No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20061102
sulla vita e sulla morte
Babel – di Alejandro González Iñárritu 2006
Richard e Susan sono una coppia statunitense in crisi. Hanno due figli stupendi, Mike e Debbie, ma ne hanno perso un terzo, e questo ha causato una crisi. Si concedono una vacanza in Marocco.
Amelia è la donna di servizio. E’ messicana, accudisce la casa e cresce Mike e Debbie come se fossero suoi. Ma il giorno del matrimonio di suo figlio non può certo mancare, e deve tornare in Messico, se non fosse che in Marocco accade qualcosa di grave.
Chieko è un’adolescente giapponese. E’ sordomuta, e sua madre è morta da poco. Il padre, sempre impegnato col lavoro, nonostante si sforzi di essere premuroso, non riesce a tenere a freno la ragazza, che, continuamente irrequieta, insofferente per come le persone la vedono e la emarginano a causa della sua diversità, sfiora la ninfomania pur di essere desiderata e amata.
Il regista Alejandro González Iñárritu e lo sceneggiatore Guillermo Arriaga (quello del libro “il bufalo della notte”), un connubio senza dubbio più che interessante. Amores Perros, del 2000, 21 Grammi del 2004, e adesso questo Babel, sempre scritti insieme. Credo sia impossibile giudicare questo nuovo lavoro non tenendo conto della filmografia intera. Prima di tutto, perché praticamente tutti parlano di trilogia (chi dice del dolore, chi dei sentimenti). In secondo luogo, ma non meno importante, perché lo schema, anzi, l'anti-schema, quello che viene rotto da questo regista, è quello della cronologia. Se nel primo film ci mostrava separatamente, una dopo l’altra, tre storie che si intrecciavano, facendoci quindi rivivere alcune scene da punti di vista differenti, nel secondo andava oltre, non fermandosi al “rewind” di Irreversible o di Memento, ma destrutturando la storia, tagliandola e poi gettando i pezzi sullo schermo come fossero i pezzi di un puzzle. In questo Babel prosegue per questa ultima strada, ma in effetti il ricomponimento delle storie risulta leggermente più semplice (è anche molto diretto il legame tra le prime due storie, mentre appare meno chiaro quello con la storia giapponese, legame che sarà svelato quasi in chiusura), e l’occhio del regista appare più distante, meno coinvolto, anche se la forma rimane pienamente coinvolgente.
E, di grazia, di cosa si parla? Si parla della vita (bambini e adolescenti), della morte (la coppia statunitense, e quindi la tata, hanno perso un figlio, la famiglia marocchina lo perderà, l’adolescente giapponese ha perso la madre), della perdita (della vita, dell’udito e della parola, dei figli, dei genitori, della libertà, della dignità), e di come le persone, ma spingiamoci più avanti, le società, affrontano questi, che sono poi i valori, i grandi temi dei quali spesso sentiamo chiunque riempirsene la bocca per poi non capire, o non sapere, che cosa significhino realmente. Se ne parla con un linguaggio semplice ma crudo e diretto, il regista ci sbatte davanti il gap tra le civiltà, sfiora temi attuali, alcuni li prende in giro senza affrontarli (il terrorismo), altri li lambisce apparentemente, in realtà prende una posizione piuttosto netta (l’immigrazione – come potrebbe essere altrimenti, essendo lui stesso messicano -), la perdita di solidarietà tra gli uomini (più questo, che il fatto che il film si svolga in diverse parti del mondo, dove si comunica con linguaggi diversi, ci sembra che possa aver ispirato il titolo dal riferimento biblico), come ci mostra l’episodio dei passeggeri statunitensi del pullman dove si trovano Richard e Susan.
Quindi, un film denso e impegnativo, pesante nel senso buono del termine, con storie intense, come sempre succede con Iñárritu (e Arriaga). Espedienti già visti (appunto la cronologia sfalsata, la fotografia virata diversamente per le diverse storie e i diversi ambienti), quindi una leggera ridondanza, per dire dei difetti, ma al tempo stesso una serie interminabile di prove di recitazione straordinarie, segno di una grande direzione, oltre che di attori maturi, anche i più sconosciuti. Alcune scene indimenticabili (cercatele nelle varie scene della famiglia marocchina, parentesi fondamentale del film, una sottotrama deliziosamente miserabile e al tempo stesso con una grandissima dignità, o nell’episodio giapponese, la scena della discoteca su tutte, oppure anche quella della fuga di notte nel deserto della tata messicana con i due bambini, un climax angosciante e asfissiante girato in maniera maestosa) ne fanno un’ennesima gran bella prova, e, forse, il film risulta sminuito solo dal fatto che i due precedenti erano talmente belli che ancora non riusciamo a toglierceli dalla testa e dai ricordi.
A questo punto, Alejandro, ti voglio vedere alle prese con una storia dalla cronologia “normale”. In fondo, questo regista ha già dimostrato di poter andare oltre a quella che viene individuata ormai come sua cifra stilistica (vedi l’episodio mozzafiato da lui diretto all’interno del progetto 11 settembre 2001). Coraggio: la prossima volta stupiscici con il trionfo della normalità.
PS dimenticavo: ma a chi è venuta l'idea di doppiare i messicani con l'accento veneto?
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3 commenti:
terrorismo e politica estera...
e castelfranco veneto!
già, metto un ps
vb
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