INLAND EMPIRE – di David Lynch 2007
Giudizio sintetico: solo per fans di Lynch. Per tutti gli altri: alla larga.
Due storie. O molte di più. In Polonia, dei tipi loschi stanno inventando qualcosa. A Los Angeles, Nikki, un’attrice piuttosto famosa, che ha sposato un uomo di origine polacca gelosissimo e ricchissimo, sta aspettando una telefonata dal suo agente: è in lizza per la parte da protagonista nel nuovo film del famoso regista Kingsley Stewart. Riceve la visita di una nuova vicina, un’anziana signora molto stralunata, che inizia a parlare apparentemente senza senso, ma le predice che verrà sicuramente scritturata: così accade. O, forse, Nikki lo vede accadere. Il protagonista, insieme a Nikki, sarà il giovane idolo Devon Berk, sciupafemmine incallito. Non appena sul set, gli avvenimenti iniziano a succedersi turbinosamente.
Molte, le cose da dire. Difficile schematizzare, in casi come questi. David Lynch è da sempre un regista estremo, un regista che divide. Ho però sempre avuto la strana convinzione che anche molti dei suoi ammiratori più fedeli, tra i quali mi inserisco, abbiano sempre avuto il sospetto che Lynch prenda tutti per il culo. Un altro terribile dubbio è quello che spesso, davanti ai suoi film, ci si sforzi a tutti i costi di trovarvi un significato, un motivo, una giustificazione. Ho spesso sostenuto, cercando di “aiutare” chi non riusciva a trovare un senso nei suoi lavori, che lo sbaglio più grosso che puoi fare è quello di cercare un senso nelle sue opere. Ho consigliato, essendone profondamente convinto, di lasciarsi attraversare dalle immagini e dalle sensazioni, di porsi davanti ai suoi film passivamente, senza sforzi, senza andare alla ricerca di un qualcosa che, probabilmente, non esiste.
Giudizio sintetico: solo per fans di Lynch. Per tutti gli altri: alla larga.
Due storie. O molte di più. In Polonia, dei tipi loschi stanno inventando qualcosa. A Los Angeles, Nikki, un’attrice piuttosto famosa, che ha sposato un uomo di origine polacca gelosissimo e ricchissimo, sta aspettando una telefonata dal suo agente: è in lizza per la parte da protagonista nel nuovo film del famoso regista Kingsley Stewart. Riceve la visita di una nuova vicina, un’anziana signora molto stralunata, che inizia a parlare apparentemente senza senso, ma le predice che verrà sicuramente scritturata: così accade. O, forse, Nikki lo vede accadere. Il protagonista, insieme a Nikki, sarà il giovane idolo Devon Berk, sciupafemmine incallito. Non appena sul set, gli avvenimenti iniziano a succedersi turbinosamente.
Molte, le cose da dire. Difficile schematizzare, in casi come questi. David Lynch è da sempre un regista estremo, un regista che divide. Ho però sempre avuto la strana convinzione che anche molti dei suoi ammiratori più fedeli, tra i quali mi inserisco, abbiano sempre avuto il sospetto che Lynch prenda tutti per il culo. Un altro terribile dubbio è quello che spesso, davanti ai suoi film, ci si sforzi a tutti i costi di trovarvi un significato, un motivo, una giustificazione. Ho spesso sostenuto, cercando di “aiutare” chi non riusciva a trovare un senso nei suoi lavori, che lo sbaglio più grosso che puoi fare è quello di cercare un senso nelle sue opere. Ho consigliato, essendone profondamente convinto, di lasciarsi attraversare dalle immagini e dalle sensazioni, di porsi davanti ai suoi film passivamente, senza sforzi, senza andare alla ricerca di un qualcosa che, probabilmente, non esiste.
Ho tentato anche questa volta di “assorbire” così questo INLAND EMPIRE (pare che si debba scrivere maiuscolo, del resto, vezzo più vezzo meno): questa volta non ce l’ho fatta. Ho resistito stoicamente fino all’ultimo fotogramma, per gli interi 172 minuti, sono riuscito ad apprezzare alcune cose di questo lavoro, ma non sono riuscito ad esaltarmi come mi era accaduto spesso in passato (ragione per cui mi ritengo, o forse mi ritenevo, un suo ammiratore piuttosto fedele). Questa volta mi ha assalito netta la sensazione di una certa supponenza, da parte di Lynch; una sorta di complesso di Re Mida. Esacerbando lo sdoppiamento di personalità, filo conduttore degli ultimi due film, Strade perdute e Mulholland Drive, Lynch questa volta lo eleva all’ennesima potenza, in un gioco di scatole cinesi, e proietta la protagonista, una davvero straordinaria Laura Dern (chiedo venia: non la credevo in grado di una prestazione così alta), in una storia-non-storia dove ella incarna due, tre, cento persone nella stessa persona, sdoppiandosi, triplicandosi, sovrapponendosi, morendo, resuscitando, amando, subendo, impaurendosi e non capendo affatto quello che succede. Gli attori sono senza dubbio la parte più positiva di questo film, insieme al turbinio tecnico del regista, che sciorina un repertorio che si, gli conoscevamo, ma che questa volta tocca vette sublimi. I viraggi, le luci ma soprattutto il buio e le ombre, le dilatazioni, i posizionamenti della macchina, i primi piani. Lynch questa volta arriva a violentare i suoi attori, in particolar modo la Dern, che subisce impetosamente, appunto, una sequenza quasi insopportabile di primi piani, reagendo superbamente a tutti quanti (la scena finale, dove forse per la prima volta esprime vera gioia, è esplicativa in un paio di inquadrature: la fine di un supplizio); ma anche Theroux, già visto in Mulholland Drive, se la cava alla grande, candidandosi per altri film di alto livello. Tutti quanti gli altri comprimari sono degni, forse un po’ meno Irons, ormai da molto tempo alla frutta.
E’ però la storia, complice una sceneggiatura probabilmente inesistente, che rende questo lavoro simile alla fatica di spingere un masso enorme in salita su una strada con l’asfalto ruvido. Lynch come al solito dissemina le scene di indizi (falsi?), rimandi, dialoghi insensati, passa da un piano all’altro senza alcuna soluzione di continuità, inserisce metacinema (il film per il quale viene scritturata Nikki), una soap opera recitata da creature dal corpo umano ma dalla testa enorme e dalle fattezze a metà tra un coniglio e un asino (con tanto di battute insulse, dialoghi apparentemente insensati – ma che in parte sembrano servire a dipanare l’intreccio – e risate registrate), e una storia parallela (quella polacca, almeno così pare); o forse altre storie parallele. Sembra che giochi sempre più a confondere lo spettatore, e ci riesce in pieno. Riesce come sempre benissimo ad instillare una profonda sensazione di angoscia in chi guarda, ma i più smaliziati avranno la sensazione che si stia raschiando il fondo, che oltre questo ci sia il nulla, oppure un pesante divertissement del regista impunito.
In definitiva, questa volta non mi sento di difendere l’amato David, sconsiglio chiunque non lo conosce o non lo apprezza fino in fondo, perché probabilmente uscirebbe ben prima della fine, invito i supporters a mettersi alla prova, e gli auguro miglior fortuna rispetto a me. Per chi andrà, un aiutino, un ultimissimo indizio (ma ancora possiamo parlare di indizi? Mica siamo più a Twin Peaks!) che probabilmente non coglierete, se sarete distratti dai titoli o già dai pensieri e dalle riflessioni: uno degli ultimi fotogrammi immortalano l’uomo al piano: è Ben Harper, famoso musicista, compagno di Laura Dern. Spulciate bene tra le biografie e non vi fate trarre in inganno: non è nato precisamente né a Pomona, né a Clearmont. Indagate. Sono convinto che, anche se la Dern è anche produttrice, Lynch non ha fatto un favoritismo, ma l’ha fatto apposta. Oddio, mi sono ammalato ancora di Lynchite!!
2 commenti:
io ho visto il film venerdì e ancora non l'ho assorbito del tutto.ogni commento per film come questo è superfluo,ognuno esce dal cinema con sensazioni diverse e contrastanti.qui si va davvero oltre...cmq regia ineccepibile:bellissima la scena a rallentatore della Dern spaventata a morte che corre al buio verso la cinepresa,illuminata da un unico faro. ma si sa, i fan di lynch amano i cliché di lynch più del cinema stesso a volte...
Perche non:)
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