No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20051225
ripescaggio
Goodbye Dragon Inn – di Tsai Ming-liang 2003
Taiwan, una giornata piovosa e umida come tante. Un cinema sta per chiudere, è al suo ultimo giorno di programmazione, sta iniziando il suo ultimo spettacolo. Danno “Dragon Inn”, un film di grande successo quasi 40 anni fa. Un giovane, quasi per ripararsi dalla pioggia entra nel cinema.
C’è una bigliettaia zoppa, che tenta di dividere il suo spuntino con il proiezionista. C’è un pubblico prettamente maschile, sembra proprio che in tanti anni il cinema sia diventato un ritrovo gay. Ci sono movimenti strani, ci sono i secchi da svuotare per via delle infiltrazioni dal soffitto, in sala personaggi strani che vivono il cinema non solo guardando la pellicola. Ci sono due anziani signori, che paiono proprio i protagonisti della pellicola che sta andando sullo schermo; uno di loro piange, all’uscita i due si incrociano e dialogano malinconicamente. La pioggia scroscia come un fiume, e, alla fine, la serranda si abbassa per sempre.
Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: non è un film gay. Non è un film d’azione. Non è un film lento: di più, molto di più. La dilatazione dei tempi di Tsai è da record mondiale. Chi ha visto qualche suo film, si ricorderà la scena finale di “Vive l’amour”: 5 minuti e passa di camera fissa sulla protagonista che piange.
Poi, i dialoghi; vi sembra che i film di Kim Ki-duk, tanto per fare un nome di nicchia, ma che si è conquistato una certa fetta di pubblico, siano poveri di dialoghi? Ecco, nei film di Tsai ce ne sono meno. In questo “Goodbye Dragon Inn” ce ne sono due, fatti si e no di tre frasi, il primo dopo quasi un’ora di film, l’altro quasi alla fine. Il film dura poco più di 80 minuti, ma avrete la sensazione che sia passata almeno una mezza giornata. E’ un film che richiede un impegno inaspettato anche da chi va al cinema, a volte, anche per soffrire.
Ma è un film che ha un senso; anzi, è un omaggio al cinema inteso come luogo dove si va per sognare ad occhi aperti, un luogo che ha un fascino fuori dal tempo, che ha una storia alle spalle, un posto al quale ognuno è libero di dare una propria valenza.
Un film pesante, oppressivo e opprimente, claustrofobico, soporifero. Camera fissa per minuti e minuti su un soggetto di ¾, o anche sul niente: l’inquadratura della sala vuota, dopo la pulizia sommaria, ti uccide. L’acqua, elemento fondamentale del cinema di Tsai, affoga lo spettatore. Ogni sequenza è una pugnalata, senza un briciolo di violenza. Ma, se si è maestri, si riesce a trovare leggiadria anche negli handicap fisici: la scena finale, aiutata dalla musica, è indimenticabile.
Da amare o odiare.
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