No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20081202

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Un'altra vecchia recensione live.
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The White Stripes + The Greenhornes, 21/10/2005, Bologna, PalaDozza

Piovoso fine settimana d’ottobre sulle strade, mentre in centro a Bologna si sta che è una bellezza. Pubblico giovane ma omogeneo, quasi tutto sul nu-rock’n’roll style; ci sono delle eccezioni però, e non solo in avanti con l’età. Tenete conto che l’immagine da cartone animato del duo di Detroit piace molto ai bambini.

Dopo la prova così così di due anni fa al Flippaut, pensavo fosse preferibile vederli all’opera in un piccolo club. L’enormità di quel palco (Flippaut, Arena Parco Nord, sempre a Bologna) disperdeva l’energia che invece deborda dai loro dischi in studio. Sono dubbioso sul PalaDozza, anche se meglio questo che un palasport enorme da oltre 10mila posti.

Affluenza lenta del pubblico, mentre alle 21 cominciano i Greenhornes, che sembrano una cover band degli anni ‘70 ibernata e scongelata due-tre giorni fa. Si fa a gara a trovare le similitudini: Doors, Creedence Clearwater Revival, Rolling Stones, eccetera eccetera. Come dice giustamente l'amico Antonio, se li chiamate per una festa fate un figurone.

Suonano mezz’ora, costretti su uno spicchio ridottissimo di palco. Che cosa buffa! E pensare che “quelli dopo” sono solo in due. Ma sono molto cool, al contrario dei Greenhornes.

Alle 22 arrivano Meg e Jack White. Palco kitsch ma niente male, ovviamente bianco e rosso, timpani da orchestra, batteria messa di lato, piano, organo e tastiere; palme finte bianche, palme dipinte sui fondali, luci che esaltano il contrasto bi-cromatico. Blue Orchid affoga nel solito marasma del mixaggio del pezzo di apertura concerto, ma imprime subito una svolta decisa alla serata. “Sono Jack White, e ho il fuoco dentro” dice in italiano. Alla fine, avrà ragione lui, usciremo tutti convinti di ciò.

Soffermiamoci sulle frivolezze che però determinano l’essere White Stripes.
Jack è vestito da Zorro. Siete uomini e vi piacciono le donne? Bene, andate su google e digitate “Renée Zellweger”, Immagini. Prendete una foto di lei in forma fisica snella, vestita da sera tipo la notte degli Oscar. Immaginatevela che fa sesso con Jack, versione di stasera, piuttosto sovrappeso, vestito come un tamarro di dimensioni epocali. Se non riuscite a controllare la rabbia, pensate a Cristiano Malgioglio.

Tutto questo per dire dei difetti, sorvolabilissimi. Per il resto, Jack White è un fenomeno. Polistrumentista micidiale, sembra cresciuto a flebo riempite di vinili dei Led Zeppelin e di Dolly Parton fusi, spruzzati da antologie rock varie. Animale da palcoscenico, anche se non si muove troppo (non potrebbe neanche volendolo), catalizza l”attenzione e ti fa dimenticare che lì sopra sono solo in due.

L’immensa classe di Jack fa pari con la totale incapacità di Meg, che lui continua a spacciare per sua sorella. Non solo non sa suonare la batteria, ma non riesce neppure a mantenere un 4/4 decente, con lo stesso tempo. Durante Red Rain riesce a sbagliare perfino a suonare un apposito kit di campanelli di bicicletta. Ma, pensandoci bene, anche lei ha il suo perché, nei White Stripes. Fa colore, fa figo, e, nonostante non sia una bellezza, ha un modo di muoversi, specialmente mentre suona (suona…oddio..), che è decisamente sexy. A parte Cold, Cold Night, in Passive Manipulation rischia e si lancia in una variazione sul tema vocale, steccando clamorosamente. Continuo a non capire, ma mi adeguo. Come già ripetuto in altre sedi, Jack White con una band semplice semplice spaccherebbe. Il suo talento è tale, però, che già così basta e avanza. E il trend del duo, inutile raccontare frottole, è stato “sdoganato” dal loro successo, quindi i critici possono sì criticare, ma, alla fine, ha ragione lui.

Tornando al concerto, fuoco e fiamme. Dopo l’inizio e il rituale aggiustamento del suono, una slavina di grandi canzoni in versioni scarne ma rocciose.
Un altro punto di forza dei White Stripes. My Doorbell, il pop senza essere pop. Fell in Love With A Girl, essenza blues. White Moon, la ballad che tutti vorrebbero scrivere: riuscire ad essere dolci senza mai essere mielosi. The Hardest Button To Button, dove Meg non riesce a rispettare gli stop, accelerando la versione, un po’ come in tutti gli altri pezzi, marziale, ma un po’ sottotono rispetto alla versione da studio. Jolene, forse il momento più alto del concerto, omaggio all’icona country (vedi alle flebo di vinile fuso), dove un pezzo country diventa sofferenza rock-blues delle più ruvide e scartavetrate. Grande pathos.

Un’ora, una pausa, una mezz’ora di bis. L’apoteosi di Seven Nation Army, richiesta più volte a gran voce, non citando il titolo, bensì canticchiando (tutto il palasport insieme) il contagioso e indimenticabile riff, suonata forse con la chitarra sbagliata, forse volendo darne una versione diversa, visto l'airplay e la diffusione che ha avuto il pezzo, la Zeppeliniana Instinct Blues, durante la quale se chiudi gli occhi ti sembra di avere sul palco Page-Plant che suonano un inedito, mentre Jones è svenuto e Bonzo ha un braccio e una gamba ingessati, e il miracolo di Hotel Yorba: un palazzetto intero pieno di giovani, che acclamano, battono a tempo le mani, e cantano in coro un pezzo country, seppur venato di bluegrass e rock.

Poco altro da aggiungere, se non che la bambina cinquenne davanti a noi, accompagnata dai genitori, si è persa tutto il concerto, dormendo alla grande.
Chissà che da adulta non abbia a pentirsene.

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