Cinque e cinque
Antica locuzione livornese che sta a indicare la tradizionale porzione di pane e torta (cinque centesimi di pane e cinque di torta), nutrimento impareggiabile e gustoso del popolo da numerose generazioni.
La torta (preparata in apposite teglie, basse e rotonde, ove si versa il composto di farina e acqua che viene cotto in forno a legna; nella migliore configurazione assume un aspetto di superficie dorata e croccante e viene servita tagliata a fette su fogli di carta gialla; il responsabile unico della torta è il tortaio, rude e silenzioso artigiano che ama esibirsi solo nel taglio, il complesso rituale di fendenti accompagnato da schiocchi e botte d’un particolare marraccio sul bordo e sul fondo della teglia; in tal guisa egli è capace di misurare alla perfezione il peso della porzione; prima di procedere al taglio, il tortaio avvertito, un tempo, pretendeva di vedere la moneta corrispondente, al che l’avventore era uso replicare : “è saosa, e ti fidi….!”. Tra i tortai più illustri di scuola di tradizione labronica basti citare il grande Maestro Seghieri di fronte al Liceo Classico Niccolini, presso il quale il sottoscritto, nel corso del primo trimestre dell’anno scolastico 1960-61 consumò un quintale della prelibata vivanda -record tuttora imbattuto sulla distanza-), che essendo fatta con farina di ceci altrove è nota anche col nome di “cecìna” o “torta di ceci”, rappresenta un archetipo alimentare della civiltà della gente livornese, così come i maccheroni lo sono di quella napoletana; la torta, per la sua semplicità e versatilità, può essere consumata indifferentemente in qualsiasi momento del giorno e può fungere da prima colazione, pranzo, merenda o cena, risultando, in virtù della sua base leguminacea, ugualmente pesante e indigesta a tutte le ore.
Dal “first report on “torta” eating among the very hungry Leghorn’s people” :
“Due sono le condizioni tipo alle quali può essere consumata la torta : quella “diaccia marmata e unta” preferita dall’ “allezzito”, empie subito le viscere e vi permane per mezza giornata, dando luogo al fenomeno del “fortore”; spesso fa mappazza in gola e deve essere vigorosamente sfondata con un bicchiere di spuma bianca gelata che può provocare intensa lacrimazione e mancamenti di coscienza; quella “abbollore” a temperatura di fusione della ghisa con pericolo di ustioni gravi nel cavo orale e nella canna della gola; la sua assunzione è accompagnata da soffi, sbuffi e stronfiamenti di diversa intensità, quando non dalla sua restituzione in forma di bòlo bavoso sul foglio; anche in questo caso possono insorgere lacrimazione e turpiloquio di varia coloritura”
È inoltre da segnalare il bizzarro comportamento del neofita (turisti in cerca di emozioni, pisani ed altri sprovveduti) del “cinque e cinque” il quale è spesso indotto in fallo dalla cospicua differenza termica tra il pane, a temperatura ambiente, e il ripieno di fette di torta, “abbollore”; nell’addentare con decisione la vivanda può accadere ch’egli indulga nella nota espressione “…..la rotta ‘n culo di tu’ ma’!” rivolta al tortaio che segue divertito la scena.
È opportuno sottolineare che gli effetti della “torta” sul piano fisiologico dei processi digestivi e metabolici in generale son pressoché pari a quelli del temibile “cavolo straciàto” con l’aggravante della velocità dei processi stessi e dell’incontenibilità del prdotto; se ne sconsiglia pertanto l’assunzione a chi non abbia il pieno controllo degli apparati d’uscita.
Da “il Borzacchini Universale, dizionario ragionato di lingua volgare, anzi volgarissima, d’uso del popolo alla fine del secondo millennio dal parlare toscano e vieppiù labronico diligentemente mutuata” edizione accresciuta e corretta, Ed. Ponte alle Grazie 1996
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