No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20111230

itaGlia?


A volte, le coincidenze. Ieri, insieme ad alcuni amici (un paio di loro con le famiglie al seguito), abbiamo bissato il pranzo di quasi tre anni fa, nello stesso ristorante. Genova, Quarto dei Mille. A costo di diventare pedante, praticamente sullo scoglio ormai storicamente conosciuto come quello dal quale partì la spedizione, appunto, dei Mille di Garibaldi, più di 151 anni fa.
Qualche giorno fa, su Internazionale, mi era capitato di leggere un interessante, e direi quasi provocatorio articolo di David Gilmour (la scheda Wikipedia linkata dovrebbe essere la sua, non ne sono sicurissimo perché non è per niente aggiornata, ma alcuni lavori del passato combaciano), che non è quel chitarrista che pensate voi, bensì un letterato, nonché storico, britannico, ottimo conoscitore dell'Italia e della Spagna, autore di The pursuit of Italy: a history of a land, its regions and their peoples (edito da Penguin nel 2011). L'articolo è stato scritto in origine per Foreign Policy, bimestrale statunitense, e, se capisco bene, riassume quello che Gilmour ha scritto nel dettaglio nel suo libro citato poc'anzi, che mi piacerebbe leggere, se non fosse che la mia lettura in inglese è ancora troppo debole, e non risulta che il libro sia stato tradotto in italiano.
Il succo, però, è molto vicino ad alcune cose che sostengo da tempo (e con questo non voglio dire che sono un letterato e storico, ma solo che basta essere realisti sulla nostra Nazione), cose che, premetto, non fanno di me un leghista. Quello che credo io, e che qualche volta, qua e là ho pure scritto su questo blog, è che l'Italia è stata unita ma non è mai stata una e coesa. Quel che dice Gilmour è più o meno lo stesso. Analizziamo il suo articolo.
"Le radici del suo declino (sta parlando della crisi politica ed economica, n.d.jumbolo) affondano nella fragilità dell'identità nazionale. L'unità raggiunta in fretta e furia nell'ottocento, l'avvento del fascismo nella prima metà del novecento e la successiva sconfitta nella seconda guerra mondiale non hanno certo alimentato nei cittadini l'amore per la patria. Se lo stato postfascista avesse raggiunto importanti successi e offerto ai cittadini un esempio con cui identificarsi, le cose forse sarebbero andate diversamente."
"Per riunire in un unico reame i sette regni dell'Inghilterra anglosassone, intorno al decimo secolo, ci sono voluti circa 400 anni. I sette stati che nell'ottocento hanno formato l'Italia unita, invece, sono stati accorpati nel giro di un paio d'anni, tra l'estate del 1859 e la primavera del 1861. Il papa fu privato della maggior parte dei suoi possedimenti, la dinastia dei Borboni fu cacciata da Napoli e i duchi dell'Italia centrale persero i loro troni. E così i re del Piemonte diventarono sovrani d'Italia. All'epoca la velocità dell'unificazione del paese fu salutata come un miracolo: gli italiani, uniti da un forte spirito patriottico, avevano cacciato sia gli invasori stranieri sia i tiranni italiani. In realtà, il movimento patriottico italiano era stato relativamente contenuto - composto in gran parte da giovani della classe media provenienti dal nord - e non avrebbe avuto nessuna possibilità di successo senza un intervento esterno. Nel 1859 un'armata francese cacciò gli austriaci dalla Lombardia, mentre nel 1866 il nuovo stato italiano riuscì ad annettersi Venezia grazie a una vittoria dell'esercito prussiano."
"Giuseppe Garibaldi si batté eroicamente con le sue camicie rosse in Sicilia e a Napoli, ma le sue campagne non furono altro che spedizioni di conquista del sud da parte degli italiani del nord, e furono seguite dall'imposizione delle leggi dal nord sul Regno delle due Sicilie. I napoletani non si sentirono affatto "liberati" dalle camicie rosse (Napoli era la città più popolosa d'Italia, ma poche decine di cittadini si offrirono di combattere al fianco di Garibaldi) e presto il popolo si accorse che la città, per sei secoli capitale di uno stato indipendente, era ormai diventata un semplice centro di provincia. Oggi Napoli fa ancora parte della periferia d'Italia, e il pil del sud del paese non arriva alla metà di quello delle regioni del nord."
Qui ci sarebbe da aggiungere che, come qualche storico e perfino qualche economista italiano onesto, ha spiegato più volte che il nord era pieno di debiti, e la ragione dell'unificazione (o della conquista del sud) fu principalmente economica. Qui mi diversifico radicalmente dai leghisti, e mi viene da pensare, in piccola scala, alla storia della società occidentale nei confronti del sud del mondo, in particolar modo dell'Africa: in qualche maniera, "ci" conviene tenere nella povertà tutta una parte di mondo, così che la possiamo sfruttare. Allo stesso modo, il nord indebitato dell'ottocento, adesso vorrebbe sbarazzarsi, secondo qualche cervello illustre, del sud, in modo da rimettere i conti a posto. Dimenticandosi pure che, tenendo il sud lontano dal potere ed asservendolo, lo ha consegnato in mano alle mafie. Ma proseguiamo la lettura dell'articolo.
"La varietà dell'Italia aveva una storia secolare, e nessuno avrebbe mai potuto cancellarla nel giro di qualche anno. Nel quinto secolo a.C. gli abitanti della Grecia antica parlavano la stessa lingua e si consideravano un unico popolo. Nello stesso periodo le popolazioni della penisola italiana parlavano circa quaranta lingue diverse e non avevano nessun senso di identità comune. La diversità italiana si accentuò dopo la caduta dell'impero romano, e per secoli la penisola rimase divisa: prima nei comuni medievali, poi nelle città stato e in seguito nei ducati rinascimentali. Lo spirito localistico sopravvive ancora oggi [... qui fa un esempio che salto, perché cita i pisani - ma avrebbe potuto citare qualsiasi abitante di qualsiasi capoluogo di provincia]. Gli italiani ammettono tranquillamente che il loro senso di appartenenza a un'unica nazione emerge solo in occasione dei Mondiali di calcio, e solo quando gli azzurri vincono."
A proposito della diversità linguistica:
"Secondo le stime del linguista Tullio De Mauro, all'epoca dell'unificazione solo il 2,5% della popolazione parlava italiano, cioè il dialetto fiorentino ricavato dalle opere di Dante e Boccaccio. Forse il dato di De Mauro è sottostimato, e la percentuale reale era vicina al 10%, ma questo significa che il 90% degli italiani nel 1861 parlava lingue o dialetti incomprensibili nel resto del paese. perfino re Vittorio Emanuele parlava piemontese, quando non si esprimeva nella sua lingua madre, il francese. Nell'euforia generale del periodo tra il 1859 e il 1861, quasi nessun politico italiano si fermò a riflettere sulle complicazioni relative all'unificazione di popolazioni così eterogenee. Uno dei pochi a farlo fu lo statista piemontese Massimo D'Azeglio, che dopo l'unità d'Italia dichiarò: "Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli italiani". Sfortunatamente, il nuovo governo decise invece che la priorità era trasformare l'Italia in una grande potenza in grado di competere militarmente con Francia, Germania e Austria-Ungheria. La missione era però destinata a fallire, perché il nuovo stato era molto più povero dei suoi rivali.
Per novant'anni, fino alla caduta di Mussolini, i leader italiani cercarono di creare un senso di unità nazionale trasformando gli italiani in coloni e conquistatori. Enormi somme di denaro furono stanziate per organizzare campagne militari in Africa, spesso con risultati disastrosi: nella battaglia di Adua (1896), quando i soldati etiopi spazzarono via l'esercito di Umberto I, il numero di caduti italiani fu superiore a quello di tutte le guerre del risorgimento. Inoltre, nonostante non avesse nemici in Europa, l'Italia entrò in guerra in entrambi i conflitti mondiali. Per due volte il governo italiano si lasciò allettare dalle promesse di ricompense territoriali e, a pochi mesi dall'inizio delle ostilità, scelse lo schieramento che pensava avrebbe prevalso. I calcoli sbagliati di Mussolini e la conseguente disfatta dell'esercito italiano distrussero il militarismo di Roma e anche il sogno di un patriottismo italiano. Per i successivi cinquant'anni, dopo la seconda guerra mondiale, il paese è stato dominato dalla Democrazia cristiana e dal Partito comunista, due partiti che seguivano rispettivamente la linea dettata dal Vaticano e quella del Cremlino, poco interessati a instillare negli italiani un nuovo sentimento di unità nazionale."
Qui mi fermo un momento, solo per dire che quest'ultima ricostruzione è si, un poco grossolana, ma c'è di vero che, per una qualche ragione che ci condanna ad essere perennemente divisi, magicamente, dopo la disintegrazione della DC, ci siamo ritrovati nuovamente divisi. Ma proseguiamo, che è interessante.
"Bisogna ammettere che sotto molti aspetti l'Italia del dopoguerra è stata un successo straordinario. Con uno dei più alti tassi di crescita al mondo, il paese è diventato un esempio da seguire nel campo del cinema, della moda e del design. Tuttavia i trionfi economici non hanno fatto che aumentare le diseguaglianze, e nessun governo si è occupato seriamente di appianare il divario tra nord e sud. [...] Alcuni difetti del paese sono strutturali, e risalgono al periodo dell'unificazione. La Lega Nord [...] non dev'essere liquidata come una bizzarra aberrazione. L'atteggiamento dei suoi elettori nei confronti del sud dimostra che molti italiani non si sono mai sentiti parte di un paese unito.
Il politico e storico liberale Giustino Fortunato amava citare il punto di vista del padre, secondo cui "l'unificazione dell'Italia è stata un crimine contro la storia e la geografia". Fortunato sosteneva che la forza della penisola risiede da sempre nelle realtà regionali, e un governo centrale non potrà mai funzionare adeguatamente. Con il passare degli anni la sue parole sembrano essere sempre più profetiche. Se l'Italia avrà ancora un futuro come stato dopo la crisi, Roma dovrà accettare un modello che tenga conto del regionalismo intrinseco e millenario del paese. Naturalmente l'Italia non tornerà a essere un insieme di repubbliche comunali, ducati rurali e principati, ma potrebbe benissimo diventare uno stato federale capace di riflettere la sua natura storica."

Ecco, trovo ci sia poco da aggiungere. Ce la faremo?

4 commenti:

Guido ha detto...

no

jumbolo ha detto...

:))

Livio (Milano) ha detto...

Interessante! Ho trovato l'articolo digitando David Gilmour ;) e sono di nuovo capitato sul vostro blog. Condivido la riflessione dell'anonimo storico, che però mi impensierisce. Se ci vogliono 400 anni per unire uno Stato e farlo diventare una nazione, allora che cosa dobbiamo pensare dell'Unione Europea???

mazza ha detto...

bello spunto Ale, sei sempre sul pezzo :D
comunque ce la faremo, dormite sonni tranquilli. fino a che avremo il Vaticano e le basi Nato non avremo problemi.