No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20060611

rock da stadium


Red Hot Chili Peppers – Stadium Arcadium 2006

Spero che a nessuno sfugga l’importanza che i RHCP hanno avuto nel rock contemporaneo, anche se fino al ’90 in Italia non c’era verso, per un comune mortale, di ascoltare i loro cd (Non ci credete? Per riuscire ad ascoltarli ho dovuto, proprio in quell’anno, pregare un mixerista di una band statunitense prima di un concerto di mettere nell’impianto audio “The Abbey Road EP” che avevo visto vicino al cassettino cd. Nessuna possibilità di trovare i loro primi 3 lavori nei negozi. “Mother’s Milk”, uscito l’anno prima, fu di lì a poco rintracciabile). Grazie a loro, la parola crossover assunse un significato più largo; fino al loro avvento, veniva usato solamente per il mix di metal e punk, avendo giocoforza un uso ristretto.

Tutti, però, invecchiano, ed in un certo qual modo, evidentemente, “mettono la testa a posto”, dirigendosi verso acque più sicure. La parabola dei peperoncini si potrebbe riassumere così, forse.

Questo nuovo “Stadium Arcadium” non è un brutto disco, ma ha molti difetti. Prima di tutto, è ridondante. 28 pezzi sono francamente troppi, per essere tutti belli. Così è, in effetti. Alla lunga, risulta noioso e, cosa una volta impensabile per la musica dei Peppers, fa da sottofondo, ma non graffia.

Sono lontani i tempi delle apparenti assurdità degli accostamenti di “Mother’s Milk”, o del masterpiece “Blood Sugar Sex Magik”, dove il funky era prepotente e muscolare, le ballate erano poche ma sofferte e significative, il rap del cantato si fondeva alla perfezione con una costruzione rock superba.

Adesso ci sono tentativi stucchevoli di reinventarsi cantante melodico da parte di Kiedis, abbinate a mielose ballatone da accendino (Stadium Arcadium, Slow Cheetah, Desecration Smile, She Looks To Me), reminescenze funky che capitolano ben presto nel pop (Warlocks, Tell Me Baby), pezzi che ricordano un po’ troppo vecchie produzioni (She’s Only 18, Readymade, If, Storm In A Teacup), riempitivi davvero inutili (C’mon Girl, Wet Sand, Hey, Hard To Concentrate, Make You Feel Better, Animal Bar, Death Of A Martian).

Un peccato, perché la sezione ritmica continua ad essere rocciosa come quella di una band di ragazzini (Flea davvero in gran spolvero, impressionante in Charlie), e soprattutto la chitarra di John Frusciante dipinge assoli, armonici e atmosfere che, spesso, valgono da soli la pena dell’ascolto di una serie di canzoni spesso mediocri. Inutile che mi metta qui ad indicarvi titoli e minutaggio, sappiate solo che Frusciante, evidentemente più inquadrato al servizio della band rispetto ai suoi deliri solistici, ha di gran lunga sorpassato (non vi stupisca l’accostamento apparentemente azzardato) Richie Sambora, un chitarrista che, nonostante il tipo di musica suonata nei Bon Jovi, ne sa a pacchi e ha grande classe, classe che gli permette di rendere, anche con due note, indimenticabile una canzone. Ascoltatevi il finalone country di Slow Cheetah (30 secondi, mentre Kiedis canta ancora), il crescendo finale di Especially In Michigan, oppure l’assolo centrale di Strip My Mind (tra l’altro, canzone dove i suoi cori ricordano il Fossati dei Delirium, non chiedetemi perché, solo ascoltatela e dopo riprendetevi il 45 giri di Jesahel).

Meglio, sia lui, sia tutta la band, sul primo dischetto rispetto al secondo. Purtroppo, si parla ormai di pop-rock, non più di crossover di un certo livello. Roba da stadio. Vista la resurrezione dagli inferi della droga, potrebbero diventare i Rolling Stones della mia generazione.

Questo disco venderà molto. Io però passo.

1 commento:

lafolle ha detto...

la copertina e il titolo fanno cagare.
ma frusciante è un bel pazzerello...