One Breath - Anna Calvi (2013)
A distanza di oltre tre mesi, e con ascolti infiniti, giuro, non sono ancora riuscito ad "entrare" nel difficile secondo disco della trentatreenne inglese di chiare origini italiane, della quale qui su fassbinder abbiamo parlato più volte, in occasione del suo debutto, che ci piacque molto, e poi anche in occasione di un live, quindi spero in maniera esauriente. Il problema della chiave di lettura, dell'epifania che ti svela il senso e che ti apre le porte della percezione, può naturalmente essere letto in modi diametralmente opposti: o il disco fa cagare, oppure è particolarmente complicato.
Visto che, ad una attenta riflessione, la prima ipotesi non può essere sostenuta, propenderei decisamente per la seconda, seppure ci faccia la figura del buono a nulla. Anziché dargli una striminzita sufficienza indorando però la pillola con un foglio A4 come fa Katherine St. Asaph su Pitchfork (e anche lei ci ha messo un mese e mezzo, forse di più visto che normalmente alle riviste il disco arriva prima, posso considerare un mal comune, mezzo gaudio), preferisco ammettere la mia impotenza di fronte ad un lavoro che magari non potrà definirsi maturo, ma che seppur non impressionante quanto il debutto omonimo del 2011, è talmente stratificato, denso, ripieno di stili, strumenti ed influenze, che lascia appunto intontiti e spesso senza parole. Con un dolore di fondo che, a mio giudizio, è il vero motivo per cui viene così spesso accomunata a PJ Harvey, Anna Calvi disegna storie musicali ogni volta diverse, rendendo impossibile l'uniformità che ci si potrebbe attendere da un disco qualsiasi.
Pezzi imponenti, che inglobano in pochissimi minuti (il pezzo più lungo è Carry Me Over con 5 minuti e 27 secondi) retaggi classici (intesi come musica classica), passatisti, rock low-fi, colonne sonore e melodie tipicamente cinematografiche (siamo addirittura oltre le suggestioni morriconiane del debutto), alternative rock e grandi cantautori, addirittura echi grunge (definitemi altrimenti le chitarre di Love of My Life). Mi trovo veramente in difficoltà ad indicare un pezzo in particolare, mi butto citando l'ariosissima e quasi pomposa (non so come, ma dovreste provare ad immaginare un'accezione positiva per questo termine desueto) Sing To Me, ma ad esempio, se mi metto ad ascoltare il disco traccia per traccia, potrei cambiare immediatamente idea con quello strano oggetto che segue e che si intitola Tristan (no, non credo sia dedicata all'ex calciatore che perfino a Livorno ricordiamo con un sorriso amaro sulle labbra). Questo per dirvi la complessità di un disco da ascoltare più e più volte, difficile da comprendere ma assolutamente interessante, musicale a 360 gradi.
Marimba, synth, chitarre con sfumature sempre diverse, percussioni selvagge, archi, una voce potente e soave al tempo stesso, un'amore per la musica viscerale. Se non vi incanterà, quantomeno vi incuriosirà.
1 commento:
notevole, lo sto ascoltando anch'io in questi giorni
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