No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20131121

breathlessness

Le cose stanno così: affanno è la parola che mi si materializzava di fronte in questi ultimi giorni. Sono in affanno soprattutto per mantenere la media di un post al giorno, è questo che mi preoccupa maggiormente. Anche se non è vero, un po' mi scoccerebbe che quei pochi ma fedelissimi appassionati non trovassero l'ormai consueto post delle sei di mattina; cercandone la traduzione inglese, mi sono imbattuto in questo altrettanto bellissimo breathlessness che fa da titolo.
Come mai? Semplicemente, e senza farla troppo lunga che, in fondo, un po' vi interessa ma dopo un po' anche no, il lavoro. La settimana scorsa ancora nelle lande padane, una settimana ricca di amici, amiche, ma anche di quegli splendidi colleghi e colleghe di cui vi parlai la volta scorsa, fatta di cene in solitario in ristoranti a volte mai conosciuti come di sorprese, di qualche cinema, anonimi multisala ma pure cinemini di provincia in versione cineforum del giovedì con un pubblico di tutto rispetto, e di a letto presto perché in fondo è bello anche così, e i letti degli alberghi hanno quei materassi così rigidi che ci si dorme da dio.
Gli amici e le amiche hanno fatto come da parentesi a questa settimana lavorativa, terminata la quale mi sono sentito molto più sereno della volta scorsa. Poi, però, come se quella fosse la settimana di prova (che se poi ci ripenso mica è vero), si torna alla realtà e, complici alcune assenze e la voglia di capire tutto subito, il lavoro ti assorbe e ti succhia fino al midollo, che io mica sono capace di fare il distaccato.
Ci sono sere, quando attraverso il cancello che da 100 anni segna la fine del paese e l'inizio del lavoro, tornando verso casa, che mi domando se sono normale, a prenderla così di petto. E poi, con calma, quando la trovo, mi rispondo che adesso ci sono anche altre persone, alcuni pure amici, che da me si aspettano aiuto, guida, perfino incoraggiamento, da me che il complimento più largo che riesco a fare ad un collega è "sei duro" (che anche questo, se ci penso bene, mica è vero: dovreste leggere le email di ringraziamento che mi capita di scrivere ogni tanto). E realizzo, sempre un po' in ritardo, come l'impossibile di quella scritta che vidi su un muro di Rosario, Argentina anni fa, che è necessario (per me) cambiare discretamente mentalità, una di quelle cose che forse tutti noi ci ripromettiamo di non fare, da giovani. "Devi cominciare a pensare da manager" mi disse tempo fa la mia capa. C'è da rabbrividire, secondo da quale punto di vista la prendi. Eppure, non lo considero un tradimento, o cose del genere. Se per manager si intende, come faccio io, gestore di una squadra, una sorta di allenatore appunto, che indica la via e dà le direttive. E quindi come quello devo imparare ad usare bastone e carota, a diversificare i modi di parlare con i vari componenti, ad ascoltare, anche tra le righe, a dedicar loro un poco di tempo per volta, anche a farli sfogare. Una sfida tra le altre sfide.
Ecco, ora vi dico una cosa che a certuni suonerà come una sorta di giustificazione, un po' come tutta 'sta tirata, ma invece non lo è. Chi mi conosce a fondo (ci ho pensato, lo scrivo spesso, e mi viene il dubbio che magari non ci sia neppure chi mi conosce a fondo, chissà) sa che non sono una persona che aspira alla carriera, arrivista, che vuole avere qualcuno da giudicare, a cui piace dare ordini, impartire direttive. E, intendiamoci, non è che l'ultima svolta sia segno di "carriera". Certo, sicuramente è un passo avanti, un riposizionamento dell'intera struttura che di certo, mi inquadra potenzialmente più in alto di prima, nella struttura gerarchica di questa che amo definire pachidermica società multinazionale.
Alla fine, per me il lavoro è, ancora oggi, una sorta di "gioco serio", un compito giornaliero che serve ad un obiettivo, anzi a più di uno. Uno è certamente portare a casa la pagnotta a fine mese, ci mancherebbe; l'altro è la customer satisfaction, unito al problem solving. Ma, believe it or not, per me è ancora oggi, curiosità, sfida, cercare di far incastrare le cose al meglio, far di tutto perché tutti trovino anche solo un briciolo di soddisfazione, un sorriso per te stesso, che ti indica che hai fatto, appunto, il tuo lavoro, e lo hai fatto in maniera buona.
Idealista? Arrivista? Democristiano? Carrierista? Yes-man? Venduto? Capitalista? Uomo-azienda? Opportunista? Non lo so. So solo che quello che ho scritto, soprattutto nelle ultime righe, rappresenta la mia filosofia del lavoro, frutto di quello che mi ha insegnato mio padre, filtrato dalle mie esperienze personali e dalle mie personali, personalissime convinzioni.
Dove mi porterà, non ci è dato sapere. L'importante è riuscire a mantenere quella punta di curiosità che mi guida, spesso prima delle 6,00 del mattino, verso quel cancello lì.

5 commenti:

Filo ha detto...

Bellissimo post, non c'è che dire.
Sai che da quasi 7 anni ho fatto il grande passo: sono diventato imprenditore (parola che a tutt'oggi mi spaventa).
Da allora i miei pensieri sono gli stessi delle ultime tue righe.

monty ha detto...

Frega un cazzo se lavori di più,
io voglio il mio post quotidiano!
:D

Anonimo ha detto...

Occhio perché in certi casi tutte queste rispettabili considerazioni servono solo a giustificare e dare un senso a quello che è diventata la nostra vita lavorativa e, di conseguenza, anche una parte di quella sociale. In realtà vorremmo essere da tutt'altra parte a fare tutt'altre cose ma...è troppo tardi o magari non abbiamo il coraggio di cambiare. E' solo una riflessione Ale, se per te non è così ne sono felice, ne guadagnerà la sua serenità, e la mattina quando ti guardi in ghigna nello specchio ti garberai anche di più.

Mog-ur

drunkside ha detto...

Servo del potere, verrò a devastarti il cancello a suon di molotov!
In alternativa, il blog.

jumbolo ha detto...

come dico spesso, sarà la mia democristianità, ma so che c'è del vero, ed è così per me, sia in quello che dice Filo, sia in quello che dice Mog-ur.
è verissimo che preferirei essere con le infradito e i bermuda alle canarie, o in uruguay a cuocere un asado (però sempre con le infradito), e che magari un post al giorno sul blog mi desse da vivere. è una sorta di giustificativa, è vero. però ecco, magari non è stata una nostra scelta, magari è fallito e ancora non lo abbiamo accettato come società occidentale, ma siamo nel sistema capitalistico. e quindi, ci "tocca" lavorare.
magari in realtà non mi piace neppure il mio lavoro.
però il mio fondamentale ottimismo fa si che, a livello inconscio, l'abbia trasformato in questa specie di "gioco serio" che innesca questa curiosità. vivo meglio. vivo la bugia o vivo il sogno.
come che sia, la notte dormo come un bimbo, soprattutto perché son stanchissimo!