L'ottava parte è stata pubblicata ieri
I confini del piacere
Come si spiega, quindi, questo paradosso? In genere le persone non approvano apertamente né la crudeltà né la degradazione delle donne. Eppure, mentre questi aspetti della pornografia sono più diffusi ed estremi che mai, la rappresentazione del sesso esplicito è ampiamente accettata. Come può una cultura tollerare immagini che ne violano i valori fondanti? Una società che pretende di essere civile non dovrebbe rifiutare ciò che calpesta la dignità delle donne? Le possibili spiegazioni di questo paradosso sono due. Innanzitutto, proprio per il meccanismo che la pornografia mette in moto, gli spettatori non percepiscono la crudeltà e la degradazione di quello che vedono: il piacere sessuale che il porno produce tende ad annullare il pensiero critico. Quando i consumatori sono concentrati sul piacere, la dimensione politica esce dallo schermo. Molte persone che guardano video hard mi hanno detto che non ritengono la pornografia di oggi degradante per la donna. Probabilmente erano sinceri: forse erano troppo concentrati sul proprio piacere sessuale per pensare a questi problemi. Ma ci sono anche spettatori perfettamente consapevoli delle brutalità che vedono nei film, e che in fondo le approvano. La maggior parte delle pubblicità per i film gonzo tende proprio a evidenziare la subordinazione della donna (una casa di produzione si vanta addirittura di “degradare delle puttane per il vostro piacere sessuale”). La seconda spiegazione è un doloroso richiamo al fatto che gli Stati Uniti sono un paese che tollera crudeltà e brutalità. In fondo, l’opinione pubblica non si è indignata per le rivelazioni sulla tortura sistematica praticata dai militari statunitensi in Iraq nel carcere di Abu Ghraib. Un noto commentatore di destra ha paragonato quelle violenze ai rituali di ammissione alle associazioni universitarie, constatazione che non è del tutto sbagliata: anche quelle prove sono di solito crudeli, pur se in modo molto più leggero. Gli Stati Uniti sono abituati a usare la forza in modo indiscriminato per bombardamenti illegali di infrastrutture civili (come nella guerra del Golfo del 1991, quando furono attaccati impianti elettrici, fognari e idrici) e non si fanno problemi a ricorrere ad armi che uccidono soprattutto i civili, come le bombe a grappolo. Queste azioni sono poi giustificate come aspetti della nostra missione liberatrice. Negli Stati Uniti ci sono più di due milioni di detenuti, una percentuale della popolazione più alta che in ogni altro paese. La maggior parte di loro non ha la pelle bianca. Le condizioni in cui queste persone sono costrette a vivere nel nostro sistema carcerario sono talmente dure e degradanti che le prigioni americane sono spesso al centro delle critiche di associazioni per la tutela dei diritti umani. Eppure anche queste brutalità sono considerate come una prova della superiorità del rigorosissimo sistema giudiziario statunitense. Nel nostro paese ci sono migliaia e migliaia di scintillanti templi dedicati alla religione del consumo, mentre quasi la metà della popolazione mondiale vive con meno di due dollari al giorno. Ma per la cultura americana questi luoghi sono i frutti meravigliosi del mercato. In fondo, quindi, nella comune accettazione della pornografia più degradante non c’è nessun paradosso. I pornografi non sono dei disadattati. Le loro abitudini non sorprendono più nessuno perché rappresentano valori comunemente accettati: cioè la logica del
dominio e della subordinazione che è intrinseca al patriarcato, al nazionalismo, al razzismo e al capitalismo. Quello che la pornografia ci racconta della sessualità, dell’intimità e della politica di genere negli Stati Uniti di oggi è spaventoso. Ma è ancora più inquietante il modo in cui rappresenta la nostra società.
Robert Jensen è professore di giornalismo all’università del Texas, a Austin.
Alla pornografia ha dedicato un libro, Getting off: pornography and the end of masculinity (South End press 2007).
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Nella foto Mika Tan, attrice porno statunitense
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