This Must Be The Place – di Paolo Sorrentino (2011)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: o che botta ti cià lulì?
Dublino, Irlanda. Cheyenne, di origine ebrea, è un ex star della musica dark. Vive con l’amata moglie Jane nella lussuosa, enorme (troppo grande per due persone) villa immersa nel verde, non ha alcun bisogno di lavorare, l’unica specie di preoccupazione che ha è piazzare le sue azioni in borsa. Tutte le mattine si alza stancamente, senza nessuna cosa da fare, e si trucca con cerone e rossetto come quando era adolescente, come se dovesse andare in tour. Esce, e senza meta si trascina dietro o un carrellino per la spesa con le ruotine, oppure un trolley, come una coperta di Linus. Molto amico di Mary, una giovane dark, il cui fratello è scomparso improvvisamente senza lasciare traccia, e la di cui madre attende ogni giorno alla finestra il suo ritorno, sta tentando di far fidanzare la stessa Mary con un timidissimo ed impacciato cameriere del locale dove i due vanno sempre a bere caffè.
Cheyenne è lento, sempre stanco, annoiato, e si esprime con un filo di voce (anche se, ogni tanto, sbotta, facendo uscire i suoi sensi di colpa), usando spesso le stesse frasi. Somiglia ad un bambino.
D’improvviso, la notizia che il padre, col quale non parla da 30 anni, sta morendo nella sua casa di New York. Cheyenne, che ha pure paura di volare, parte per gli USA. Lì, trova il padre morto, e scopre che per tutta la vita ha dato la caccia al suo aguzzino ad Auschwitz: Aloise Muller. Muller è ancora vivo, seppur molto vecchio. Cheyenne, con in mano i quaderni di appunti e disegni di suo padre, invece di tornarsene al suo torpore irlandese, parte per un on the road statunitense alla ricerca della “preda” del padre.
Ed eccolo, finalmente, il “primo film americano”, interamente girato in inglese, di uno dei più bravi registi che l’Italia abbia partorito negli ultimi anni. E, fortunatamente, This Must Be The Place è un bel film. Sorrentino placa un poco il suo freddo occhio “simmetrico” (le inquadrature per Le conseguenze dell’amore e L’amico di famiglia), e si lascia andare a panorami ed inquadrature perfino bucoliche. Aiutato da una strepitosa fotografia (di Luca Bigazzi), entrambe le parti esterne (quella irlandese e quella statunitense) risultano una goduria infinita per l’occhio. Mi è perfino venuto in mente che il personaggio della madre di Mary, e l’allegata storia del figlio scomparso, sia stata messa lì solamente per inquadrare più e più volte le casette a schiera, tipicamente anglosassoni, con quella specie di astronave sullo sfondo (che non è altro se non lo stadio di Dublino).
Il film, dunque, è sublime sia a livello visivo, sia a livello recitativo, retto interamente dalle spalle, o meglio, dalla faccia di Sean Penn, sul quale ormai non possiamo aggiungere altro, se non rallegrarci che un regista italiano sia riuscito a ben dirigerlo, con un personaggio tra l’altro molto, molto sopra le righe. C’è qualche dubbio sulla storia, sulla sceneggiatura che sembra viaggiare non eccessivamente in maniera fluida, e su qualche metafora probabilmente esageratamente didascalica (il trolley di Cheyenne), ma i sentimenti di cui ci parla Sorrentino, che per la prima volta scrive una sceneggiatura a quattro mani (con Umberto Contarello), sono quelli grandi, sublimi, ma semplici, gli stessi, di cui parlava in fondo, Le conseguenze dell’amore; e anche se, per estrinsecarli, risulta un po’ contorto, ci riempie gli occhi, come detto prima, ci tocca il cuore in almeno 3, 4 occasioni, in maniera importante, e al tempo stesso, ci fa sorridere con un personaggio “dei suoi”; Cheyenne, infatti, potrebbe essere un po’ l’antitesi del Tony Pagoda “completo”, quello ben descritto e approfondito nel suo libro Hanno tutti ragione, anche se, alla fine, sono entrambi due “bravi guaglioni”.
Giudizio vernacolare: o che botta ti cià lulì?
Dublino, Irlanda. Cheyenne, di origine ebrea, è un ex star della musica dark. Vive con l’amata moglie Jane nella lussuosa, enorme (troppo grande per due persone) villa immersa nel verde, non ha alcun bisogno di lavorare, l’unica specie di preoccupazione che ha è piazzare le sue azioni in borsa. Tutte le mattine si alza stancamente, senza nessuna cosa da fare, e si trucca con cerone e rossetto come quando era adolescente, come se dovesse andare in tour. Esce, e senza meta si trascina dietro o un carrellino per la spesa con le ruotine, oppure un trolley, come una coperta di Linus. Molto amico di Mary, una giovane dark, il cui fratello è scomparso improvvisamente senza lasciare traccia, e la di cui madre attende ogni giorno alla finestra il suo ritorno, sta tentando di far fidanzare la stessa Mary con un timidissimo ed impacciato cameriere del locale dove i due vanno sempre a bere caffè.
Cheyenne è lento, sempre stanco, annoiato, e si esprime con un filo di voce (anche se, ogni tanto, sbotta, facendo uscire i suoi sensi di colpa), usando spesso le stesse frasi. Somiglia ad un bambino.
D’improvviso, la notizia che il padre, col quale non parla da 30 anni, sta morendo nella sua casa di New York. Cheyenne, che ha pure paura di volare, parte per gli USA. Lì, trova il padre morto, e scopre che per tutta la vita ha dato la caccia al suo aguzzino ad Auschwitz: Aloise Muller. Muller è ancora vivo, seppur molto vecchio. Cheyenne, con in mano i quaderni di appunti e disegni di suo padre, invece di tornarsene al suo torpore irlandese, parte per un on the road statunitense alla ricerca della “preda” del padre.
Ed eccolo, finalmente, il “primo film americano”, interamente girato in inglese, di uno dei più bravi registi che l’Italia abbia partorito negli ultimi anni. E, fortunatamente, This Must Be The Place è un bel film. Sorrentino placa un poco il suo freddo occhio “simmetrico” (le inquadrature per Le conseguenze dell’amore e L’amico di famiglia), e si lascia andare a panorami ed inquadrature perfino bucoliche. Aiutato da una strepitosa fotografia (di Luca Bigazzi), entrambe le parti esterne (quella irlandese e quella statunitense) risultano una goduria infinita per l’occhio. Mi è perfino venuto in mente che il personaggio della madre di Mary, e l’allegata storia del figlio scomparso, sia stata messa lì solamente per inquadrare più e più volte le casette a schiera, tipicamente anglosassoni, con quella specie di astronave sullo sfondo (che non è altro se non lo stadio di Dublino).
Il film, dunque, è sublime sia a livello visivo, sia a livello recitativo, retto interamente dalle spalle, o meglio, dalla faccia di Sean Penn, sul quale ormai non possiamo aggiungere altro, se non rallegrarci che un regista italiano sia riuscito a ben dirigerlo, con un personaggio tra l’altro molto, molto sopra le righe. C’è qualche dubbio sulla storia, sulla sceneggiatura che sembra viaggiare non eccessivamente in maniera fluida, e su qualche metafora probabilmente esageratamente didascalica (il trolley di Cheyenne), ma i sentimenti di cui ci parla Sorrentino, che per la prima volta scrive una sceneggiatura a quattro mani (con Umberto Contarello), sono quelli grandi, sublimi, ma semplici, gli stessi, di cui parlava in fondo, Le conseguenze dell’amore; e anche se, per estrinsecarli, risulta un po’ contorto, ci riempie gli occhi, come detto prima, ci tocca il cuore in almeno 3, 4 occasioni, in maniera importante, e al tempo stesso, ci fa sorridere con un personaggio “dei suoi”; Cheyenne, infatti, potrebbe essere un po’ l’antitesi del Tony Pagoda “completo”, quello ben descritto e approfondito nel suo libro Hanno tutti ragione, anche se, alla fine, sono entrambi due “bravi guaglioni”.