No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20081228

a proposito di morte 1

Da D la Repubblica delle donne, nr. 622, un interessantissimo reportage sui centri che assistono i malati terminali, gli hospice, che si trasforma in una riflessione sulla morte e su come chi rimane affronta il distacco. Da leggere fino in fondo, la pubblicheremo "spalmata" da qui al 6 gennaio 2009.


Ultimo tabù

Negli hospice, le strutture che accolgono i malati terminali, ci si prepara, con umanità, coraggio (e la giusta dose di morfina), ad affrontare la morte. Noi ci siamo entrati

di Mara Accettura

Potrei iniziare dal Nespolo, vicino a Lecco, che con le camere dedicate a fiori diversi (il lilium, la passiflora, la camelia...) sembra un residence da vacanza in montagna. O dal signore che ho visto arrivare con l'abito buono marrone, che, l'espressione disorientata e la valigetta ancora da disfare, cercava di capire come funziona la tv nella sua stanza a Santa Maria delle Grazie, Monza, o dalle lezioni di arte terapia che i volontari con un piccolo talento per la pittura tengono a Casa Vidas, Milano, due volte a settimana. La verità è che è difficile cominciare, perché entrare per la prima volta in un hospice e guardare negli occhi persone che tra un mese non ci saranno più, curiosare nelle loro stanze e annusare i loro menu, incontrarne i parenti e chiacchierare con chi le cura 24 ore su 24, scorrere il libro dei ringraziamenti ("X se n'è andato stamattina. Da oggi potrà camminare, anzi VOLARE senza gli impicci di un corpo martoriato...") è un'esperienza che mette a nudo e che in alcuni momenti toglie il respiro. In Italia ci sono 250mila malati terminali ogni anno e 150 hospice, molti realizzati grazie alla legge del '99 firmata da Rosy Bindi. L'hospice dovrebbe completare l'assistenza domiciliare e offrire un sollievo ai parenti e ai pazienti che non hanno le condizioni economiche, sociali, per rimanere sempre a casa. La maggior parte sono distribuiti nel Centro e Nord Italia con differenze enormi: 50 in Lombardia contro 4 in Sicilia. "Nel Sud c'era il deserto fino a soli tre anni fa. Oggi, grazie alla legge Bindi, la rete muove i primi passi", dice Antonio Conversano, che a dicembre inaugura un'Unità operativa di cure palliative a Monopoli. I numeri dicono già qualcosa. Ma cosa succede in questi posti dove nessuno ha voglia di aprire le porte? Cammina come un soldato e parla a raffica Daniela Cattaneo, direttrice sanitaria di Casa Vidas. "Venti pazienti qui, altri 20 in day care e 170 li seguiamo a domicilio", sussurra mentre ci accompagna in visita guidata su e giù per la struttura. Non ci sono barelle, non ci sono carrelloni per i pasti: Casa Vidas, spiega, nata nel 2006 soprattutto grazie alle donazioni, è stata concepita per proteggere i malati dall'esperienza traumatica e spersonalizzante degli ospedali. D'accordo, è tutto ordinato, superigienizzato, silenzioso, le camere occupate chiuse, il personale gentilissimo. Ma fa parte dell'atmosfera di una casa affacciarsi dalla terrazza e trovare una parata di pubblicità di pompe funebri? "È un vero scandalo. E il Comune prende i soldi dell'affissione...", dice Cattaneo. La pietas, certo, non è una prerogativa del marketing, che si accaparra clienti in qualsiasi situazione. Quanto tempo si rimane in un hospice? "La media qui è 12 giorni", risponde Cattaneo. Nelle altre strutture che visiteremo si aggira sulle due settimane. Questo significa che per molti non c'è nemmeno il tempo di mettere qualche foto sul comodino, stabilire una relazione di confidenza con lo staff e i preziosissimi volontari, centrare una terapia del dolore e probabilmente rendersi conto di quello che sta succedendo. "Arrivano troppo tardi dagli ospedali", ribatte Cattaneo. "I miei colleghi non prendono la decisione di dire al malato che non c'è più nulla da fare". La ritrosia nel comunicare una prognosi infausta è un comprensibile tabù. "Abbiamo perso il senso del ritmo della vita. Da una parte abbiamo una incredibile paura della morte, dall'altra coltiviamo il fantasma di una medicina onnipotente", specifica don Sergio Didonè, direttore sanitario di Santa Maria delle Grazie. "Noi diciamo: preparate il malato, ma per i parenti è come mettere un bollo di aspirante cadavere sul parente. Così la maggior parte crede di venire a fare riabilitazione. I consapevoli sono rari". È anche per questo che non possiamo avvicinarci troppo ai pazienti che abbiamo incontrato.

continua il 31 dicembre 2008

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