Per completare la mia sommaria citazione riguardo allo shutdown statunitense, vi faccio leggere un editoriale a cura di Andrew Sullivan (giornalista e scrittore, gay, sposato - con un uomo -, fondamentalmente conservatore e cattolico, ma con posizioni ovviamente molto "aperte", per approfondire date un'occhiata alla sua bio wikipedia inglese) scritto per Internazionale di questa settimana in proposito.
I repubblicani vogliono rovinare gli Stati Uniti
La buona notizia per il mondo è che il debito degli Stati Uniti non ha portato il paese al fallimento. Dopo l’accordo tra repubblicani e democratici sul tetto del debito, l’economia globale non è precipitata in una seconda grande depressione. La cattiva notizia, mi spiace dirlo, è che questa inutile crisi non è risolta, ma solo rinviata. I Tea party, che l’hanno provocata, continuano a non pagare per le loro malefatte. Sto esagerando? Be’, leggete cosa scrive un commentatore conservatore: “I repubblicani dell’establishment (quel branco di repubblicani solo di nome che corrono verso sinistra) hanno messo ancora una volta i piedi in testa ai contribuenti statunitensi”. Invece uno dei senatori favorevoli al default, Ted Cruz, ha dichiarato che “il popolo statunitense si è sollevato facendo sentire la sua voce (…). Ma questa battaglia non finisce qui”. Queste parole sono di un negazionismo quasi patologico. Nei giorni scorsi i consensi al Partito repubblicano sono scesi di dieci punti, fermandosi al 28 per cento, il livello più basso mai toccato dai due grandi partiti nella storia dei sondaggi Gallup. Ma per Cruz il 28 per cento è un consenso “incontenibile”. E se pensate che il peggio sia passato, sentite un po’ cosa dice quel luminare del Tea party che è Erick Erickson sui repubblicani del senato: “Volenti o nolenti, nel 2014 i parlamentari repubblicani avranno i nomi sulle schede elettorali, e non potranno sottrarsi al loro destino”. È la minaccia di epurare quei repubblicani che hanno preferito salvare l’economia mondiale invece di farsi guidare dall’ideologia. E ricordate: il 60 per cento dei repubblicani ha comunque votato per condannare il paese all’insolvenza. Dai sondaggi emerge che i sostenitori del Tea party sono frustrati per non esser riusciti a produrre la catastrofe che ci hanno fatto rischiare. Naturalmente queste voci non sono le uniche: alcuni anziani del partito si sono fatti sentire, anche se hanno parlato solo dopo la disfatta. Come Karl Rove, lo stratega di George W. Bush: “Barack Obama ha preparato la trappola e alcuni repubblicani del congresso ci sono cascati. Ora il presidente è più forte, il Partito repubblicano è più debole, e la riforma sanitaria voluta da Obama è più popolare di prima, anche se di poco”. E poi John McCain: “Non passeremo un’altra volta per uno shutdown. Ve lo garantisco. La gente è rimasta troppo traumatizzata”. Ma McCain non può garantirlo. Era il candidato repubblicano alla presidenza che nel 2008 ha scelto come vice Sarah Palin, una fanatica dei Tea party, e così li ha legittimati. Anche Paul Ryan, candidato repubblicano alla vicepresidenza nel 2012 (scelto da Mitt Romney), ha votato per il default. Insomma, se i moderati vogliono vincere, devono lavorare molto. Di strade per andare avanti ne vedo solo due. La prima: Obama rispolvera l’idea di un “grande accordo” tra i due partiti sul bilancio. Un compromesso così richiederebbe che i democratici accettassero tagli alla spesa per il welfare e i repubblicani nuove tasse. Se alcuni democratici sembrano possibilisti su certi tagli, i repubblicani hanno detto che non accetterebbero aumenti delle tasse da parte del governo federale (anche se le entrate fiscali sono al livello più basso degli ultimi cinquant’anni). La seconda: alle elezionidel congresso, nel 2014, gli elettori reagiscono a questo spaventoso pasticcio dando una batosta ai repubblicani. È vero che il Grand old party ha un solido vantaggio alla camera, ma se lo stallo e le crisi proseguono, pur di mettervi fine i repubblicani moderati e gli indipendenti potrebbero votare democratico. È difficile che accada, anche per come sono disegnati i collegi elettorali. Solo se l’opinione pubblica prenderà coscienza delle conseguenze del fiasco dei giorni scorsi, i repubblicani perderanno la camera e finalmente avremo un governo più coerente. Se io fossi un repubblicano sano di mente, mi andrebbe benone: la destra del partito usa toni da guerra civile e i moderati sono già in minoranza. C’è il timore di possibili gesti folli da parte della componente più radicale della base. L’unico modo per far fallire le tendenze estremistiche è infliggere ai repubblicani una nuova sconfitta elettorale. E poi, qual è il programma dei repubblicani? L’odio della destra verso il governo è tale che non gliene importa niente di governare davvero: le basta tagliare la spesa per i poveri e il ceto medio, per gli anziani e i malati.
E allora: i repubblicani odiano l’Obamacare. Ma hanno qualche alternativa? No. In politica estera sono divisi tra neoconservatori e isolazionisti. E sull’immigrazione vorrebbero che milioni di persone che vivono negli Stati Uniti da anni si “autodeportassero” insieme ai figli che sono nati nel paese. Fanno molta retorica e molti ascolti, ma sono lontani anni luce dalla realtà. Insomma, l’unica cosa che potrebbe aiutare i repubblicani a mettere un freno ai loro estremisti, tornando a essere un partito di governo responsabile, è una batosta elettorale. Basterebbe che una buona fetta di repubblicani centristi decidessero che amano il loro paese più di quanto odiano il presidente Obama. Ma devono ancora dimostrarlo.
Di Andrew Sullivan da Internazionale nr. 1023
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