Dreamgirls – di Bill Condon 2007
Giudizio sintetico: si può perdere
Nella Detroit degli anni ’60, tre ragazze nere inseguono il sogno di diventare famose cantando. Durante un’esibizione per nuovi talenti, The Dreamettes, così si chiama il trio formato da Effie, Deena e Lorrell, cantando come al solito un pezzo scritto per loro da C.C., il fratello di Effie, vengono notate da Curtis, un venditore di auto molto ambizioso, convinto di poter diventare un manager di successo, sicuro di avere le chiavi per ribaltare, almeno nella musica, il dominio dei bianchi. Curtis convince immediatamente James “Thunder” Early, un talento r’n’b locale, ad assumerle come coriste per il suo imminente tour. Un passo alla volta, travolgendo qualsiasi ostacolo si frapponga sulla sua strada, usando qualsiasi mezzo, plasmando gli artisti a suo piacimento, inventando generi, scalando le classifiche, Curtis lascia il segno. In ogni senso.
Strano personaggio, filmografia particolare, quella di Condon, autore di piccole gemme quali Demoni e Dei e Kinsey, sceneggiatore del pluripremiato Chicago, qui alle prese con la trasposizione cinematografica del musical scritto da Tom Eyen, che si rifà alla storia delle Supremes di Diana Ross, e punta ad arraffare Oscar su Oscar, forte anche della consapevolezza che il genere musical ne prende sempre, solitamente.
Rutilante, colorato, chiassoso e, almeno in partenza, iper coinvolgente a livello musicale (sfido chiunque a non battere il piedino), coadiuvato da un cast all black d’eccezione (Glover, Foxx, Knowles, Hudson, Murphy, e potremmo continuare), decolla benissimo e poi si arena senza pietà annoiando lo spettatore, anche il più disponibile. Costellato di buone intenzioni, infarcisce la storia di troppi richiami (M.L.King, la rivolta di Detroit, l’emancipazione nera, il sogno americano, la storia della musica nera), ma soprattutto di molti stereotipi (la lotta fratricida tra neri, il maschio sciovinista e padre-padrone, le donne o troppo deboli o troppo forti, ascesa caduta e risalita, il cattivo che soccombe, e chi più ne ha più ne metta), e il film naufraga fragorosamente così come fragorosamente era iniziato.
Tutti decantano già le lodi dell’esordiente Jennifer Hudson (e già ci fracassano le palle con la storia dell’esclusione da American Idol), che magari vincerà un Oscar (non protagonista, al quale è candidata), ma a parte la gran voce ci è sembrata sopra le righe, Beyoncé nella prima parte è irriconoscibile, poi alla distanza viene fuori ed è bellissima, Jamie Foxx risulta stupefacente da quanto è bello perfino con una pettinatura che farebbe sembrare una merda chiunque altro, e fornisce un’altra prestazione sopraffina, Eddie Murphy (anche lui candidato agli Oscar come non protagonista) è eccezionale. Costumi superlativi. Regia modesta.
Giudizio sintetico: si può perdere
Nella Detroit degli anni ’60, tre ragazze nere inseguono il sogno di diventare famose cantando. Durante un’esibizione per nuovi talenti, The Dreamettes, così si chiama il trio formato da Effie, Deena e Lorrell, cantando come al solito un pezzo scritto per loro da C.C., il fratello di Effie, vengono notate da Curtis, un venditore di auto molto ambizioso, convinto di poter diventare un manager di successo, sicuro di avere le chiavi per ribaltare, almeno nella musica, il dominio dei bianchi. Curtis convince immediatamente James “Thunder” Early, un talento r’n’b locale, ad assumerle come coriste per il suo imminente tour. Un passo alla volta, travolgendo qualsiasi ostacolo si frapponga sulla sua strada, usando qualsiasi mezzo, plasmando gli artisti a suo piacimento, inventando generi, scalando le classifiche, Curtis lascia il segno. In ogni senso.
Strano personaggio, filmografia particolare, quella di Condon, autore di piccole gemme quali Demoni e Dei e Kinsey, sceneggiatore del pluripremiato Chicago, qui alle prese con la trasposizione cinematografica del musical scritto da Tom Eyen, che si rifà alla storia delle Supremes di Diana Ross, e punta ad arraffare Oscar su Oscar, forte anche della consapevolezza che il genere musical ne prende sempre, solitamente.
Rutilante, colorato, chiassoso e, almeno in partenza, iper coinvolgente a livello musicale (sfido chiunque a non battere il piedino), coadiuvato da un cast all black d’eccezione (Glover, Foxx, Knowles, Hudson, Murphy, e potremmo continuare), decolla benissimo e poi si arena senza pietà annoiando lo spettatore, anche il più disponibile. Costellato di buone intenzioni, infarcisce la storia di troppi richiami (M.L.King, la rivolta di Detroit, l’emancipazione nera, il sogno americano, la storia della musica nera), ma soprattutto di molti stereotipi (la lotta fratricida tra neri, il maschio sciovinista e padre-padrone, le donne o troppo deboli o troppo forti, ascesa caduta e risalita, il cattivo che soccombe, e chi più ne ha più ne metta), e il film naufraga fragorosamente così come fragorosamente era iniziato.
Tutti decantano già le lodi dell’esordiente Jennifer Hudson (e già ci fracassano le palle con la storia dell’esclusione da American Idol), che magari vincerà un Oscar (non protagonista, al quale è candidata), ma a parte la gran voce ci è sembrata sopra le righe, Beyoncé nella prima parte è irriconoscibile, poi alla distanza viene fuori ed è bellissima, Jamie Foxx risulta stupefacente da quanto è bello perfino con una pettinatura che farebbe sembrare una merda chiunque altro, e fornisce un’altra prestazione sopraffina, Eddie Murphy (anche lui candidato agli Oscar come non protagonista) è eccezionale. Costumi superlativi. Regia modesta.
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