttato a lui i 15 anni al fresco (e che, scopriremo tramite i frequenti flashback nel corso dei 10 episodi, non sono stati esattamente una passeggiata). C'è qualcuno che lo sta seguendo: ma, come scopriremo molto presto, quest'uomo non è uno di quelli che si impaurisce facilmente, o che si ferma davanti agli ostacoli. Provare per credere: quando finalmente ritrova la sua complice (in una cittadina della Pennsylvania che risponde al nome di Banshee, luogo ameno che ha una nutrita comunità Amish e perfino una riserva indiana), Ana, che, lo scopriamo insieme a lui, ha cambiato nome, si chiama adesso Carrie Hopewell, è sposata col procuratore distrettuale del luogo dove vive ed ha due figli (la maggiore dei quali un po' troppo grandicella per non suscitare dei sospetti), che lo supplica di sparire dalla sua vita, lui che fa? Assume l'identità di Lucas Hood, la persona che sta per essere nominato sceriffo della città.
C'era una certa attesa verso questa nuova serie di Cinemax, il canale sussidiario di HBO che si occupa di azione e perfino di soft porno. Se vi chiedeste il perché, è presto detto: Alan Ball, scrittore della sceneggiatura di American Beauty e creatore di Six Feet Under e di True Blood, è uno dei produttori, ed ha definitivamente abbandonato True Blood. Beh, devo dire che di sicuro Banshee non è certo quello che mi aspettavo; ma posso dirvi che questa serie possiede un certo fascino, e che è stata una di quelle che ultimamente ho seguito con maggior interesse, aspettando i nuovi episodi con una certa apprensione.
Violenta, violentissima, splatter e decisamente disturbante in più momenti (confesso che mi sono coperto gli occhi spesso, in quasi tutti gli episodi, e che addirittura mi sono sognato una delle scene più devastanti dell'episodio 6 dal titolo Wicks), con abbondanti e semi-esplicite scene di sesso, scazzottate che possono durare fino a venti minuti, sparatorie, mutilazioni e chi ne ha più ne metta, Banshee tira fuori l'animale che è in noi, e chi lo ha paragonato a Walker Texas Ranger dovrebbe riflettere sul significato della parola ridicolo. Certo, esagera anche chi lo ha accostato a Twin Peaks: diciamo che potremmo al massimo paragonarlo ad una versione outlaw di Justified, o ad un Sons of Anarchy senza motociclette (anche se l'episodio 5, The Kindred, si basa proprio su una banda di motociclisti), senza quella sottotrama shakespeariana così spiccatamente esibita, anche se l'elemento familiare non manca di certo.
Nonostante i miei dubbi iniziali, il cast è una di quelle cose che si rivelano vincenti. Il protagonista è Antony Starr, attore neozelandese per me sconosciuto fino a Banshee, che molti troveranno poco espressivo, ma che al contrario io trovo perfetto per la parte; Ana/Carrie è interpretata dalla bellezza strana di Ivana Milicevic, nata a Sarajevo da famiglia croata e sorella del chitarrista Tomo, dei 30 Seconds to Mars, qui alla prima parte importante (ma l'avevamo vista in Casino Royale nella parte della fidanzata di Le Chiffre), che se la cava egregiamente nella parte della falsa soccer mom specializzata nel tiro al bersaglio e nella lotta "vale tutto". Importantissimi nell'economia della serie il fantastico attore danese Ulrich Thomsen (Kai Proctor, un boss malavitoso locale, nato però nella comunità Amish), che i più attenti si ricorderanno in Festen, Le mele di Adamo, Non desiderare la donna d'altri, In un mondo migliore, e che ultimamente è entrato anche nel cast di Fringe, l'ottimo caratterista Frank Faison (Sugar), visto anche in The Wire, lo scatenato Hoon Lee (Job), autore tra l'altro delle migliori battute della serie, Matt Servitto (Lotus), visto in The Sopranos, e lo straordinario Ben Cross (l'Harold Abrahams di Momenti di gloria) nel ruolo di Mr. Rabbitt, il boss ucraino antagonista principe della serie. Per gli amanti della patatina ci sono Trieste Kelly Dunn (Siobhan Kelly), l'ex modella Lili Simmons (la morbosa Rebecca Bowman), e verso la fine della serie anche la bellissima (secondo me) Odette Annable in versione indiana americana, nei panni di Nola Longshadow.
Regie adrenaliniche e molto curate, grande fotografia, ritmo non forsennato ma le sceneggiature ed il montaggio non lasciano annoiare lo spettatore. Magari non sarà per tutti, ma io mi sono appassionato quasi immediatamente a questa serie e sono curioso di vedere come se la caveranno gli sceneggiatori per la seconda stagione.
Un uomo, del quale non sapremo mai il vero nome, esce da una prigione, non lontano da New York City. Si è fatto 15 anni dentro. La prima cosa che fa è bersi una birra. La seconda è scoparsi la barista nel retro del bar. La terza è rubare un'auto, per andare in città a trovare il vecchio amico Job, un personaggino di tutto rispetto, che oltre ad essere un genio informatico è chiaramente gay ed ha una smisurata passione per trucco e parrucche. La ragione per cui gli serve Job è che sta cercando una persona: la sua complice in quel colpo che ha fruttato a lui i 15 anni al fresco (e che, scopriremo tramite i frequenti flashback nel corso dei 10 episodi, non sono stati esattamente una passeggiata). C'è qualcuno che lo sta seguendo: ma, come scopriremo molto presto, quest'uomo non è uno di quelli che si impaurisce facilmente, o che si ferma davanti agli ostacoli. Provare per credere: quando finalmente ritrova la sua complice (in una cittadina della Pennsylvania che risponde al nome di Banshee, luogo ameno che ha una nutrita comunità Amish e perfino una riserva indiana), Ana, che, lo scopriamo insieme a lui, ha cambiato nome, si chiama adesso Carrie Hopewell, è sposata col procuratore distrettuale del luogo dove vive ed ha due figli (la maggiore dei quali un po' troppo grandicella per non suscitare dei sospetti), che lo supplica di sparire dalla sua vita, lui che fa? Assume l'identità di Lucas Hood, la persona che sta per essere nominato sceriffo della città.
C'era una certa attesa verso questa nuova serie di Cinemax, il canale sussidiario di HBO che si occupa di azione e perfino di soft porno. Se vi chiedeste il perché, è presto detto: Alan Ball, scrittore della sceneggiatura di American Beauty e creatore di Six Feet Under e di True Blood, è uno dei produttori, ed ha definitivamente abbandonato True Blood. Beh, devo dire che di sicuro Banshee non è certo quello che mi aspettavo; ma posso dirvi che questa serie possiede un certo fascino, e che è stata una di quelle che ultimamente ho seguito con maggior interesse, aspettando i nuovi episodi con una certa apprensione.
Violenta, violentissima, splatter e decisamente disturbante in più momenti (confesso che mi sono coperto gli occhi spesso, in quasi tutti gli episodi, e che addirittura mi sono sognato una delle scene più devastanti dell'episodio 6 dal titolo Wicks), con abbondanti e semi-esplicite scene di sesso, scazzottate che possono durare fino a venti minuti, sparatorie, mutilazioni e chi ne ha più ne metta, Banshee tira fuori l'animale che è in noi, e chi lo ha paragonato a Walker Texas Ranger dovrebbe riflettere sul significato della parola ridicolo. Certo, esagera anche chi lo ha accostato a Twin Peaks: diciamo che potremmo al massimo paragonarlo ad una versione outlaw di Justified, o ad un Sons of Anarchy senza motociclette (anche se l'episodio 5, The Kindred, si basa proprio su una banda di motociclisti), senza quella sottotrama shakespeariana così spiccatamente esibita, anche se l'elemento familiare non manca di certo.
Nonostante i miei dubbi iniziali, il cast è una di quelle cose che si rivelano vincenti. Il protagonista è Antony Starr, attore neozelandese per me sconosciuto fino a Banshee, che molti troveranno poco espressivo, ma che al contrario io trovo perfetto per la parte; Ana/Carrie è interpretata dalla bellezza strana di Ivana Milicevic, nata a Sarajevo da famiglia croata e sorella del chitarrista Tomo, dei 30 Seconds to Mars, qui alla prima parte importante (ma l'avevamo vista in Casino Royale nella parte della fidanzata di Le Chiffre), che se la cava egregiamente nella parte della falsa soccer mom specializzata nel tiro al bersaglio e nella lotta "vale tutto". Importantissimi nell'economia della serie il fantastico attore danese Ulrich Thomsen (Kai Proctor, un boss malavitoso locale, nato però nella comunità Amish), che i più attenti si ricorderanno in Festen, Le mele di Adamo, Non desiderare la donna d'altri, In un mondo migliore, e che ultimamente è entrato anche nel cast di Fringe, l'ottimo caratterista Frank Faison (Sugar), visto anche in The Wire, lo scatenato Hoon Lee (Job), autore tra l'altro delle migliori battute della serie, Matt Servitto (Lotus), visto in The Sopranos, e lo straordinario Ben Cross (l'Harold Abrahams di Momenti di gloria) nel ruolo di Mr. Rabbitt, il boss ucraino antagonista principe della serie. Per gli amanti della patatina ci sono Trieste Kelly Dunn (Siobhan Kelly), l'ex modella Lili Simmons (la morbosa Rebecca Bowman), e verso la fine della serie anche la bellissima (secondo me) Odette Annable in versione indiana americana, nei panni di Nola Longshadow.
Regie adrenaliniche e molto curate, grande fotografia, ritmo non forsennato ma le sceneggiature ed il montaggio non lasciano annoiare lo spettatore. Magari non sarà per tutti, ma io mi sono appassionato quasi immediatamente a questa serie e sono curioso di vedere come se la caveranno gli sceneggiatori per la seconda stagione.
20130322
i Marziani
Los Marziano - di Ana Katz (2011 - Inedito in Italia)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Argentina. Juan Marziano ha un fratello, Luis, ed una sorella, Delfina. Juan e Luis hanno litigato molti anni prima, e da allora comunicano tramite terzi. Juan è senza un soldo, vive lontano dalla capitale, a Tucuman, con la sua nuova compagna, ha un debito con Luis, che è benestante, e che vive in un country di gran lusso. Le preoccupazioni dei due non potrebbero essere più diverse. Juan non sa bene come tirare avanti, non vede mai la figlia Luciana, che vive anche lei nei pressi di Buenos Aires con la madre, ed ha dei gravi problemi di vista, che non riesce ad ammettere causa uno sproporzionato orgoglio. E' in visita nella capitale per fare alcune visite, e si è portato dietro alcune centinaia di cassette, sulle quali ha registrato le sue trasmissioni radiofoniche, per mettere su un supporto più moderno. Luis invece è determinato a risolvere un mistero gravissimo: qualcuno sta attentando alla salute e alla tranquillità dei ricchi abitanti del suo country, scavando e poi nascondendo profonde buche nel comune campo di golf; anche Luis ci è caduto dentro, e la cosa lo ha indispettito non poco, come se il suo carattere fosse accomodante. Luciana sta per compiere gli anni, ed insieme alla madre hanno accettato l'invito della moglie di Luis, Nena, di celebrare la festa a casa loro. Grazie all'intercessione di Nena, all'insistenza di Luciana, e alla mediazione di Delfina, l'eterno tramite tra Juan e Luis, che nel frattempo dà un letto a Juan, e lo accompagna nelle sue visite e lo aiuta nel suo progetto delle cassette, i due fratelli si incontreranno, e forse...
E' una delle tante piacevoli sorprese che vengono da quello che ormai considero un po' la mia seconda Patria (o forse la prima, tra qualche anno), questo film che sembra una commedia, che fa anche molto ridere, ma non è affatto stupido, e anzi, risulta molto più introspettivo ed intelligente di tanti film pseudo-intellettuali. Sostenuto da un cast a dir poco strepitoso, da un ritmo lento ma incalzante, da una regia accorta, da un'ottima fotografia e da una sceneggiatura (scritta dalla stessa regista insieme a Daniel Katz, credo suo fratello) perfettamente congegnata, Los Marziano, che potrebbe sembrare un film di fantascienza dal titolo, ma non lo è, è uno di quei film che dispiace essere certi che non arriverà mai in Italia. Però, occhio, perché di questa regista potreste sentir parlare in futuro. Ana Katz è al suo terzo lungometraggio (è stata assistente alla regia anche con Trapero), dopo El juego de la silla e Una novia errante, è anche attrice (oltre ad aver recitato nei suoi due precedenti film era anche in Whisky e in Lengua materna), ed è sposata (con prole) con David Hendler, l'attore uruguaiano ormai argentino d'adozione, che è stato per lungo tempo il feticcio del regista argentino Daniel Burman.
Il cast comprende Guillermo Francella (Juan) e Mercedes Moràn (Nena), la strana coppia de El hombre de tu vida, Rita Cortese (Delfina, anche lei in quella serie, ed in molti altri film, Viudas e Dos hermanos per esempio), Arturo Puig (Luis), e naturalmente David Hendler in una piccola parte (Francisco).
Interessante e ben fatto.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Argentina. Juan Marziano ha un fratello, Luis, ed una sorella, Delfina. Juan e Luis hanno litigato molti anni prima, e da allora comunicano tramite terzi. Juan è senza un soldo, vive lontano dalla capitale, a Tucuman, con la sua nuova compagna, ha un debito con Luis, che è benestante, e che vive in un country di gran lusso. Le preoccupazioni dei due non potrebbero essere più diverse. Juan non sa bene come tirare avanti, non vede mai la figlia Luciana, che vive anche lei nei pressi di Buenos Aires con la madre, ed ha dei gravi problemi di vista, che non riesce ad ammettere causa uno sproporzionato orgoglio. E' in visita nella capitale per fare alcune visite, e si è portato dietro alcune centinaia di cassette, sulle quali ha registrato le sue trasmissioni radiofoniche, per mettere su un supporto più moderno. Luis invece è determinato a risolvere un mistero gravissimo: qualcuno sta attentando alla salute e alla tranquillità dei ricchi abitanti del suo country, scavando e poi nascondendo profonde buche nel comune campo di golf; anche Luis ci è caduto dentro, e la cosa lo ha indispettito non poco, come se il suo carattere fosse accomodante. Luciana sta per compiere gli anni, ed insieme alla madre hanno accettato l'invito della moglie di Luis, Nena, di celebrare la festa a casa loro. Grazie all'intercessione di Nena, all'insistenza di Luciana, e alla mediazione di Delfina, l'eterno tramite tra Juan e Luis, che nel frattempo dà un letto a Juan, e lo accompagna nelle sue visite e lo aiuta nel suo progetto delle cassette, i due fratelli si incontreranno, e forse...
E' una delle tante piacevoli sorprese che vengono da quello che ormai considero un po' la mia seconda Patria (o forse la prima, tra qualche anno), questo film che sembra una commedia, che fa anche molto ridere, ma non è affatto stupido, e anzi, risulta molto più introspettivo ed intelligente di tanti film pseudo-intellettuali. Sostenuto da un cast a dir poco strepitoso, da un ritmo lento ma incalzante, da una regia accorta, da un'ottima fotografia e da una sceneggiatura (scritta dalla stessa regista insieme a Daniel Katz, credo suo fratello) perfettamente congegnata, Los Marziano, che potrebbe sembrare un film di fantascienza dal titolo, ma non lo è, è uno di quei film che dispiace essere certi che non arriverà mai in Italia. Però, occhio, perché di questa regista potreste sentir parlare in futuro. Ana Katz è al suo terzo lungometraggio (è stata assistente alla regia anche con Trapero), dopo El juego de la silla e Una novia errante, è anche attrice (oltre ad aver recitato nei suoi due precedenti film era anche in Whisky e in Lengua materna), ed è sposata (con prole) con David Hendler, l'attore uruguaiano ormai argentino d'adozione, che è stato per lungo tempo il feticcio del regista argentino Daniel Burman.
Il cast comprende Guillermo Francella (Juan) e Mercedes Moràn (Nena), la strana coppia de El hombre de tu vida, Rita Cortese (Delfina, anche lei in quella serie, ed in molti altri film, Viudas e Dos hermanos per esempio), Arturo Puig (Luis), e naturalmente David Hendler in una piccola parte (Francisco).
Interessante e ben fatto.
20130321
The Client List
La lista dei clienti - di Eric Laneuville (2010)
Giudizio sintetico: da evitare (1/5)
Texas, profondo Texas. La famiglia Horton, formata da Rex, ex buon giocatore di football, convertitosi a costruttore per un grave incidente al ginocchio che gli ha impedito di continuare la sua carriera, Samantha, ex reginetta di bellezza con diploma da massaggiatrice ma casalinga, e tre figli, è in gravi difficoltà economiche. Rex ha perso il lavoro, ed è talmente depresso da non riuscire a trovarne un altro. Gli Horton stanno per perdere anche la loro casa, e Samantha comincia a cercarsi un lavoro da massaggiatrice. Lo avrebbe trovato immediatamente, in una cittadina ad un'ora d'auto da casa, ma durante il colloquio scopre che in realtà, il salone di massaggi è una copertura per un bordello di lusso. Dopo aver rifiutato, però, scopre di non potersi permettere neppure di pagare la benzina per l'auto, e vede che suo marito è totalmente annichilito da questa situazione. A malincuore, Samantha accetta il lavoro, comincia a portare un sacco di soldi a casa, e nel giro di pochissimo tempo, diventa la "massaggiatrice" più richiesta del salone.
Pessimo film per la televisione, canale Lifetime (target femminile), arrivato anche in Italia sempre in televisione, ispirato ad un vero scandalo verificatosi nel 2004 ad Odessa, Texas, e che ha generato addirittura una ancora più pessima serie televisiva (omonima); pensate che proprio in questi giorni comincia la seconda stagione. Rispetto alla serie, recensita qui, il cast è meno patinato, anche se le "colonne" rimangono le stesse: Jennifer Love Hewitt è Samantha, la protagonista, Cybill Shepherd è la madre.
Troviamo inoltre Teddy Sears (lo abbiamo visto nella prima stagione di American Horror Story) nei panni del marito becco Rex, Kacey Rohl (Emma), vista in The Killing, e Kandyse McClure (Laura), la bella Anastasia Dualla di Battlestar Galactica. Incredibilmente, la Hewitt è stata perfino nominata ad un Golden Globe per questa performance. Per fortuna, il premio in quella categoria è poi andato a Claire Danes per Temple Grandin. Ecco, qui si può capire la differenza che passa tra un prodotto HBO (quello) e uno Lifetime (questo).
Leggermente più credibile della serie, forse solo perché la storia è "confinata" in meno di 100 minuti, e quindi deve accadere tutto senza troppe dilatazioni, The Client List è poco più che una telenovela di dubbio gusto concentrata in un film, tra l'altro con una brutta fotografia (non che quella della serie sia migliore). Non auguro a nessuno di imbattercisi, neppure per sbaglio.
Giudizio sintetico: da evitare (1/5)
Texas, profondo Texas. La famiglia Horton, formata da Rex, ex buon giocatore di football, convertitosi a costruttore per un grave incidente al ginocchio che gli ha impedito di continuare la sua carriera, Samantha, ex reginetta di bellezza con diploma da massaggiatrice ma casalinga, e tre figli, è in gravi difficoltà economiche. Rex ha perso il lavoro, ed è talmente depresso da non riuscire a trovarne un altro. Gli Horton stanno per perdere anche la loro casa, e Samantha comincia a cercarsi un lavoro da massaggiatrice. Lo avrebbe trovato immediatamente, in una cittadina ad un'ora d'auto da casa, ma durante il colloquio scopre che in realtà, il salone di massaggi è una copertura per un bordello di lusso. Dopo aver rifiutato, però, scopre di non potersi permettere neppure di pagare la benzina per l'auto, e vede che suo marito è totalmente annichilito da questa situazione. A malincuore, Samantha accetta il lavoro, comincia a portare un sacco di soldi a casa, e nel giro di pochissimo tempo, diventa la "massaggiatrice" più richiesta del salone.
Pessimo film per la televisione, canale Lifetime (target femminile), arrivato anche in Italia sempre in televisione, ispirato ad un vero scandalo verificatosi nel 2004 ad Odessa, Texas, e che ha generato addirittura una ancora più pessima serie televisiva (omonima); pensate che proprio in questi giorni comincia la seconda stagione. Rispetto alla serie, recensita qui, il cast è meno patinato, anche se le "colonne" rimangono le stesse: Jennifer Love Hewitt è Samantha, la protagonista, Cybill Shepherd è la madre.
Troviamo inoltre Teddy Sears (lo abbiamo visto nella prima stagione di American Horror Story) nei panni del marito becco Rex, Kacey Rohl (Emma), vista in The Killing, e Kandyse McClure (Laura), la bella Anastasia Dualla di Battlestar Galactica. Incredibilmente, la Hewitt è stata perfino nominata ad un Golden Globe per questa performance. Per fortuna, il premio in quella categoria è poi andato a Claire Danes per Temple Grandin. Ecco, qui si può capire la differenza che passa tra un prodotto HBO (quello) e uno Lifetime (questo).
Leggermente più credibile della serie, forse solo perché la storia è "confinata" in meno di 100 minuti, e quindi deve accadere tutto senza troppe dilatazioni, The Client List è poco più che una telenovela di dubbio gusto concentrata in un film, tra l'altro con una brutta fotografia (non che quella della serie sia migliore). Non auguro a nessuno di imbattercisi, neppure per sbaglio.
20130320
PJ20
Pearl Jam Twenty - di Cameron Crowe (2011)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Nel marzo del 1990, a Seattle, dopo tre giorni in coma da overdose di eroina, muore Andrew Wood, cantante della band semisconosciuta Mother Love Bone. La band si ferma, i componenti rimasti meditano di smettere con la musica. Due di loro, Jeff Ament, basso, e Stone Gossard, chitarra, insieme pochi anni prima nei Green River con Mark Arm e Steve Turner, tornano pian piano in attività. Reclutano un altro chitarrista, Mike McCready, cominciano a comporre nuovo materiale, e, con un demo di cinque pezzi, cominciano a cercare un batterista ed un cantante. Si appoggiano all'amico batterista Jack Irons, da poco uscito dai Red Hot Chili Peppers ed ancora depresso in seguito alla morte di Hillel Slovak (il chitarrista della band dei peperoncini), che declina l'invito, ma fa avere il demo ad un cantante che conosce, Eddie Vedder, di San Diego. Il ragazzo ascolta il demo prima di andare a surfare, compone tre testi mentre cavalca le onde, li incide. Quando la cassetta torna ai tre in quel di Seattle, Jeff, Stone e Mike rimangono impressionati. Dopo una settimana, Eddie si unisce alla band. Con l'aggiunta di lì a poco del batterista Dave Krusen, la band comincia ad esibirsi dal vivo. Dopo circa un anno, verso la fine del 1991, esce il loro primo disco: Ten. Il film celebra i vent'anni da quella data. I tre pezzi composti dai tre musicisti di Seattle, con i testi scritti dal ragazzo mentre surfava, risuonano ancora oggi nei palazzetti, negli stadi, nelle arene di tutto il mondo, durante i concerti dei Pearl Jam.
E' piuttosto difficile giudicare un documentario che racconta la storia di una band che ha segnato buona parte della giovinezza di chi scrive. Nonostante quello che molti giornalisti accreditati si affannano a puntualizzare, e cioè che il grunge, come genere musicale, non è esistito, è un'invenzione, non è descrivibile perché in verità le band nate in quel periodo in quella particolare zona degli USA suonavano generi tutti diversi tra di loro (e questo è vero, ma non descrive del tutto quello che esisteva in quel momento), quelli che come me erano dall'altra parte dell'oceano, ma che si sentivano legati a quelle band, che hanno visto muover loro i primi passi anche in Europa, e che sentivano una incredibile affinità con quella particolare scena musicale, ascoltando le stesse cose, suonando le stesse cose, vestendosi alla stessa maniera, ecco, alle persone di questo genere sembrerà di veder scorrere una parte delle loro vite, durante questo documentario di Cameron Crowe, ex giornalista musicale, regista di successo, autore tra gli altri di quel Singles che portò perfino sullo schermo la scena di Seattle e gli stessi protagonisti di questo documentario come attori (Stone, Eddie, Jeff, Chris Cornell).
Pearl Jam Twenty ha un sacco di difetti, si dilunga moltissimo sulla nascita della band, sulla figura di Andrew Wood, sulla lotta di Eddie contro la notorietà, per poi risolvere il cambio di così tanti batteristi in meno di un minuto, ma è un'opera genuina, piena di rispetto, di amore per la musica e per i fan, che spiega le cose che chi segue quella band sapeva già, ma che, se ce ne fosse ancora stato bisogno, consegna la band stessa alla storia.
Quindi, va bene così. Chi ama i Pearl Jam lo avrà già visto, ma se per caso se ne fosse dimenticato, lo recuperi senza indugi. Chi ama la musica rock, e però avesse vissuto dentro una navicella spaziale in orbita intorno alla Terra negli ultimi 25 anni, lo recuperi senza indugi. Chi non conosce i Pearl Jam, e credo siano attualmente due o tre persone, e non sono sicuro che leggano questo blog, dopo essersi cosparsi il capo di cenere, lo recuperino senza ulteriori indugi, e colmino la lacuna.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Nel marzo del 1990, a Seattle, dopo tre giorni in coma da overdose di eroina, muore Andrew Wood, cantante della band semisconosciuta Mother Love Bone. La band si ferma, i componenti rimasti meditano di smettere con la musica. Due di loro, Jeff Ament, basso, e Stone Gossard, chitarra, insieme pochi anni prima nei Green River con Mark Arm e Steve Turner, tornano pian piano in attività. Reclutano un altro chitarrista, Mike McCready, cominciano a comporre nuovo materiale, e, con un demo di cinque pezzi, cominciano a cercare un batterista ed un cantante. Si appoggiano all'amico batterista Jack Irons, da poco uscito dai Red Hot Chili Peppers ed ancora depresso in seguito alla morte di Hillel Slovak (il chitarrista della band dei peperoncini), che declina l'invito, ma fa avere il demo ad un cantante che conosce, Eddie Vedder, di San Diego. Il ragazzo ascolta il demo prima di andare a surfare, compone tre testi mentre cavalca le onde, li incide. Quando la cassetta torna ai tre in quel di Seattle, Jeff, Stone e Mike rimangono impressionati. Dopo una settimana, Eddie si unisce alla band. Con l'aggiunta di lì a poco del batterista Dave Krusen, la band comincia ad esibirsi dal vivo. Dopo circa un anno, verso la fine del 1991, esce il loro primo disco: Ten. Il film celebra i vent'anni da quella data. I tre pezzi composti dai tre musicisti di Seattle, con i testi scritti dal ragazzo mentre surfava, risuonano ancora oggi nei palazzetti, negli stadi, nelle arene di tutto il mondo, durante i concerti dei Pearl Jam.
E' piuttosto difficile giudicare un documentario che racconta la storia di una band che ha segnato buona parte della giovinezza di chi scrive. Nonostante quello che molti giornalisti accreditati si affannano a puntualizzare, e cioè che il grunge, come genere musicale, non è esistito, è un'invenzione, non è descrivibile perché in verità le band nate in quel periodo in quella particolare zona degli USA suonavano generi tutti diversi tra di loro (e questo è vero, ma non descrive del tutto quello che esisteva in quel momento), quelli che come me erano dall'altra parte dell'oceano, ma che si sentivano legati a quelle band, che hanno visto muover loro i primi passi anche in Europa, e che sentivano una incredibile affinità con quella particolare scena musicale, ascoltando le stesse cose, suonando le stesse cose, vestendosi alla stessa maniera, ecco, alle persone di questo genere sembrerà di veder scorrere una parte delle loro vite, durante questo documentario di Cameron Crowe, ex giornalista musicale, regista di successo, autore tra gli altri di quel Singles che portò perfino sullo schermo la scena di Seattle e gli stessi protagonisti di questo documentario come attori (Stone, Eddie, Jeff, Chris Cornell).
Pearl Jam Twenty ha un sacco di difetti, si dilunga moltissimo sulla nascita della band, sulla figura di Andrew Wood, sulla lotta di Eddie contro la notorietà, per poi risolvere il cambio di così tanti batteristi in meno di un minuto, ma è un'opera genuina, piena di rispetto, di amore per la musica e per i fan, che spiega le cose che chi segue quella band sapeva già, ma che, se ce ne fosse ancora stato bisogno, consegna la band stessa alla storia.
Quindi, va bene così. Chi ama i Pearl Jam lo avrà già visto, ma se per caso se ne fosse dimenticato, lo recuperi senza indugi. Chi ama la musica rock, e però avesse vissuto dentro una navicella spaziale in orbita intorno alla Terra negli ultimi 25 anni, lo recuperi senza indugi. Chi non conosce i Pearl Jam, e credo siano attualmente due o tre persone, e non sono sicuro che leggano questo blog, dopo essersi cosparsi il capo di cenere, lo recuperino senza ulteriori indugi, e colmino la lacuna.
20130319
rantolo boogie
Death Rattle Boogie - The Datsuns (2012)
Se, come me, amate l'hard rock senza fronzoli, tirato al punto giusto, che si sposa con il più classico dei rock and roll, i neozelandesi The Datsuns fanno per voi. Anche se non sono molto conosciuti, questo è il loro quinto disco; per darvi alcune coordinate, è prodotto da Nicke Andersson, e il bassista/cantante nonché fondatore Rudolf de Borst è pure membro degli Imperial State Electric.
Il disco scorre via che è una bellezza, in un tripudio di distorsione, quattro quarti, assoli con wha-wha, ed un campionario non indifferente di pezzi ben scritti e coinvolgenti. Inizio travolgente con Gods Are Bored, e si prosegue con Gold Halo, Skull Full of Bone, la divagazione blues di Wander the Night, l'eccezionale Hole In Your Head (un po' la loro By the Grace of God), il classico rock and roll Goodbye Ghosts, e si conclude con la tiratissima Death of Me, ma ho tralasciato molti pezzi (sono quattordici in tutto) che sono assolutamente all'altezza degli altri citati. Un disco che di sicuro non ha avuto molta eco e promozione, ma che vi aiuterà senz'altro a muovere il piedino ed ondeggiare la testolina.
Se, come me, amate l'hard rock senza fronzoli, tirato al punto giusto, che si sposa con il più classico dei rock and roll, i neozelandesi The Datsuns fanno per voi. Anche se non sono molto conosciuti, questo è il loro quinto disco; per darvi alcune coordinate, è prodotto da Nicke Andersson, e il bassista/cantante nonché fondatore Rudolf de Borst è pure membro degli Imperial State Electric.
Il disco scorre via che è una bellezza, in un tripudio di distorsione, quattro quarti, assoli con wha-wha, ed un campionario non indifferente di pezzi ben scritti e coinvolgenti. Inizio travolgente con Gods Are Bored, e si prosegue con Gold Halo, Skull Full of Bone, la divagazione blues di Wander the Night, l'eccezionale Hole In Your Head (un po' la loro By the Grace of God), il classico rock and roll Goodbye Ghosts, e si conclude con la tiratissima Death of Me, ma ho tralasciato molti pezzi (sono quattordici in tutto) che sono assolutamente all'altezza degli altri citati. Un disco che di sicuro non ha avuto molta eco e promozione, ma che vi aiuterà senz'altro a muovere il piedino ed ondeggiare la testolina.
20130318
San Lorenzo
O della bellezza della passione sportiva. Video segnalatomi dall'amico Fabio su anteriore segnalazione dell'amico Omovero.
La squadra adesso ha acquisito ulteriore notorietà perché il nuovo papa è tesserato della società, ma fino a poco fa io ne ero ignaro, anche se avevo deciso di pubblicare il video. Mi ricordavo invece che Viggo Mortensen, in un'intervista a David Frost su Al Jazeera, aveva rivelato di essere tifoso del San Lorenzo (Mortensen ha vissuto parte della sua infanzia in Argentina), e la cosa mi aveva suscitato simpatia.
La squadra adesso ha acquisito ulteriore notorietà perché il nuovo papa è tesserato della società, ma fino a poco fa io ne ero ignaro, anche se avevo deciso di pubblicare il video. Mi ricordavo invece che Viggo Mortensen, in un'intervista a David Frost su Al Jazeera, aveva rivelato di essere tifoso del San Lorenzo (Mortensen ha vissuto parte della sua infanzia in Argentina), e la cosa mi aveva suscitato simpatia.
l'autostrada
The Highway - Holly Williams (2013)
Mi sono avvicinato al country, o meglio, all'americana, molto tardi, e i colpevoli sono senza dubbio la mia curiosità e anche un po' l'amico Monty (con il quale, come potrete notare, ci facciamo spesso i pompini a vicenda, ma mi dispiace deludervi, questa è solo una citazione da non prendere alla lettera). Da quando mi ci sono avvicinato, e questo è solo un altro panegirico per raccontarvi una cosa che vi ho già detto più volte, mi sono scoperto (come se fosse una novità) parecchio sensibile alle voci femminili (e naturalmente il Monty prova ogni volta a rigirare il coltello nella piaga, segnalandomene di altre). Ora, non ricordo neppure come mi sono accorto dell'esistenza di una delle figlie di Hank Williams Jr., ma mi ricordo che il primo disco che ascoltati fu il precedente a questo, Here With Me, ormai anche un po' datato (è del 2009), e che ho avuto molte difficoltà ad abbandonarne l'ascolto, tanto mi piaceva quella voce e quelle parole semplici, che, come ha detto qualcuno, lei fa in modo da renderle credibili. Ascoltato pure il primo The Ones We Never Knew, del 2004, possiamo pure notare che l'artista di Nashville, che ha da poco compiuto 32 anni, ha inoltre il dono di saper scrivere canzoni semplici, mai particolarmente innovative o sbalorditive, ma che risultano comunque coinvolgenti, calde, classicamente senza tempo, che denotano una bella sensibilità, e che riesce ogni volta ad interpretarle con la sua voce ottimamente modulata e che riesce, come detto, a trasmettere un senso di onesta semplicità. E la stessa magia accade ascoltando questo nuovo lavoro dal titolo The Highway, che esce per la sua nuova etichetta "personale" Georgiana Records, e che non riesco a smettere di ascoltare se non facendomi violenza. E mi interrogo violentemente, appunto, su come un fan dei Converge e dei Dillinger Escape Plan, quale mi ritengo, possa ininterrottamente sentirsi toccato emotivamente da pezzi quali Without You (con la partecipazione di Jakob Dylan), Giving Up, Waiting On June (nientemeno che con Gwyneth Paltrow), Gone Away From Me (con Jackson Browne), Happy, la splendida title-track (a mio modestissimo parere bellissimo il passaggio che dice "I miss the sound of rubber rolling out my window/And that crescendo the highway brings/Oh, these wheels are gonna keep me spinning all my days/Out here on the highway"; in pochi sarebbero stati in grado di abbinare "crescendo" all'autostrada), e la meravigliosa A Good Man, con uno di quei testi scontati che non riuscirei a ripetere ad alta voce senza piangere, e che dopo l'amore che ho provato per la sua Alone, è destinata ad entrare di diritto nelle mie canzoni preferite della vita. Non mancano un paio di allegre e dignitose drinkin' songs quali 'Til It Runs Dry (con Dierks Bentley) e l'iniziale Drinkin', e l'ottima e ritmata Railroads.
Niente di particolarmente esaltante per i più, ma a me questo disco manda in orbita. E non posso farci niente.
Mi sono avvicinato al country, o meglio, all'americana, molto tardi, e i colpevoli sono senza dubbio la mia curiosità e anche un po' l'amico Monty (con il quale, come potrete notare, ci facciamo spesso i pompini a vicenda, ma mi dispiace deludervi, questa è solo una citazione da non prendere alla lettera). Da quando mi ci sono avvicinato, e questo è solo un altro panegirico per raccontarvi una cosa che vi ho già detto più volte, mi sono scoperto (come se fosse una novità) parecchio sensibile alle voci femminili (e naturalmente il Monty prova ogni volta a rigirare il coltello nella piaga, segnalandomene di altre). Ora, non ricordo neppure come mi sono accorto dell'esistenza di una delle figlie di Hank Williams Jr., ma mi ricordo che il primo disco che ascoltati fu il precedente a questo, Here With Me, ormai anche un po' datato (è del 2009), e che ho avuto molte difficoltà ad abbandonarne l'ascolto, tanto mi piaceva quella voce e quelle parole semplici, che, come ha detto qualcuno, lei fa in modo da renderle credibili. Ascoltato pure il primo The Ones We Never Knew, del 2004, possiamo pure notare che l'artista di Nashville, che ha da poco compiuto 32 anni, ha inoltre il dono di saper scrivere canzoni semplici, mai particolarmente innovative o sbalorditive, ma che risultano comunque coinvolgenti, calde, classicamente senza tempo, che denotano una bella sensibilità, e che riesce ogni volta ad interpretarle con la sua voce ottimamente modulata e che riesce, come detto, a trasmettere un senso di onesta semplicità. E la stessa magia accade ascoltando questo nuovo lavoro dal titolo The Highway, che esce per la sua nuova etichetta "personale" Georgiana Records, e che non riesco a smettere di ascoltare se non facendomi violenza. E mi interrogo violentemente, appunto, su come un fan dei Converge e dei Dillinger Escape Plan, quale mi ritengo, possa ininterrottamente sentirsi toccato emotivamente da pezzi quali Without You (con la partecipazione di Jakob Dylan), Giving Up, Waiting On June (nientemeno che con Gwyneth Paltrow), Gone Away From Me (con Jackson Browne), Happy, la splendida title-track (a mio modestissimo parere bellissimo il passaggio che dice "I miss the sound of rubber rolling out my window/And that crescendo the highway brings/Oh, these wheels are gonna keep me spinning all my days/Out here on the highway"; in pochi sarebbero stati in grado di abbinare "crescendo" all'autostrada), e la meravigliosa A Good Man, con uno di quei testi scontati che non riuscirei a ripetere ad alta voce senza piangere, e che dopo l'amore che ho provato per la sua Alone, è destinata ad entrare di diritto nelle mie canzoni preferite della vita. Non mancano un paio di allegre e dignitose drinkin' songs quali 'Til It Runs Dry (con Dierks Bentley) e l'iniziale Drinkin', e l'ottima e ritmata Railroads.
Niente di particolarmente esaltante per i più, ma a me questo disco manda in orbita. E non posso farci niente.
20130317
il cielo cade
Skyfall - di Sam Mendes (2012)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
James Bond è ad Istanbul, di rinforzo ad un agente dell'MI6 in possesso di un hard drive contenente i nomi di tutti gli agenti NATO che stanno lavorando sotto copertura nelle varie organizzazioni terroristiche internazionali. O meglio: l'agente Ronson era in possesso di questo hard drive, ma gli è stato appena sottratto da Patrice, che lavora per chi non si sa ancora. Bond si lancia all'inseguimento di quest'ultimo, in strada, sui tetti, su un treno in corsa. Lo spettacolare inseguimento termina male: Bond cade colpito per sbaglio dal "fuoco amico" dell'agente Eve, che spara su ordine di M. Bond cade in un fiume da un'altezza improponibile, e viene dato quindi per morto. L'azione non passa inosservata: Gareth Mallory, Presidente del Comitato per la sicurezza e l'intelligence, spiega a M che è arrivata l'ora di andare in pensione. M infuriata fa per rientrare nel suo ufficio quando si scopre che il suo computer è stato violato; prima ancora che possa rientrare nel suo ufficio, l'intero palazzo salta per aria, uccidendo otto persone.
Nel frattempo, Bond, ancora vivo, si sta curando in un luogo incantevole, tra donne, alcol ed antidolorifici. Quando viene a conoscenza dell'accaduto, decide di rientrare a Londra in segreto, e si fa trovare in casa di M. Lei lo mette a conoscenza che, rispettando le regole dell'Agenzia, in quanto Bond scapolo senza discendenti ed eredi, i suoi beni sono stati stoccati in un magazzino e la sua casa è stata venduta. Bond vuole rientrare in servizio, ma M gli comunica che dovrà superare dei test per verificare che sia ancora capace di sostenere l'incarico. Bond li passa a malapena, ma M lo mette ugualmente sulle tracce del mandante del furto dell'hard drive, che pare avere un conto in sospeso proprio con M. Dopo che Bond riceve dal giovane Q una pistola che "riconosce" solo Bond dal contatto dermico, e una radiospia particolarmente avanzata, si riparte da Shangai.
Stavolta provano pure a dare James Bond in mano ad un regista di quelli bravi, di certo non abituati a film d'azione: Sam Mendes. E quindi, c'erano grandi aspettative, per questo Bond che in qualche modo aveva "passato a' nuttata", elaborato lutto e disappunto, e che rientra in servizio ma muore, o quasi. E invece, Mendes o no, anche questo Skyfall ricalca le orme dei precedenti: prima parte dal ritmo forsennato, fatta di scene interminabili ma tese, classici inseguimenti inverosimili ma altamente spettacolari e tutto sommato molto divertenti, e poi uno "sgonfiamento" che si fa via via più triste, intervallato da qualche combattimento, appesantito da "spiegoni" e confronti con avversari sempre intelligentissimi e malati di mente, fighe varie. Il nemico principale stavolta è uno Javier Bardem (Silva) che sembra caricaturare (come se fosse possibile!) il suo personaggio in Non è un paese per vecchi con una pettinatura ancor più inguardabile.
Il finale è interminabile, reiterato, strascicato, quasi insopportabile, ed il film, avendo la stessa durata di Casino Royale, risulta decisamente più noioso (i voti sono tutti identici per la spettacolarità delle scene di inseguimento e per le ambientazioni). Anziché apprezzare la bellezza algida e "modellistica" di Bérénice Marlohe (Severine), mi è piaciuta moltissimo quella anche un po' ruvida di Naomie Harris (Eve), già vista in 28 giorni dopo (era Selena) ed in Sex & Drugs & Rock & Roll (era Denise Roudette, ne parleremo - del film).
Il tema musicale è (appunto) Skyfall di Adele, brano che ha vinto pure l'Oscar (ed il Golden Globe) per la migliore canzone, pezzo ben fatto ma estremamente prevedibile.
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
James Bond è ad Istanbul, di rinforzo ad un agente dell'MI6 in possesso di un hard drive contenente i nomi di tutti gli agenti NATO che stanno lavorando sotto copertura nelle varie organizzazioni terroristiche internazionali. O meglio: l'agente Ronson era in possesso di questo hard drive, ma gli è stato appena sottratto da Patrice, che lavora per chi non si sa ancora. Bond si lancia all'inseguimento di quest'ultimo, in strada, sui tetti, su un treno in corsa. Lo spettacolare inseguimento termina male: Bond cade colpito per sbaglio dal "fuoco amico" dell'agente Eve, che spara su ordine di M. Bond cade in un fiume da un'altezza improponibile, e viene dato quindi per morto. L'azione non passa inosservata: Gareth Mallory, Presidente del Comitato per la sicurezza e l'intelligence, spiega a M che è arrivata l'ora di andare in pensione. M infuriata fa per rientrare nel suo ufficio quando si scopre che il suo computer è stato violato; prima ancora che possa rientrare nel suo ufficio, l'intero palazzo salta per aria, uccidendo otto persone.
Nel frattempo, Bond, ancora vivo, si sta curando in un luogo incantevole, tra donne, alcol ed antidolorifici. Quando viene a conoscenza dell'accaduto, decide di rientrare a Londra in segreto, e si fa trovare in casa di M. Lei lo mette a conoscenza che, rispettando le regole dell'Agenzia, in quanto Bond scapolo senza discendenti ed eredi, i suoi beni sono stati stoccati in un magazzino e la sua casa è stata venduta. Bond vuole rientrare in servizio, ma M gli comunica che dovrà superare dei test per verificare che sia ancora capace di sostenere l'incarico. Bond li passa a malapena, ma M lo mette ugualmente sulle tracce del mandante del furto dell'hard drive, che pare avere un conto in sospeso proprio con M. Dopo che Bond riceve dal giovane Q una pistola che "riconosce" solo Bond dal contatto dermico, e una radiospia particolarmente avanzata, si riparte da Shangai.
Stavolta provano pure a dare James Bond in mano ad un regista di quelli bravi, di certo non abituati a film d'azione: Sam Mendes. E quindi, c'erano grandi aspettative, per questo Bond che in qualche modo aveva "passato a' nuttata", elaborato lutto e disappunto, e che rientra in servizio ma muore, o quasi. E invece, Mendes o no, anche questo Skyfall ricalca le orme dei precedenti: prima parte dal ritmo forsennato, fatta di scene interminabili ma tese, classici inseguimenti inverosimili ma altamente spettacolari e tutto sommato molto divertenti, e poi uno "sgonfiamento" che si fa via via più triste, intervallato da qualche combattimento, appesantito da "spiegoni" e confronti con avversari sempre intelligentissimi e malati di mente, fighe varie. Il nemico principale stavolta è uno Javier Bardem (Silva) che sembra caricaturare (come se fosse possibile!) il suo personaggio in Non è un paese per vecchi con una pettinatura ancor più inguardabile.
Il finale è interminabile, reiterato, strascicato, quasi insopportabile, ed il film, avendo la stessa durata di Casino Royale, risulta decisamente più noioso (i voti sono tutti identici per la spettacolarità delle scene di inseguimento e per le ambientazioni). Anziché apprezzare la bellezza algida e "modellistica" di Bérénice Marlohe (Severine), mi è piaciuta moltissimo quella anche un po' ruvida di Naomie Harris (Eve), già vista in 28 giorni dopo (era Selena) ed in Sex & Drugs & Rock & Roll (era Denise Roudette, ne parleremo - del film).
Il tema musicale è (appunto) Skyfall di Adele, brano che ha vinto pure l'Oscar (ed il Golden Globe) per la migliore canzone, pezzo ben fatto ma estremamente prevedibile.
20130316
l'uccisione
The Killing - di Soren Sveistrup sviluppato da Veena Sud - Stagioni 1 e 2 (13 episodi ciascuna; AMC) - 2011/2012
Seattle, giorni nostri. A meno di un mese dalle elezioni per il nuovo sindaco, una giovane donna sta facendo jogging in uno dei parchi della città. Quella notte, in un parco appunto, è accaduto qualcosa di orribile ad una ragazza giovanissima. E' stata braccata. La donna, mentre corre, riceve una telefonata. Scopriamo che è una detective della polizia di Seattle, si chiama Sarah Linden; viene convocata urgentemente sulla scena di un crimine. Seguendo una scia di sangue, si ritrova in mezzo ad una festa d'addio. Sarah ha chiesto il trasferimento, se ne andrà in California, a Sonoma. Mentre sta portando via le sue cose alla stazione di polizia, incontra il suo sostituto, Stephen Holder, un giovane tutt'ossa che ha lavorato sotto copertura alla narcotici, ed è appena arrivato dalla polizia della Contea. Il loro capo, il tenente Oakes, assegna l'ultimo incarico a Linden, e le dice di portarsi dietro Holder. Sulla scena del presunto crimine, ancora nessun corpo: solo un maglione rosa e un bancomat, a nome Stanley Larsen. I due detective si recano a casa Larsen. Stan e Mitch hanno tre figli, sono reduci da un weekend in campeggio, senza segnale per i cellulari. I due figli piccoli erano con loro, ma la loro figlia più grande, Rosie, era rimasta a casa da sola, ed il venerdì aveva il ballo di Halloween. La ragazza è definitivamente scomparsa, e quindi il padre, oltre ai detective, si mette sulle sue tracce. Il cerchio si stringe. Linden e Holder vanno alla scuola della ragazza, per interrogare gli amici, interrompendo un dibattito dei due candidati a sindaco, Darren Richmond, lo sfidante, e Lesley Adams, sindaco in carica. Pensano di aver trovato una pista nell'ex di Rosie, Jasper Ames, ma Jasper, figlio di una famiglia molto ricca, è in una delle sue ville con una donna che non è Rosie. Si torna sulla scena del presunto crimine: gli scavi non portano a nulla. Linden sta per abbandonare il luogo, quando il suo intuito indica il laghetto lì vicino. Viene ritrovata un auto, che viene issata fuori dall'acqua da una gru. L'auto appartiene alla campagna per Richmond. Mentre nel bagagliaio viene ritrovato il corpo di Rosie Larsen, il padre giunge sul luogo del delitto, proprio quando Linden riconosce la ragazza. L'indagine che seguirà metterà in luce, tra mille difficoltà, molti, troppi segreti di tutte le persone legate in qualche modo a Rosie.
Arrivato in ritardo a The Killing, remake statunitense del danese Forbrydelsen (la protagonista della serie danese, Sofie Grabol, interpreta una piccola parte nella seconda stagione della versione statunitense), ho recuperato velocemente perché innanzitutto, dopo un iniziale rinuncia da parte di AMC di proseguire la serie, dopo l'interessamento di Netflix il canale di Mad Men ci ha ripensato, raggiungendo un accordo di co-produzione con Netflix, e quindi da maggio partirà la terza stagione; inoltre, dopo aver approcciato la serie, sono rimasto coinvolto decisamente dall'indagine, dal ritmo e dai personaggi, desiderando ardentemente arrivare fino in fondo, almeno per quanto si possa arrivare con queste due stagioni, che comunque rivelano la verità (la terza stagione vedrà i protagonisti alle prese con un nuovo caso).
L'impostazione è quella di un giorno ogni episodio; il ritmo è piuttosto lento, ma assolutamente mai noioso (anche se confesso che di solito alla mezz'ora di ogni episodio c'è un momento di flessione; gli episodi sono da 43 minuti circa). Gli interpreti convincenti: Mireille Enos (Sarah Linden), già interprete delle gemelle Marquart in Big Love (e scopro leggendo la sua bio che è stata "cresciuta" come mormone, ma che non è praticante), un curioso mix di radici europee ed americane e un volto che non si dimentica, è davvero magnetica e perfetta per un ruolo complesso, ossessivo ed ossessionato, forte e fragile al tempo stesso; il sorprendente Joel Kinnaman (Stephen Holder), nato e cresciuto a Stoccolma, è una spalla perfetta, un personaggio dalla fragilità incredibile, ma che durante le due stagioni vive una parabola inversa rispetto a quello di Linden. Il personaggio di Kinnaman è pure quello che dà luogo alle situazioni più divertenti, sdrammatizzanti, e che dice o provoca la battute migliori (curiosità: nella vita, attualmente Kinnaman è fidanzato con Olivia Munn, la Sloan di The Newsroom). Anche il resto del cast è perfettamente in parte; di grande spessore l'interpretazione di Michelle Forbes (Mitch Larsen, la madre di Rosie), splendida 48enne, un'attrice che si è costruita una carriera soprattutto in televisione, sempre lasciando il segno. Altra curiosità: oltre a lei, riconoscerete altri due attori che erano, come lei, nel cast di Battlestar Galactica, ed è grazie al suo personaggio in questa serie che, un po' ruffianamente, gli autori strizzano l'occhio a chi, come chi vi scrive, idealizza ancora oggi Seattle come la patria del grunge: fate attenzione ai particolari. Ancora curiosità: Rosie Larsen è interpretata da Katie Findlay (a livello attoriale, davvero promettente), attualmente sugli schermi perché nel cast di The Carrie Diaries, la serie CW che si prefigge di fare da prequel al mitico Sex & the City.
La serie, che strizza l'occhio al capostipite Twin Peaks, anche se non sarà ai livelli di Breaking Bad, si prende i suoi tempi perché approfondisce molto bene i profili psicologici dei protagonisti e di molti caratteri marginali. Agisce su più livelli: l'indagine, con tutto quello che si porta dietro (leggi, le vite dei detective, che vengono risucchiate dal lavoro, e quelle di chi agisce più o meno nell'ombra dietro di loro), la vita della famiglia Larsen, che stenta a proseguire dopo la tragedia, e la campagna elettorale: i colpi bassi, lo staff soprattutto di Richmond, l'indagine che coinvolge appartenenti ai due schieramenti. Nonostante quello che ne pensa la critica, una serie davvero ben costruita (mi sto forzando, ma finirò obbligatoriamente col vedere pure l'originale danese). Tra l'altro, la critica e pure il pubblico ha dimostrato di non amare particolarmente la seconda stagione, che al contrario, a me è piaciuta forse più della prima. Provare per credere, e appuntamento a maggio.
Seattle, giorni nostri. A meno di un mese dalle elezioni per il nuovo sindaco, una giovane donna sta facendo jogging in uno dei parchi della città. Quella notte, in un parco appunto, è accaduto qualcosa di orribile ad una ragazza giovanissima. E' stata braccata. La donna, mentre corre, riceve una telefonata. Scopriamo che è una detective della polizia di Seattle, si chiama Sarah Linden; viene convocata urgentemente sulla scena di un crimine. Seguendo una scia di sangue, si ritrova in mezzo ad una festa d'addio. Sarah ha chiesto il trasferimento, se ne andrà in California, a Sonoma. Mentre sta portando via le sue cose alla stazione di polizia, incontra il suo sostituto, Stephen Holder, un giovane tutt'ossa che ha lavorato sotto copertura alla narcotici, ed è appena arrivato dalla polizia della Contea. Il loro capo, il tenente Oakes, assegna l'ultimo incarico a Linden, e le dice di portarsi dietro Holder. Sulla scena del presunto crimine, ancora nessun corpo: solo un maglione rosa e un bancomat, a nome Stanley Larsen. I due detective si recano a casa Larsen. Stan e Mitch hanno tre figli, sono reduci da un weekend in campeggio, senza segnale per i cellulari. I due figli piccoli erano con loro, ma la loro figlia più grande, Rosie, era rimasta a casa da sola, ed il venerdì aveva il ballo di Halloween. La ragazza è definitivamente scomparsa, e quindi il padre, oltre ai detective, si mette sulle sue tracce. Il cerchio si stringe. Linden e Holder vanno alla scuola della ragazza, per interrogare gli amici, interrompendo un dibattito dei due candidati a sindaco, Darren Richmond, lo sfidante, e Lesley Adams, sindaco in carica. Pensano di aver trovato una pista nell'ex di Rosie, Jasper Ames, ma Jasper, figlio di una famiglia molto ricca, è in una delle sue ville con una donna che non è Rosie. Si torna sulla scena del presunto crimine: gli scavi non portano a nulla. Linden sta per abbandonare il luogo, quando il suo intuito indica il laghetto lì vicino. Viene ritrovata un auto, che viene issata fuori dall'acqua da una gru. L'auto appartiene alla campagna per Richmond. Mentre nel bagagliaio viene ritrovato il corpo di Rosie Larsen, il padre giunge sul luogo del delitto, proprio quando Linden riconosce la ragazza. L'indagine che seguirà metterà in luce, tra mille difficoltà, molti, troppi segreti di tutte le persone legate in qualche modo a Rosie.
Arrivato in ritardo a The Killing, remake statunitense del danese Forbrydelsen (la protagonista della serie danese, Sofie Grabol, interpreta una piccola parte nella seconda stagione della versione statunitense), ho recuperato velocemente perché innanzitutto, dopo un iniziale rinuncia da parte di AMC di proseguire la serie, dopo l'interessamento di Netflix il canale di Mad Men ci ha ripensato, raggiungendo un accordo di co-produzione con Netflix, e quindi da maggio partirà la terza stagione; inoltre, dopo aver approcciato la serie, sono rimasto coinvolto decisamente dall'indagine, dal ritmo e dai personaggi, desiderando ardentemente arrivare fino in fondo, almeno per quanto si possa arrivare con queste due stagioni, che comunque rivelano la verità (la terza stagione vedrà i protagonisti alle prese con un nuovo caso).
L'impostazione è quella di un giorno ogni episodio; il ritmo è piuttosto lento, ma assolutamente mai noioso (anche se confesso che di solito alla mezz'ora di ogni episodio c'è un momento di flessione; gli episodi sono da 43 minuti circa). Gli interpreti convincenti: Mireille Enos (Sarah Linden), già interprete delle gemelle Marquart in Big Love (e scopro leggendo la sua bio che è stata "cresciuta" come mormone, ma che non è praticante), un curioso mix di radici europee ed americane e un volto che non si dimentica, è davvero magnetica e perfetta per un ruolo complesso, ossessivo ed ossessionato, forte e fragile al tempo stesso; il sorprendente Joel Kinnaman (Stephen Holder), nato e cresciuto a Stoccolma, è una spalla perfetta, un personaggio dalla fragilità incredibile, ma che durante le due stagioni vive una parabola inversa rispetto a quello di Linden. Il personaggio di Kinnaman è pure quello che dà luogo alle situazioni più divertenti, sdrammatizzanti, e che dice o provoca la battute migliori (curiosità: nella vita, attualmente Kinnaman è fidanzato con Olivia Munn, la Sloan di The Newsroom). Anche il resto del cast è perfettamente in parte; di grande spessore l'interpretazione di Michelle Forbes (Mitch Larsen, la madre di Rosie), splendida 48enne, un'attrice che si è costruita una carriera soprattutto in televisione, sempre lasciando il segno. Altra curiosità: oltre a lei, riconoscerete altri due attori che erano, come lei, nel cast di Battlestar Galactica, ed è grazie al suo personaggio in questa serie che, un po' ruffianamente, gli autori strizzano l'occhio a chi, come chi vi scrive, idealizza ancora oggi Seattle come la patria del grunge: fate attenzione ai particolari. Ancora curiosità: Rosie Larsen è interpretata da Katie Findlay (a livello attoriale, davvero promettente), attualmente sugli schermi perché nel cast di The Carrie Diaries, la serie CW che si prefigge di fare da prequel al mitico Sex & the City.
La serie, che strizza l'occhio al capostipite Twin Peaks, anche se non sarà ai livelli di Breaking Bad, si prende i suoi tempi perché approfondisce molto bene i profili psicologici dei protagonisti e di molti caratteri marginali. Agisce su più livelli: l'indagine, con tutto quello che si porta dietro (leggi, le vite dei detective, che vengono risucchiate dal lavoro, e quelle di chi agisce più o meno nell'ombra dietro di loro), la vita della famiglia Larsen, che stenta a proseguire dopo la tragedia, e la campagna elettorale: i colpi bassi, lo staff soprattutto di Richmond, l'indagine che coinvolge appartenenti ai due schieramenti. Nonostante quello che ne pensa la critica, una serie davvero ben costruita (mi sto forzando, ma finirò obbligatoriamente col vedere pure l'originale danese). Tra l'altro, la critica e pure il pubblico ha dimostrato di non amare particolarmente la seconda stagione, che al contrario, a me è piaciuta forse più della prima. Provare per credere, e appuntamento a maggio.
20130315
conforto quantistico
Quantum of Solace - di Marc Forster (2008)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Un Bond tradito e al tempo stesso addolorato, per la morte di Vesper, sfugge attraverso l'Italia con Mr.White nel bagagliaio della sua Aston Martin. Riesce ad arrivare sano e salvo a Siena, dove incontra M ed interrogano White su Quantum, organizzazione terroristica praticamente sconosciuta. Bond è particolarmente interessato, perché sembra che l'ex fidanzato di Vesper, Yusef Kabira, lavorasse (non è ancora chiaro se sia morto) per loro. Le talpe si annidano ovunque, e White riesce a fuggire. Sulle tracce del traditore, Bond arriva ad Haiti. Identificato il contatto della talpa che lavorava per White, Slate, scopre che questi è stato ingaggiato per uccidere Camille Montes. Risalendo la catena, Camille è l'amante di Dominic Greene, un famosissimo imprenditore che è particolarmente interessato allo sviluppo di tecnologie ecologiche. Bond scopre che Greene sta aiutando il generale Medrano a prendere il potere in Bolivia tramite un colpo di stato, in cambio dei diritti di sfruttamento di una regione desertica, in apparenza senza nessuna risorsa. La cosa non quadra. Greene cerca di concludere l'accordo con Medrano includendo nel pacchetto Camille. Bond, fino a quel punto osservatore, interviene e salva la ragazza. Continuando sulle tracce di Greene, Bond scopre che questi si è perfino accordato con la CIA, in modo che non intervenga nel colpo di stato, e che gli vengano riconosciuti i diritti di sfruttamento di quel luogo; Bond presume quindi che Greene abbia trovato petrolio in quella zona. Bond però ha il grilletto facile, e dopo aver scoperto tutto questo, rimane coinvolto in una sparatoria nella quale uccide una guardia del corpo e un membro dello staff del Primo Ministro britannico. M gli revoca passaporti e carte di credito. Ma Bond, assetato di vendetta, non si ferma davanti a niente.
Ennesimo, roboante capitolo della saga dell'agente segreto 007, il secondo capitolo della "gestione" Daniel Craig, dopo che nel precedente Casino Royale si era attualizzato il media franchise con la figura di Le Chiffre che "usava" la borsa per aiutare i cattivi, si tuffa nelle malefatte della CIA in Sud America e, contemporaneamente, nel mondo delle energie rinnovabili e della prossima risorsa che scatenerà le guerre (e qui mi fermo per non dirvi proprio tutto). Naturalmente, è tutto un pretesto, come potrete intuire da soli, ma visti i budget da capogiro, questo film si permette non solo di annoverare nel cast Mathieu Amalric (Greene), un attore straordinario che, come molti altri, non si capisce per quale motivo si lasci coinvolgere in stronzate come queste (ma anche qui, conoscete già da voi la risposta, nessuno è perfetto ed eticamente inattaccabile), la ormai ex modella Olga Kurylenko (Camille), Gemma Arterton (Strawberry Fields), e di girare nel deserto di Atacama, alle cave di marmo di Carrara, a Siena durante il Palio, e praticamente in giro per il mondo (date un'occhiata qua). Tutto questo, se si lasciano da parte le sempre più incredibili scene d'azione e di inseguimento, per una trama talmente esile che se si guarda controluce, come si diceva un tempo, gli si vede le costole.
Mi chiedo spesso se basta una presenza talmente adorabile come quella della Kurylenko per guardare un film della durata di quasi due ore. La risposta è no.
Tema musicale, particolarmente bello, è stavolta Another Way To Die, duetto tra Jack White ed Alicia Keys. Curiosa e contorta la storia della "assegnazione" di questo tema.
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Un Bond tradito e al tempo stesso addolorato, per la morte di Vesper, sfugge attraverso l'Italia con Mr.White nel bagagliaio della sua Aston Martin. Riesce ad arrivare sano e salvo a Siena, dove incontra M ed interrogano White su Quantum, organizzazione terroristica praticamente sconosciuta. Bond è particolarmente interessato, perché sembra che l'ex fidanzato di Vesper, Yusef Kabira, lavorasse (non è ancora chiaro se sia morto) per loro. Le talpe si annidano ovunque, e White riesce a fuggire. Sulle tracce del traditore, Bond arriva ad Haiti. Identificato il contatto della talpa che lavorava per White, Slate, scopre che questi è stato ingaggiato per uccidere Camille Montes. Risalendo la catena, Camille è l'amante di Dominic Greene, un famosissimo imprenditore che è particolarmente interessato allo sviluppo di tecnologie ecologiche. Bond scopre che Greene sta aiutando il generale Medrano a prendere il potere in Bolivia tramite un colpo di stato, in cambio dei diritti di sfruttamento di una regione desertica, in apparenza senza nessuna risorsa. La cosa non quadra. Greene cerca di concludere l'accordo con Medrano includendo nel pacchetto Camille. Bond, fino a quel punto osservatore, interviene e salva la ragazza. Continuando sulle tracce di Greene, Bond scopre che questi si è perfino accordato con la CIA, in modo che non intervenga nel colpo di stato, e che gli vengano riconosciuti i diritti di sfruttamento di quel luogo; Bond presume quindi che Greene abbia trovato petrolio in quella zona. Bond però ha il grilletto facile, e dopo aver scoperto tutto questo, rimane coinvolto in una sparatoria nella quale uccide una guardia del corpo e un membro dello staff del Primo Ministro britannico. M gli revoca passaporti e carte di credito. Ma Bond, assetato di vendetta, non si ferma davanti a niente.
Ennesimo, roboante capitolo della saga dell'agente segreto 007, il secondo capitolo della "gestione" Daniel Craig, dopo che nel precedente Casino Royale si era attualizzato il media franchise con la figura di Le Chiffre che "usava" la borsa per aiutare i cattivi, si tuffa nelle malefatte della CIA in Sud America e, contemporaneamente, nel mondo delle energie rinnovabili e della prossima risorsa che scatenerà le guerre (e qui mi fermo per non dirvi proprio tutto). Naturalmente, è tutto un pretesto, come potrete intuire da soli, ma visti i budget da capogiro, questo film si permette non solo di annoverare nel cast Mathieu Amalric (Greene), un attore straordinario che, come molti altri, non si capisce per quale motivo si lasci coinvolgere in stronzate come queste (ma anche qui, conoscete già da voi la risposta, nessuno è perfetto ed eticamente inattaccabile), la ormai ex modella Olga Kurylenko (Camille), Gemma Arterton (Strawberry Fields), e di girare nel deserto di Atacama, alle cave di marmo di Carrara, a Siena durante il Palio, e praticamente in giro per il mondo (date un'occhiata qua). Tutto questo, se si lasciano da parte le sempre più incredibili scene d'azione e di inseguimento, per una trama talmente esile che se si guarda controluce, come si diceva un tempo, gli si vede le costole.
Mi chiedo spesso se basta una presenza talmente adorabile come quella della Kurylenko per guardare un film della durata di quasi due ore. La risposta è no.
Tema musicale, particolarmente bello, è stavolta Another Way To Die, duetto tra Jack White ed Alicia Keys. Curiosa e contorta la storia della "assegnazione" di questo tema.
20130314
allenamento in stato costante
Long Slow Distance - Sivert Hoyem (2011)
Eccoci ancora una volta a parlare di un'artista che meriterebbe senza ombra di dubbio una maggiore attenzione, ed è buffo pensare che se non fosse stato per un'amica non lo conoscerei neppure io, visto che di Sivert Hoyem come solista (dei Madrugada in passato qualcosa sulle riviste specializzate si è letto) non ne parla mai nessuno. Il cantante norvegese, ex leader dei Madrugada appunto, con questo Long Slow Distance arriva al quarto disco solista, accompagnato sempre da una band fidata, e dà libero sfogo a tutte le sue influenze ed i suoi amori. E' importante, perché Hoyem continua a camminare per la sua strada, cercando di differenziarsi, ovviamente, dal suo passato con la band. A parte che un disco che nella prima strofa del suo primo pezzo contiene la parola permafrost (Under Administration: "I can't remember your face anymore/That too is lost/Your cold ashes scattered on the wind/And swept across the permafrost") andrebbe fatto ascoltare a tutti, ecco quindi che si parte con un pezzo fortemente emozionale (quello citato prima), tutto fatto di contrappunti di chitarra elettrica e voce importante (così come è quella di Sivert), con una base ritmica quasi inesistente fino alla metà, spruzzato di tastiere che prendono il volo insieme all'ingresso della sezione ritmica, pezzo che riesce ad essere intrigante ed inquietante al tempo stesso (e il crescendo finale è davvero travolgente), e si continua con la title-track che pare un pezzo black metal leggermente ovattato (appaiono anche chitarre acustiche e tastiere) e cantato da Nick Cave o da Mark Lanegan (due artisti che Hoyem ama), ma condito da un testo che parla di un amore difficile e contrastato. Ecco poi Give It A Wirl, un pezzo molto Madrugada e molto bello, condito da percussioni latine ed assoli che ricordano contemporaneamente Neil Young e gli Iron Maiden, e una Warm Inside che è una classica ballad acustica, resa irresistibile dalla sua voce. Animal Child è un pezzo piuttosto atipico, che sicuramente si ispira al krautrock, e che Hoyem trasforma in una cavalcata dark rock, e poi ancora in un tutt'altro, con un finale soprendente e rilassato; si torna su ritmi forsennati con Trouble, quasi un rock and roll, stop and go compresi, solo leggermente modernizzato. Con Red on Maroon si torna a chitarre metal con inserti decisamente industrial noise, e con Blown Away si fa un altro tuffo nel passato (leggi Madrugada), con un'altra ballad impreziosita da un Hoyem in grande spolvero. Quando canta così, difficile resistergli. Emotions è elettronica (ma senza dimenticare le chitarre ben grattugiate, quando ci vogliono) e ben costruita, e poi c'è Father's Day che è un altro pezzo splendido, pianoforte e voce. Conclude un'altra semi-ballad, Innovations, che seppur non essendo nulla di speciale, conferma la sapienza del songwriting del norvegese, e, ancora una volta, la capacità di trasmettere emozioni a non finire con quella voce che non dovrebbe davvero essere conosciuta così poco.
Eccoci ancora una volta a parlare di un'artista che meriterebbe senza ombra di dubbio una maggiore attenzione, ed è buffo pensare che se non fosse stato per un'amica non lo conoscerei neppure io, visto che di Sivert Hoyem come solista (dei Madrugada in passato qualcosa sulle riviste specializzate si è letto) non ne parla mai nessuno. Il cantante norvegese, ex leader dei Madrugada appunto, con questo Long Slow Distance arriva al quarto disco solista, accompagnato sempre da una band fidata, e dà libero sfogo a tutte le sue influenze ed i suoi amori. E' importante, perché Hoyem continua a camminare per la sua strada, cercando di differenziarsi, ovviamente, dal suo passato con la band. A parte che un disco che nella prima strofa del suo primo pezzo contiene la parola permafrost (Under Administration: "I can't remember your face anymore/That too is lost/Your cold ashes scattered on the wind/And swept across the permafrost") andrebbe fatto ascoltare a tutti, ecco quindi che si parte con un pezzo fortemente emozionale (quello citato prima), tutto fatto di contrappunti di chitarra elettrica e voce importante (così come è quella di Sivert), con una base ritmica quasi inesistente fino alla metà, spruzzato di tastiere che prendono il volo insieme all'ingresso della sezione ritmica, pezzo che riesce ad essere intrigante ed inquietante al tempo stesso (e il crescendo finale è davvero travolgente), e si continua con la title-track che pare un pezzo black metal leggermente ovattato (appaiono anche chitarre acustiche e tastiere) e cantato da Nick Cave o da Mark Lanegan (due artisti che Hoyem ama), ma condito da un testo che parla di un amore difficile e contrastato. Ecco poi Give It A Wirl, un pezzo molto Madrugada e molto bello, condito da percussioni latine ed assoli che ricordano contemporaneamente Neil Young e gli Iron Maiden, e una Warm Inside che è una classica ballad acustica, resa irresistibile dalla sua voce. Animal Child è un pezzo piuttosto atipico, che sicuramente si ispira al krautrock, e che Hoyem trasforma in una cavalcata dark rock, e poi ancora in un tutt'altro, con un finale soprendente e rilassato; si torna su ritmi forsennati con Trouble, quasi un rock and roll, stop and go compresi, solo leggermente modernizzato. Con Red on Maroon si torna a chitarre metal con inserti decisamente industrial noise, e con Blown Away si fa un altro tuffo nel passato (leggi Madrugada), con un'altra ballad impreziosita da un Hoyem in grande spolvero. Quando canta così, difficile resistergli. Emotions è elettronica (ma senza dimenticare le chitarre ben grattugiate, quando ci vogliono) e ben costruita, e poi c'è Father's Day che è un altro pezzo splendido, pianoforte e voce. Conclude un'altra semi-ballad, Innovations, che seppur non essendo nulla di speciale, conferma la sapienza del songwriting del norvegese, e, ancora una volta, la capacità di trasmettere emozioni a non finire con quella voce che non dovrebbe davvero essere conosciuta così poco.
20130313
007 reboot
Casino Royale - di Martin Campbell (2006)
Giudizio sintetico: si potrebbe perdere ma* (2/5)
L'agente speciale dei Servizi Segreti britannici viene "promosso" a doppio zero, licenza di uccidere (paradossalmente) facendo fuori due traditori; la sua indole ribelle e testarda, lo porta poco dopo a scatenare un incidente diplomatico in seguito ad una sua azione in Madagascar. Lavata di capo e sospensione, ma immediato volo verso le Bahamas dove tra una figa e l'altra, Bond devia su Miami e sventa un attentato aereo pericolosissimo. Ecco quindi che viene individuato il vero cervello dietro tutte queste operazioni: il cattivo, ricchissimo, brillante matematico e invincibile giocatore di poker, Le Chiffre, in origine banchiere, che organizza attentati per guadagnare in borsa, e far guadagnare i suoi clienti (chiaramente, poco di buono ma con grandi poteri in mano). Dopo la spettacolare azione di Bond, il giochino "al ribasso" di Le Chiffre lascia quest'ultimo con una grossa perdita; per rifarsi, e per scampare all'ira dei suoi "clienti", organizza una partita a poker di altissimo livello, con poste adeguate, al Casino Royale in Montenegro. Bond viene incaricato dall'MI6 di parteciparvi, sotto mentite spoglie, finanziato dal Ministero del Tesoro.
Reboot della storia di James Bond, l'agente segreto più famoso del mondo, con Daniel Craig che lo interpreta per la prima volta, come sesto "incaricato". Naturale che per sopravvivere, la saga di Bond dovesse rinnovarsi; discutibile o no, la scelta di Craig è indiscutibile dal punto di vista del carisma, anche se probabilmente l'idea che avevano produttori e sceneggiatori è rispettata fino ad un certo punto: brutale e freddo si, ma di certo non molto ironico. Ma qui si entra nel campo della soggettività, e sono sicuro che molti avranno apprezzato l'interpretazione di Craig, che invece a me lascia sempre un po' interdetto: non ho ancora capito, sinceramente, se sia un ottimo attore, oppure solo buono. Probabile invece, che scelga copioni pensando più al botteghino che al cinema d'essai, questo si.
Dopo una prima parte pirotecnica, il film si attorciglia nella parte della partita a poker, tenuta a galla da un *Mads Mikkelsen sprecato in un film del genere (ma anche qui, molti hanno amato il film solo per la sua presenza), e si sputtana definitivamente con una parte finale piena delle solite stronzate bondiane (aggettivo inventato che può adattarsi, l'ho realizzato solo dopo averlo scritto, sia a James Bond che a Sandro Bondi: non è certo una nota positiva). Splendida Caterina Murino (Solange), anche se molti preferiscono Eva Green (Vesper Lynd): ammetto che quest'ultima è un'attrice migliore. Giancarlo Giannini recita al minimo sindacale nella parte di René Mathis, e c'è pure Claudio Santamaria (Carlos) nella parte a Miami. Sempre superiore Jesper Christensen (Mr.White). Naturalmente c'è Judi Dench (M), che secondo me fa questi film per pagarsi i vizi, o per pagare la scuola ai nipoti.
Non sono un fan dei film della serie, e confesso che, conclusi gli inseguimenti, mi annoio sempre; anche questo Casino Royale non fa eccezioni.
Tema musicale dei titoli di testa interpretato nientemeno che da Chris Cornell, con You Know My Name.
Giudizio sintetico: si potrebbe perdere ma* (2/5)
L'agente speciale dei Servizi Segreti britannici viene "promosso" a doppio zero, licenza di uccidere (paradossalmente) facendo fuori due traditori; la sua indole ribelle e testarda, lo porta poco dopo a scatenare un incidente diplomatico in seguito ad una sua azione in Madagascar. Lavata di capo e sospensione, ma immediato volo verso le Bahamas dove tra una figa e l'altra, Bond devia su Miami e sventa un attentato aereo pericolosissimo. Ecco quindi che viene individuato il vero cervello dietro tutte queste operazioni: il cattivo, ricchissimo, brillante matematico e invincibile giocatore di poker, Le Chiffre, in origine banchiere, che organizza attentati per guadagnare in borsa, e far guadagnare i suoi clienti (chiaramente, poco di buono ma con grandi poteri in mano). Dopo la spettacolare azione di Bond, il giochino "al ribasso" di Le Chiffre lascia quest'ultimo con una grossa perdita; per rifarsi, e per scampare all'ira dei suoi "clienti", organizza una partita a poker di altissimo livello, con poste adeguate, al Casino Royale in Montenegro. Bond viene incaricato dall'MI6 di parteciparvi, sotto mentite spoglie, finanziato dal Ministero del Tesoro.
Reboot della storia di James Bond, l'agente segreto più famoso del mondo, con Daniel Craig che lo interpreta per la prima volta, come sesto "incaricato". Naturale che per sopravvivere, la saga di Bond dovesse rinnovarsi; discutibile o no, la scelta di Craig è indiscutibile dal punto di vista del carisma, anche se probabilmente l'idea che avevano produttori e sceneggiatori è rispettata fino ad un certo punto: brutale e freddo si, ma di certo non molto ironico. Ma qui si entra nel campo della soggettività, e sono sicuro che molti avranno apprezzato l'interpretazione di Craig, che invece a me lascia sempre un po' interdetto: non ho ancora capito, sinceramente, se sia un ottimo attore, oppure solo buono. Probabile invece, che scelga copioni pensando più al botteghino che al cinema d'essai, questo si.
Dopo una prima parte pirotecnica, il film si attorciglia nella parte della partita a poker, tenuta a galla da un *Mads Mikkelsen sprecato in un film del genere (ma anche qui, molti hanno amato il film solo per la sua presenza), e si sputtana definitivamente con una parte finale piena delle solite stronzate bondiane (aggettivo inventato che può adattarsi, l'ho realizzato solo dopo averlo scritto, sia a James Bond che a Sandro Bondi: non è certo una nota positiva). Splendida Caterina Murino (Solange), anche se molti preferiscono Eva Green (Vesper Lynd): ammetto che quest'ultima è un'attrice migliore. Giancarlo Giannini recita al minimo sindacale nella parte di René Mathis, e c'è pure Claudio Santamaria (Carlos) nella parte a Miami. Sempre superiore Jesper Christensen (Mr.White). Naturalmente c'è Judi Dench (M), che secondo me fa questi film per pagarsi i vizi, o per pagare la scuola ai nipoti.
Non sono un fan dei film della serie, e confesso che, conclusi gli inseguimenti, mi annoio sempre; anche questo Casino Royale non fa eccezioni.
Tema musicale dei titoli di testa interpretato nientemeno che da Chris Cornell, con You Know My Name.
20130312
Afleggjarinn
Rosa candida - di Audur Ava Olafsdòttir (2012)
Islanda. Lobbi ha ventidue anni. Vive con l'anziano padre, ed ha un gemello autistico che vive in un istituto, ma che i due vedono molto spesso. La madre di Lobbi, una donna più giovane del marito, amorevole, brava in cucina e amante del giardinaggio, è morta poco tempo prima in un incidente stradale, lasciando un vuoto apparentemente incolmabile. Lobbi ha passato del tempo imbarcato su un peschereccio, e adesso sta per lasciare l'Islanda per andare in Nord Europa: è stato assunto per curare un roseto famoso in tutto il mondo, di proprietà del monastero adiacente. Il padre accetta la sua partenza, ma non smette di preoccuparsi e di dolersi per la morte della moglie. Lobbi sembra fuggire dalle sue responsabilità: infatti, è padre di una bambina di sette mesi, Flòra Sòl, nata da una notte (un quinto di notte, come dice lui) passata assieme ad Anna, una ex di un amico, con la quale in realtà sente di non aver niente a che fare. I due hanno accettato di buon grado la situazione: Anna continua a studiare e si prende cura della bambina, Lobbi la vede ogni tanto, il padre di Lobbi pure. Cosa accadrà in questa nuova avventura, lontana dalla terra natìa, a Lobbi e alle persone a lui care?
La letteratura islandese sta pian piano riscuotendo un buon successo, e un poco di visibilità, anche da noi. Rosa candida, scritto dalla Olafsdòttir, insegnante di Storia dell'Arte e direttrice del Museo dell'Università d'Islanda, è il suo terzo lavoro, ed è un "piccolo" libro delicato e leggero, che non rivela verità assolute o mostra nuove filosofie di vita, ma in una certa misura tranquillizza, rilassa, riconcilia con le necessità basilari dell'esistenza, senza per questo essere un libro spirituale, e, a mio personale giudizio, riesce a dare un'idea del carattere islandese, pacifico, accomodante e molto libero di costumi, un popolo che ho riscritto la Costituzione online, non fa differenze tra preferenze etero o omosessuali, accetta di buon grado le famiglie ingrandite e non convenzionali.
Come vi ho detto, non aspettatevi un libro spirituale o rivoluzionario. La figura di Lobbi rivela i dubbi di ogni essere umano, soprattutto giovane e con tutta la vita davanti, alle prese con scelte che segneranno la sua esistenza e quindi indeciso e titubante. Il suo flusso di coscienza attraversa le duecento pagine del libro, e nel contempo il suo personaggio ci conduce in un viaggio in un'Europa che, agli occhi di un islandese, appare diversissima dalla loro grande isola con pochi abitanti e molte pecore.
Libro semplice, poco convenzionale, a tratti elementare, ma che fa della semplicità la sua forza. E non per questo, meno bello.
Islanda. Lobbi ha ventidue anni. Vive con l'anziano padre, ed ha un gemello autistico che vive in un istituto, ma che i due vedono molto spesso. La madre di Lobbi, una donna più giovane del marito, amorevole, brava in cucina e amante del giardinaggio, è morta poco tempo prima in un incidente stradale, lasciando un vuoto apparentemente incolmabile. Lobbi ha passato del tempo imbarcato su un peschereccio, e adesso sta per lasciare l'Islanda per andare in Nord Europa: è stato assunto per curare un roseto famoso in tutto il mondo, di proprietà del monastero adiacente. Il padre accetta la sua partenza, ma non smette di preoccuparsi e di dolersi per la morte della moglie. Lobbi sembra fuggire dalle sue responsabilità: infatti, è padre di una bambina di sette mesi, Flòra Sòl, nata da una notte (un quinto di notte, come dice lui) passata assieme ad Anna, una ex di un amico, con la quale in realtà sente di non aver niente a che fare. I due hanno accettato di buon grado la situazione: Anna continua a studiare e si prende cura della bambina, Lobbi la vede ogni tanto, il padre di Lobbi pure. Cosa accadrà in questa nuova avventura, lontana dalla terra natìa, a Lobbi e alle persone a lui care?
La letteratura islandese sta pian piano riscuotendo un buon successo, e un poco di visibilità, anche da noi. Rosa candida, scritto dalla Olafsdòttir, insegnante di Storia dell'Arte e direttrice del Museo dell'Università d'Islanda, è il suo terzo lavoro, ed è un "piccolo" libro delicato e leggero, che non rivela verità assolute o mostra nuove filosofie di vita, ma in una certa misura tranquillizza, rilassa, riconcilia con le necessità basilari dell'esistenza, senza per questo essere un libro spirituale, e, a mio personale giudizio, riesce a dare un'idea del carattere islandese, pacifico, accomodante e molto libero di costumi, un popolo che ho riscritto la Costituzione online, non fa differenze tra preferenze etero o omosessuali, accetta di buon grado le famiglie ingrandite e non convenzionali.
Come vi ho detto, non aspettatevi un libro spirituale o rivoluzionario. La figura di Lobbi rivela i dubbi di ogni essere umano, soprattutto giovane e con tutta la vita davanti, alle prese con scelte che segneranno la sua esistenza e quindi indeciso e titubante. Il suo flusso di coscienza attraversa le duecento pagine del libro, e nel contempo il suo personaggio ci conduce in un viaggio in un'Europa che, agli occhi di un islandese, appare diversissima dalla loro grande isola con pochi abitanti e molte pecore.
Libro semplice, poco convenzionale, a tratti elementare, ma che fa della semplicità la sua forza. E non per questo, meno bello.
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