Tool, Bologna, PalaMalaguti, 22/6/2006
E’ il giorno del passaggio del turno dell’Italia ai Mondiali di Germania. E fa un caldo bestiale. Gli ultimi tre dischi dei Tool (in 10 anni) sono bellissimi; è lecito aspettarsi un gran concerto.
Fuori del PalaMalaguti, la prima cosa che noto è un bus proveniente da Zagabria, Croazia, pieno di ragazzi e ragazze qui per i Tool. Poi una miriade di bancarelle di
merchandising non ufficiale, e spettatori di tutti i tipi. Signori, l’alternativo, per chi ancora pensa che i Tool siano “
alternative”, non abita più qui. Del resto, già in teoria, chi fa tre date in Italia, a Milano al Forum, sold out a Roma (prima doveva essere al Centrale del Foro Italico, poi spostato misteriosamente pochi giorni prima al Palaghiaccio di Marino) e un buon incasso (5/6000 spettatori) a Bologna, ha ormai ben poco di alternativo. Il problema è che, da qualcuno, questo viene visto come un male. Peggio per lui.
Il caldo, però, ci insegue fin dentro il palazzetto, è questo il problema. A fine concerto sembra di stare dentro un enorme forno. Mentre il calore mi fiacca lentamente, osservo ancora la varia umanità che affolla il concerto. Nessun gruppo spalla. Molto male. Poco prima delle 21 una voce femminile comunica che il concerto inizierà regolarmente alle 21, e reitera le avvertenze (pare diffuse dalla band), che pregano di non usare i flash delle macchine fotografiche “
perché rovinano l’atmosfera del concerto e distraggono la band”. Beh, questa è davvero divertente.
Alle 21 in punto si spengono le luci, le aspettative sono al massimo, ma vicine ad avere risposte chiare. Entrano
Justin, l’inglese della band, al basso,
Adam, la mente, lo schivo ragazzo che cominciò suonando il violino e proseguì imbracciando il basso accanto a un giovane
Tom Morello che già suonava la chitarra negli
Electric Sheep, per poi diventare lui stesso chitarrista e innovatore, e
Danny, un roccioso e virtuoso batterista dalla stazza imponente, giocatore di basket al college. Attaccano
Lost Keys in attesa del misterioso
Maynard James Keenan, l’ex soldato ravennate (ebbene si: per chi non lo sapesse è nato a Ravenna, Ohio), che si manifesta, è proprio il caso di dirlo, solo all’inizio della seguente
Rosetta Stoned, giocando alle ombre cinesi dietro i quattro schermi giganti dietro il palco. I volumi sono altissimi, ma gli equilibri precari. L’acustica del PalaMalaguti si conferma ancora una volta pessima, e si può solo avere compassione dei tecnici audio che devono lavorarci per renderla accettabile, ma la versione che esce fuori di questa accoppiata iniziale è piuttosto scarsa, molte sbavature e un po’ di confusione. Maynard esce da sotto gli schermi, ma rimane sulla pedana accanto alla batteria, torso nudo, cresta posticcia, un cinturone con strani arnesi attaccati. Rimarrà in penombra, com’è solito fare, nascondendosi nel buio senza neppure uno straccio di
spot che lo illumini anche solo per sbaglio, con vistosi occhiali da sole. L’impressione è che si nasconda un po’ anche con la voce, tenendo i volumi piuttosto bassi. Affoga così, nel marasma degli strumenti, anche il passaggio chiave “
overwhelmed as one would be, placed in my position” di
Rosetta Stoned. Il pezzo finisce e mi dico che i suoni miglioreranno, e la voce si scalderà.
Maynard, stranamente, parla: “
Buonasera. And congratulations for your victory today”, frase che ovviamente scatena l’entusiasmo generale. Già su “
today” parte
Stinkfist che bene o male è sempre un pugno nello stomaco, e che bene o male ricorda sempre i
King Crimson virati in chiave metal. Parentesi.
Metal, altra parola chiave. C’è chi arriva ai Tool da altre strade, e questo è buono. C’è però chi rifiuta il metal, ma ama i Tool. Beh, non so che dire. Se non è metal questo, io sono un modello di
Calvin Klein.
La versione è leggermente variata, e a ruota segue
Forty Six & 2. La confusione è sempre nell’aria, ma le cose migliorano leggermente, e le teste ondeggiano sugli stop precisi di Danny e gli altri con gli strumenti a corda.
Sugli schermi scorrono immagini psichedeliche, o estratti dei videoclip, magari rimontati. Adam è immobile e assorto nel suo dovere. Justin è l’unico che dà un minimo di movimento, ma è sempre un qualcosa di infinitamente ridotto rispetto a bands che fanno della presenza scenica una parte fondamentale del loro valore aggiunto live.
Maynard presenta simpaticamente
Jambi farfugliando volutamente prima di dire “
ten thousand days”, rifarfugliando qualcosa prima di dire “
Jambi”. Il pezzo esce alla grande, una versione superba. Sempre Maynard, che nel frattempo al posto della cresta si è messo il suo cappello di paglia da cowboy, inscena una specie di rodeo immaginario. Insieme a qualche calcio nell’aria, forse per far vedere che indossava stivali anche oggi, sarà uno dei pochi movimenti che avrà inanellato alla fine. Buffo, nel senso peggiore del termine. Comunque sia, da questo pezzo in poi il concerto finalmente decolla.
La seguente è
Schism, eseguita con alcune variazioni, forse cantata troppo alta nella prima parte, ma ben fatta musicalmente. Trascinante e suggestiva. Parte
Right In Two e sento che ci siamo. Il momento è propizio e il pezzo è quello giusto. Bello, infinitamente. Maynard continua a nascondersi anche con la voce, ma qui fa la cosa giusta. Godo.
Danny, dopo l’intermezzo con le tabla, diventa un fiume in piena nel crescendo finale. Maestoso.
Chitarra e basso, aiutati dai rispettivi conduttori, tramite volumi, manopole e
feedback sugli ampli, creano un intermezzo noise simile a tratti a
(-) Ions ma anche a
Viginti Tres. Se chiudi gli occhi potresti non tornare indietro. E’ solo l’introduzione alla storica
Sober, che conferma il momento propizio del concerto: ennesima grande versione.
Arriva
Lateralus, che è grande, ma verso la fine Maynard (sempre lui!) salta qualche parte cantata. Insiste col suo atteggiamento da non-frontman, defilatissimo e nel buio: ognuno ha il suo parere su questo, ma a me infastidisce. Magari sbaglio io. Il termine di
Lateralus è perfetto, all’unisono con le immagini proiettate sugli schermi, preponderanza di rosso fuoco e un finalone metal straripante e cazzuto.
Pausa sul palco per la band, strana questa cosa. Danny (che lancia un paio di bacchette), Justin e Adam seduti guardando il pubblico, Maynard sdraiato dietro di loro. Magari è agorafobico.
Si riprende con
Vicarious e la storia si ripete: massiccia la prestazione strumentale, mentre Maynard non ne ha più, così pensa bene di smettere di cantare prima, bevendo in allegria dell’acqua. Alla fine del pezzo saluta, ma gli altri attaccano
AEnema, chissà, magari costringendolo all’ultimo sforzo. Il pezzo esce così così, ma il pubblico apprezza ugualmente, anche se Maynard ripete il copione e per lui la parte cantata termina prima del solito. E’ finita, il cowboy saluta col segno della pace e si dilegua, gli altri tre si dilungano sul palco beccandosi gli applausi e ricambiando alla loro maniera: Adam sobriamente, ma visibilmente soddisfatto, Justin rispondendo agli applausi con altri applausi e salutando in maniera calorosa, Danny distribuendo bacchette e addirittura pelli di tamburo, dilettandosi sulla distanza e usandole come frisbee.
Rifletto un momento anche su quel poco che mancava, a parte la presenza scenica. Sono convinto che nelle parti strumentali più violente mancasse qualcosa, un briciolo di potenza di fuoco. Rilevo la possibilità che, soprattutto negli
stop and go, lo stile di Justin, piuttosto tecnico e ricercato, non dia la giusta spinta congiunta con le “fermate” di Danny e le pennate secche di Adam. Sofismi.
La prova di Maynard, splendida voce su disco, è stata decisamente altalenante, lasciando la netta sensazione che regolasse (lui o chi per lui) i volumi soprattutto preoccupato di non farsi sentire quando non ne aveva e viceversa, ma anche quella che non regga due date consecutive in due giorni. O magari era una serata storta.
Compro una maglia per mio nipote di due anni. Gli andrà giusta il prossimo anno, più piccole non ne trovo. Magari “10.000 Days” vende 13 milioni di copie e lui si bulla con gli amichetti. Magari il prossimo tour indovino la serata giusta di Maynard e mi diverto anche di più. Stasera, evidentemente, era la serata fortunata dell’Italia, ma non la mia. Almeno, non fino in fondo.