Il bene ostinato - di Paolo Rumiz (2011)
"Domande mi frullavano in testa. Che Italia è, questa che opera in silenzio e si ostina a non voler apparire, in un mondo sempre più orientato verso la visibilità? Come mai il cuore del volontariato italiano - la provincia veneta - corrisponde territorialmente al nucleo forte della protesta leghista e, al primo sguardo, anche all'Italia più chiusa nella psicosi da invasione extracomunitaria? Quanto è cambiata, vista da quell'angolatura, la temperatura solidale del mio paese? Come si coniugano o si confrontano altruismo e sospetto? Da quali oscure radici proviene, in un paese da sempre campanilista, aggrappato all'opportunismo e alla gestione del "particulare", questa voglia di darsi a genti di terre lontane?"
E, ancora: "Apprendo che tra i primi medici arrivati a Matany (Uganda) c'era Franco Ratti, che ho conosciuto negli anni novanta nei panni di sindaco leghista (e contemporaneamente di medico di famiglia) di Gravellona Lomellina. Franco è un uomo speciale, capace di spendersi. Il prototipo dell'enigma italiano, di un paese in grado di esprimere il massimo della chiusura e il massimo della dedizione negli stessi territori. Un figlio-tipo dello spazio di reclutamento Cuamm, in larga misura padano. Il segno di un'Italia che va ascoltata senza spocchia o giudizi sommari."
Paolo Rumiz, se ancora qualcuno non se ne fosse accorto uno dei pochi, grandi giornalisti con la G maiuscola dei nostri tempi, incontra i Medici con l'Africa Cuamm (Collegio universitario aspiranti e medici missionari), la prima Ong nata in Italia, pensate, nel 1950, a Padova. Nasce tutto un po' per caso, pensate, con Rumiz, autodefinitosi "tendenzialmente un mangiapreti", che incontra qualche anno fa Guido Bertolaso, in occasione di una sua inchiesta per Repubblica sulla linea sismica italiana dopo il terremoto de L'Aquila, e con Bertolaso che gli parla del Cuamm, reputandoli i migliori: "Di loro in Italia si parla poco, ma all'estero tutti li conoscono e li stimano.". Rumiz, triestino, che con gli anni, da grande conoscitore dei Balcani (a proposito, leggo che è stato ristampato, proprio quest'anno, il suo fondamentale Maschere per un massacro - Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in Jugoslavia, il libro che me lo ha fatto conoscere, prima dei suoi reportage su Repubblica, davvero imperdibile per capirci qualcosa, originariamente uscito, una decina d'anni fa, per Editori Riuniti, e adesso ristampato per Feltrinelli con una nuova prefazione dell'autore, non perdetevelo) a inviato di guerra, si è "trasformato" in giornalista viaggiatore, senza però perdere l'acume, inquadrando tutte le sue esperienze in un contesto storico, ma riflettendole nel presente, e non mancando mai di compararle con la sua nazione d'origine, dando vita sempre a delle domande che aiutano a crescere, non perde l'occasione per viaggiare in un continente che, evidentemente, per lui era ancora sconosciuto (anche se suo figlio ci aveva lavorato e gliene aveva parlato, in maniera toccante, fate caso alla lettera che Rumiz trascrive a un certo punto).
Quello che ne esce, oltre che a farvi innamorare di questa Ong, anche se, come me, siete scettici sulla sua "base" cattolica, è, nonostante la brevità del libro, una serie di pagine dense di prosa schietta ma poetica, un ritratto estremamente reale e commovente del cosiddetto Continente Nero, un catalogo di italiani che definire eroi sarebbe riduttivo, e, ovviamente, una serie di riflessioni amare, amarissime, su quanto la nostra classe dirigente sia cieca, e negli ultimi 60 anni non abbia fatto altro che distruggere da una parte le nostre risorse, dall'altra la vocazione solidale, non riconoscendo mai chi merita, e facendo perdere a tutti noi, l'orgoglio nazionale, il patriottismo buono. Eppure, qualcosa c'è ancora. Rumiz, come spesso fa, sembra suggerirci di ripartire da questo qualcosa.
Libro snello e toccante, scritto divinamente. Con una minore tendenza al farsi considerare un guru, Rumiz, mi è "apparso" chiaro questo paragone, si avvia a diventare il Terzani dei nostri tempi, meno spirituale e più concreto, ma non certo meno tagliente. Gli auguro una lunga vita, e mi auguro di leggere ancora tanti suoi resoconti: oltre a far viaggiare senza partire, aprono il cuore e fanno bene.
Ancora una volta, grazie Paolo.
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