No - di Pablo Larraín (2013)
Giudizio sintetico: da vedere (4/5)
Nel 1988, il Cile era ancora sotto il "tacco" prepotente dell'ormai anzianotto generale Augusto Pinochet, che era salito al potere nel 1973 (esattamente l'11 settembre), grazie ad una crisi economico-sociale probabilmente creata ad arte, e soprattutto grazie all'aiuto degli USA, più precisamente da Kissinger (e dietro di lui naturalmente qualcuno anche più in alto), ed era ancora lì a dispetto delle atrocità commesse. Forse a causa della geografia di quel paese, lontano dall'occidente, forse per l'indolenza della politica internazionale, forse per la diffusa paura del comunismo, solo dopo quindici anni di dittatura, le pressioni internazionali costrinsero Pinochet e la sua giunta militare a mettersi in gioco con un referendum, il Plebiscito nacional, che in pratica chiedeva ai cileni se volevano Pinochet al potere altri otto anni, fino al marzo del 1997, oppure no.
Furono messi a disposizione, sulla televisione nazionale, 15 minuti, ogni sera per un mese prima delle votazioni, per ogni schieramento. Naturalmente, tutto il resto della giornata, la programmazione sosteneva il regime di Pinochet, e il fronte, formato da diciassette tra partiti politici e movimenti, che sosteneva il no ad altri otto anni del generale, non contava assolutamente di poter vincere: il successo sarebbe stato rappresentato dal riuscire a creare una coscienza politica nel popolo cileno, di fargli intravedere la possibilità di un Cile al di fuori della dittatura militare.
Il fronte del No, per realizzare gli spot televisivi, si rivolse a René Saavedra, un giovane creativo da poco tornato dal suo esilio in Messico. René, pubblicitario al passo, e forse in anticipo, sui tempi, vincendo la diffidenza dei politici di professione, che, comprensibilmente, avrebbero voluto impostare la campagna contro Pinochet sottolineando prima di tutto le cose orribili che aveva fatto il generale, sostenne invece la necessità di "montare" una campagna tutta rivolta all'ottimismo, come in uno spot della Coca Cola (o di una qualsiasi altra bibita "giovane", come ci mostra il film), per far capire che lo schieramento del No non era composto da comunisti che mangiavano i bambini o che volevano abolire la proprietà privata. Curiosamente, René era il creativo di punta dell'agenzia diretta da Lucho Guzmán, un imprenditore di successo vicinissimo ai vertici militari, che, senza mai ammetterlo, prese le redini della parte creativa per la campagna del Si.
Non fu certo una passeggiata, per René, per la sua famiglia, e per tutti quelli che lavorarono alla campagna del No. Ma, il 5 ottobre del 1988, giorno del referendum...
E io che, nel 1994 viaggiando in Cile, mi chiedevo perché i cileni non parlassero volentieri del loro passato. A parte questo, con questo film concludiamo anche le recensioni sui cinque candidati nella categoria "miglior film in lingua non inglese". E devo dire che non potevamo concludere meglio: il quarto film del cileno Larraín, che vi ho "raccontato" nella sua progressione (Fuga, Tony Manero, Post Mortem), è un film che secondo me non dovreste perdervi, per diverse ragioni.
Il film è basato sul monologo inedito El plebiscito, di Antonio Skármeta (Il postino di Neruda, dal quale fu tratto Il postino con Troisi; l'ultimo lavoro, del 2011, Los dìas del Arcoìris, tratta ancora del gruppo che sostenne il No al Plebiscito), sceneggiato ed ovviamente "arricchito" da Pedro Peirano, giornalista e sceneggiatore (già per La nana), che ha approfondito la storia della campagna del No insieme a Lorena Penjean, ed è messo in scena dal giovane regista cileno con un formato 3:4 (per intenderci, sullo schermo vedrete le immagini quadrate, anziché rettangolari), ma soprattutto con una fotografia che ricalca perfettamente quelli dei filmini in super8 di un tempo: dopo un iniziale spaesamento, lo spettatore si ritrova così catapultato dentro gli anni '80 (a dire il vero, a noi darà l'impressione dei '70, ma c'è da tenere di conto il ritardo "causato" dalla dittatura). Non finisce qui; il cast è formato da attori che al pubblico italiano sono sconosciuti, ma che si rivelano essere tutti assolutamente all'altezza. Ci sono naturalmente due eccezioni, nelle due parti principali. Rané Saavedra è interpretato da un bravissimo Gael García Bernal, spavaldo pubblicitario ma con l'approssimarsi delle votazioni impaurito dalla prepotenza del regime (non perdetevi la scena finale, con l'incredulità, mista alla consapevolezza di aver compiuto un'impresa storica, dipinta sul volto di questo messicano che ancora una volta si dimostra un grande attore); l'amico/antagonista Lucho Guzmán è impersonato da un altrettanto bravissimo Alfredo Castro, un attore che abbiamo conosciuto proprio attraverso i film di Larraín, e che ultimamente abbiamo visto anche in E' colpa del figlio, e che come sempre riesce a risultare straordinariamente repellente.
Devo però aggiungere una cosa, perché qualcuno potrebbe pensare di trovarsi dinnanzi ad uno di quei film cupi, dove il terrore e la violenza rendono il tutto indigeribile. Larraín, affinando quel suo strano senso dell'umorismo, riesce a girare un film che parla della fine di un periodo terribile per il suo Paese, adottando un alternanza di momenti tesi ad altri decisamente comici, spiazzando spessissimo lo spettatore e ribaltando continuamente l'atmosfera.
Un film che affronterà a testa alta quello del marpione intellettuale Haneke (Amour), e che come quasi ogni anno accade, forma parte della categoria che racchiude le migliori espressioni del cinema internazionale. L'uscita italiana pare programmata per aprile.
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