No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20060508
cosa resta del grunge
Pearl Jam – Pearl Jam 2006
Inutile mentire: probabilmente questa recensione sarà falsata dal tempo. Era il tardo 1991, e già si parlava dei Pearl Jam, quando il folgorante debutto “Ten” cominciò una heavy rotation dentro il cassettino del lettore cd, quando il semplicissimo ma efficacissimo videoclip di Alive, una canzone impossibile da dimenticare, catturò per sempre il cuore di chi vi scrive. E’ anche vero che l’imprinting personale è sempre difficile da superare: ogni nuovo passo sembra un gradino sotto quello che ti colpisce all’inizio, il primo disco. E poi c’è l’alone di leggenda che circonda chi è sopravvissuto. Negare, anche qui, è impossibile: chi si è ritrovato dentro a una moda senza volerlo, perché già portava jeans strappati e camicie di flanella, non può rimanere imparziale di fronte a chi, appunto, ha navigato nel mare della musica, rimanendo a galla dopo il naufragio del grunge. Una parola che, a distanza di quasi 20 anni si può tranquillamente dire, significava tutto e niente: nessuna delle band che si mettevano dentro quel vibrante calderone somigliava all’altra. Questa era la peculiarità che ha per sempre contraddistinto quel movimento.
Nonostante ciò, chi è disincantato, non poteva non avere sospetti, almeno sulla possibilità di un naturale inaridimento della vena creativa, della capacità di songwriting, della voglia di dire ancora qualcosa nel panorama musicale.
Invece, dal punto di vista idealista, le battaglie continuano. A partire dall’artwork dell’album, francamente bruttino, ma con un significato politico-sociale ben preciso (la Avocado Declaration contro il duopolio politico USA Democratici/Repubblicani), proseguendo con i testi del disco, forti e impegnati come non mai, metafore neanche troppo velate sui mali dell’unica potenza mondiale, e di conseguenza del mondo intero. E questo è un punto a loro favore, nonostante i PJ abbiano ormai fans anche schierati in maniera politicamente diversa da loro, fans che non possono ignorare le posizioni politiche dei 5, ma che rispettano ugualmente la band. In tempi come questi, bisogna essere forti e convincenti per riuscirci.
E la musica? La musica c’è, e continua a rispecchiare le diverse anime che compongono, tormentano e arricchiscono il quintetto di Seattle. E spesso è tirata al punto giusto, come non ci si aspettava e come non si sentiva da tempo. Il terzetto d’apertura Life Wasted, World Wide Suicide e Comatose va suonato ad alto volume, è rock sporco che fa muovere la testa, si apre melodicamente quando ci vuole, ci ricorda i Pearl Jam e subito dopo si mette a fuoco che sono proprio loro e che si, sono sempre in pista e non stanno ancora facendo completamente il verso a loro stessi. Si apprezza d’impatto il suono volutamente datato, le distorsioni che affascinarono un pubblico ben più vasto di quello che sarebbe stato lecito aspettarsi tre lustri fa, ci si complimenta con i vecchietti per l’effetto grattugia delle chitarre. Nessun compromesso da classifica: ascoltare l’assolo di Comatose. Scale metal. Non si va al Festivalbar con questi pezzi.
Severed Hand rallenta, ma di poco, ed è un classico pezzo PJ, Marker in the Sand anche, ma nel ritornello la voce di Eddie canta e dà i brividi, mentre sugli stacchi Matt alla batteria, essenziale come non mai, ci ricorda di che pasta è fatto. Le tastiere sul finale danno al tutto un aria vissuta, come l’effetto invecchiato ai filmati.
C’è anche lo spazio per un capolavoro. E’ Parachutes, una ballata zoppicante e asimmetrica su un arpeggio classico, delicata ma coraggiosamente sperimentale, mai scontata nonostante la sua beatlesianità conclamata. Una finestra su come sarebbero i PJ se solo osassero di più. E quando, al minuto 3, Eddie sale cantando “and waaaar..” , sfido chiunque a rimanere ad occhi scoperti e asciutti.
Come per la legge del contrappasso, i pezzi che seguono non sono l’apice del disco. Unemployable ha una strofa piuttosto dimenticabile, nonostante sia un pezzo complesso, ma dà una certa gioia nel ritornello e nei magistrali colpi di piatto sulla “campana” di Matt, Big Wave è vivace e non sfigurerebbe accanto ai tre pezzi iniziali, Ament gigioneggia col basso nella parte centrale e ci ricorda che ne sa, Gone crea una certa atmosfera ma somiglia un po’ troppo a diversi pezzi vecchi, fortunatamente impreziosita da un bel testo e da un’ottima prova di Eddie, Wasted (Reprise) riprende, appunto, Life Wasted con un bel tappeto di tastiere, e fa tirare il fiato prima dei tre pezzi di chiusura.
Army Reserve sciorina un tessuto chitarristico invidiabile e soddisfacente, e introduce Come Back. Indubbiamente bella, ha forse il difetto, e dico forse, di essere in pratica la versione riveduta, corretta, controllata e simmetrica, del loro pezzo cult Yellow Ledbetter, ma il crescendo finale, che parte dall’assolo, giustamente infinito, caldo, intimo, uno di quelli che riempiono di note lunghe qualsiasi palazzetto, arena, stadio, la rivela come la canzone perfetta per chiudere i concerti. Si chiude con Inside Job, e sarebbe inutile sottolineare che suona come i Pearl Jam che rifanno Nutshell degli Alice In Chains, perché sarebbe cercare davvero il pelo nell’uovo.
Un disco non perfetto, per carità, ma che ci riconsegna i PJ in buona salute, capaci di proseguire ancora sulla loro strada di sempre: continuare a suonare IL rock, quello che elettrifica il blues, che è passato attraverso il punk, che ha sempre qualcosa da dire a chi comanda. Al tempo stesso, nelle canzoni dei PJ, oltre a ritrovare loro stessi, si ritrovano quelli che hanno suonato rock prima di loro, rendendo questo genere sensibile e al tempo stesso ruvido, sicuramente sempreverde.
Finché ci sarà chi canta cose come “high above I’ll break the law, if it’s illegal to be in love, leave the hatred on the cross” , sapremo che c’è ancora un domani.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
13 commenti:
e così sia.
bella, petto indice!
ti trovo in gran forma. ti scrissi in occasione del terzo ascolto, entusiasta. ora mi sono distratto.
capisco quel senso di non avvenimento, teniamoceli così.
Marker in the sand è bellissima però, cazzarola.
e picchiano, cazzo se picchiano!!!
è il ruggito.
(da stesera la meno col ruggito).
grande Ale, come sempre.
conto i giorni.
Mau
come sempre metti il cuore
tra chiamiamola la professionalita' nelle recensioni
ed e' il lato che ci fa' entrare nel sogno che tu provi ma che ognuno a modo suo ha provato
ho rivissuto la mia "conoscenza" iniziale coi pearl jam e come ero dentro quel gruppo quel periodo
per il resto secondo me una recensione troppo pro pearl jam
il disco mi e' piaciuto ma nn cosi' tanto. naturalmente e' una mia opinione.
Bravo Ale.
Già ti ho detto che anch'io come Fabbio preferisco le recensioni di stampo personale, rispetto a quelle più giornalistically correct.
Belle rece.
i Pearl Jam fanno cagare
Sanno cagare
splendida, grande ale.
ci ritroveremo tutti insieme a piangere.
vit
tutta questa vostra sensibilità mi disgusta.
Mau
prova da registrato
severed hand ha il ritornello che è mind riot dei soundgarden
Grande Ale...Una recensione così la può scrivere solo chi ha "la musica dentro"
Non male la recensione ma l'accostamento Nuthell/Inside job è davvero azzardato!
prova ad ascoltarle di seguito
Posta un commento