Come già successo, in casi come questi mi trovo perfettamente d'accordo con la Curva Nord livornese. Foto scattata domenica 26 maggio, poco prima dell'inizio della partita Livorno - Brescia. |
No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20130531
chicchirichì
20130530
sposi novelli
Newlyweds - di Edward Burns (2011)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Tribeca, New York. Buzzy e Katie si godono la loro vita felice, agiata, quasi spensierata. Tra i trenta e i quaranta, entrambi piacenti, entrambi in seconde nozze dopo un fallimento ciascuno, entrambi d'accordo sul fatto di non avere bambini, lui lavora come personal trainer di giorno, lei gestisce un ristorante la sera, ognuno ha i suoi spazi, si amano e si rispettano, si dicono la verità, si riuniscono la notte per dormire insieme, fare l'amore, e la mattina amano fare colazione insieme in uno dei tanti deliziosi locali newyorkesi così cool. Due lavori ben pagati, un'appartamento alla moda senza sfarzi ma elegantissimo: due persone felici, appagate, che si completano e si godono la vita matrimoniale. Oggigiorno, quasi un paradosso. Ogni tanto si trovano per pranzare con la sorella più grande di Katie, Marsha, e col marito Max. I due gestiscono uno studio di registrazione, lei è una finta puritana, spesso infastidita dalla disinvoltura con cui Buzzy parla della sua intesa sessuale con Katie, i due non si piacciono ma si sopportano per amore, appunto, di Katie. Buzzy cerca sempre di non scontrarsi con Marsha, così come sopporta fin troppo l'ex marito di Katie, Dara, che ogni tanto si presenta a casa loro in cerca di un prestito.
Max, ex musicista fallito, sinceramente esteticamente fortunato ad avere una moglie come Marsha, comincia, dopo 18 anni di matrimonio, ad averne piene le palle di lei, sempre un po' stronza, sempre scontenta, sempre all'attacco su tante stronzate. Si allena, o meglio, finge di allenarsi per cercare di mantenersi una forma che non ha, con Buzzy, e lo infastidisce con i suoi propositi di divorzio. Il vaso trabocca un giorno, quando Marsha coglie in fragrante Max che flirta con una giovanissima e sexy musicista che sta registrando nel loro studio. Nel frattempo, così dal nulla, la sorellastra di Buzzy, Linda, si presenta alla porta dell'appartamento mentre lui è a lavoro e in casa c'è una sorpresissima Katie. Linda, che vive a Los Angeles, inventa delle scuse, ma in realtà è a New York per tentare di recuperare un ex fidanzato, Miles, che mesi prima le ha proposto di sposarlo, ma lei ha rifiutato. Quando scopre che Miles sta per sposarsi, inanella un comportamento odioso dietro l'altro, finché non riesce a far sbroccare la solitamente tranquilla Katie.
Come potrete notare effettuando una ricerca su questo blog, Edward Burns, attore e regista, è un personaggio che seguo a dispetto della sua limitata fama qui nel nostro paese. Mi è simpatico come attore, bravo ma non eccezionale, e mi piace come regista nonostante non sia certo uno da Oscar, perché sa parlare d'amore e di rapporti di coppia con sobrietà, leggerezza e perfino con una certa "eleganza rozza" e molto statunitense WASP. I suoi film, quando parlano appunto dell'argomento di cui sopra, sono onesti, girati con bassi budget (questo credo sia addirittura quello che è costato meno), recitati da cast interessanti che sembrano essere tutti suoi amici ed amiche, e con sceneggiature (sempre scritte da lui stesso) apparentemente semplici, ma piene di accadimenti e sempre molto fluide, accattivanti, appassionanti con moderazione. Qui si diverte ad alternare fiction e mockumentary, con uno stile molto grezzo ma cool, e riesce a risultare addirittura meno mieloso del solito, ma ugualmente ottimista.
Nel cast Max Baker (Max), era in Looking for Kitty, Daniella Pineda (Vanessa), ultimamente in Homeland e in The Vampire Diaries, Dara Coleman (Dara), era in Purple Violets, Johnny Solo (Miles), Caitlin FitzGerald (Katie), prossimamente in Masters of Sex, Marsha Dietlein (Marsha), era in Little Children, Kerry Bishé (Linda), vista in Argo, e naturalmente Edward Burns stesso nei panni di Buzzy. Bravo Ed.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Tribeca, New York. Buzzy e Katie si godono la loro vita felice, agiata, quasi spensierata. Tra i trenta e i quaranta, entrambi piacenti, entrambi in seconde nozze dopo un fallimento ciascuno, entrambi d'accordo sul fatto di non avere bambini, lui lavora come personal trainer di giorno, lei gestisce un ristorante la sera, ognuno ha i suoi spazi, si amano e si rispettano, si dicono la verità, si riuniscono la notte per dormire insieme, fare l'amore, e la mattina amano fare colazione insieme in uno dei tanti deliziosi locali newyorkesi così cool. Due lavori ben pagati, un'appartamento alla moda senza sfarzi ma elegantissimo: due persone felici, appagate, che si completano e si godono la vita matrimoniale. Oggigiorno, quasi un paradosso. Ogni tanto si trovano per pranzare con la sorella più grande di Katie, Marsha, e col marito Max. I due gestiscono uno studio di registrazione, lei è una finta puritana, spesso infastidita dalla disinvoltura con cui Buzzy parla della sua intesa sessuale con Katie, i due non si piacciono ma si sopportano per amore, appunto, di Katie. Buzzy cerca sempre di non scontrarsi con Marsha, così come sopporta fin troppo l'ex marito di Katie, Dara, che ogni tanto si presenta a casa loro in cerca di un prestito.
Max, ex musicista fallito, sinceramente esteticamente fortunato ad avere una moglie come Marsha, comincia, dopo 18 anni di matrimonio, ad averne piene le palle di lei, sempre un po' stronza, sempre scontenta, sempre all'attacco su tante stronzate. Si allena, o meglio, finge di allenarsi per cercare di mantenersi una forma che non ha, con Buzzy, e lo infastidisce con i suoi propositi di divorzio. Il vaso trabocca un giorno, quando Marsha coglie in fragrante Max che flirta con una giovanissima e sexy musicista che sta registrando nel loro studio. Nel frattempo, così dal nulla, la sorellastra di Buzzy, Linda, si presenta alla porta dell'appartamento mentre lui è a lavoro e in casa c'è una sorpresissima Katie. Linda, che vive a Los Angeles, inventa delle scuse, ma in realtà è a New York per tentare di recuperare un ex fidanzato, Miles, che mesi prima le ha proposto di sposarlo, ma lei ha rifiutato. Quando scopre che Miles sta per sposarsi, inanella un comportamento odioso dietro l'altro, finché non riesce a far sbroccare la solitamente tranquilla Katie.
Come potrete notare effettuando una ricerca su questo blog, Edward Burns, attore e regista, è un personaggio che seguo a dispetto della sua limitata fama qui nel nostro paese. Mi è simpatico come attore, bravo ma non eccezionale, e mi piace come regista nonostante non sia certo uno da Oscar, perché sa parlare d'amore e di rapporti di coppia con sobrietà, leggerezza e perfino con una certa "eleganza rozza" e molto statunitense WASP. I suoi film, quando parlano appunto dell'argomento di cui sopra, sono onesti, girati con bassi budget (questo credo sia addirittura quello che è costato meno), recitati da cast interessanti che sembrano essere tutti suoi amici ed amiche, e con sceneggiature (sempre scritte da lui stesso) apparentemente semplici, ma piene di accadimenti e sempre molto fluide, accattivanti, appassionanti con moderazione. Qui si diverte ad alternare fiction e mockumentary, con uno stile molto grezzo ma cool, e riesce a risultare addirittura meno mieloso del solito, ma ugualmente ottimista.
Nel cast Max Baker (Max), era in Looking for Kitty, Daniella Pineda (Vanessa), ultimamente in Homeland e in The Vampire Diaries, Dara Coleman (Dara), era in Purple Violets, Johnny Solo (Miles), Caitlin FitzGerald (Katie), prossimamente in Masters of Sex, Marsha Dietlein (Marsha), era in Little Children, Kerry Bishé (Linda), vista in Argo, e naturalmente Edward Burns stesso nei panni di Buzzy. Bravo Ed.
20130529
la fine
The Big C - Hereafter - di Darlene Hunt - Stagione 4 (4 episodi; Showtime) - 2013
Qualche mese dopo il finale della terza stagione, scopriamo che il peschereccio guidato da Angel, il portoricano che aveva "catturato" Cathy nelle sue reti mentre lei faceva immersioni e Sean si preoccupava di broccolare la subacquea figa, anziché tenere d'occhio sua sorella malata di cancro, era tutto un sogno causato dalle metastasi che, raggiunto il cervello, premevano sulla massa cerebrale. Dopo un salvataggio e un'operazione al cranio, Cathy si rende conto, insieme a tutta la famiglia, che le restano davvero pochi mesi da vivere, grazie a nuovi cicli di chemioterapia, che però la rendono fisicamente uno straccio. Seppellito Thomas, il cane che Marlene le ha lasciato alla sua morte, cominciamo a renderci conto delle dinamiche che si sono instaurate per vivere gli ultimi mesi di Cathy insieme. Paul, messa da parte la richiesta di divorzio, è ancora sotto lo stesso tetto, ma prosegue la sua attività di motivational speaker e scrivendo libri sullo stesso tono, assistito dalla giovane Amber, presenza fastidiosissima anche in casa Jamison. Adam sembra aver ritrovato un equilibrio, ma sta andando male a scuola, in particolare in chimica, e questo fa si che sua madre le affianchi Lydia, una secchiona di origini asiatiche, come tutor. Andrea è alle sue prime esperienze al college, e non sono tutte rose e fiori. Sean vive come sempre, emozionalmente sulle montagne russe, il sentiero di morte della sorella. Cathy sta vedendo, in parallelo alle cure, un'analista (della quale non conosceremo mai il nome). Saranno mesi lunghi ed intensi, che porteranno a decisioni drastiche, e ad una montagna russa di emozioni.
Forse a causa dello share in calo, un po' naturalmente perché una serie su una malata terminale di cancro non poteva durare all'infinito, come che sia Showtime ha deciso di chiudere The Big C un po' come farà HBO con Treme, ossia con una sorta di miniserie, che nonostante riprenda quasi esattamente da dove era terminata, come detto, la stagione precedente, ha perfino un sottotitolo tutto suo, e cioè Hereafter, e cioè in futuro, in avvenire, da qui in poi, ma pure aldilà. Quattro soli episodi, ma dalla durata praticamente doppia rispetto agli episodi delle stagioni precedenti, quasi un'ora l'uno, cronologicamente distanziati di alcuni mesi tra l'uno e l'altro.
Ora, come già detto spesso, e non ci posso fare niente perché è così ed è una cosa che giocoforza rimarrà impressa nella mia mente e nella mia persona, avendo vissuto un'esperienza simile con mia madre, sono sicuramente "di parte" giudicando una serie con questa tematica; ma nonostante la presenza istrionica di una, ancora una volta, straordinaria Laura Linney nel ruolo incontrastato della protagonista Cathy, meravigliosa anche quando vomita, fa la chemio e si caga (letteralmente) addosso, quando si vergogna di comprare una stampella perché ha ormai perso l'uso di una gamba, quando chiede l'eutanasia o quando manda affanculo un poliziotto che la ferma per guida (la sua ultima, evidentemente) pericolosa, The Big C, ed in particolare la sua stagione finale, è una serie (a dispetto del calo degli spettatori) bella, umana, dignitosa, che non nasconde allo spettatore niente del cancro, delle conseguenze della chemio, una serie che non ho paura a definire adulta a dispetto dei siparietti teenageriali (di Adam o di Andrea), delle follie sempre nuove di Sean, della immaturità tenera e bonaria di un (ancora una volta superlativo) Oliver Platt in grande spolvero nei panni di Paul, una serie che sta esattamente a metà tra Breaking Bad e Six Feet Under, che fa ridere e che fa piangere regalandoci pure momenti scontati ma molto molto intensi, come i fuochi d'artificio del compleanno di Adam, guarda caso proprio nella stessa location dove avevamo, nel finale della prima stagione, pianto a dirotto quando Adam aveva scoperto il garage dove la madre gli aveva preparato (appunto) un box pieno di regali "postumi", idea vista nell'altrettanto spezzacuore La mia vita senza me di Isabel Coixet, al quale la Hunt deve essersi per forza ispirata, e va bene così.*
Una serie che, a differenza, ma neppure troppo, di Six Feet Under, affronta la morte ma si ferma immediatamente prima, un passo prima, provando a raccontare come ci si può sentire accompagnando qualcuno verso l'incontro con la grande mietitrice, oppure andandovi incontro di persona. Una serie che è finita, ed è giusto così, ma che ci ha lasciato qualcosa. Senza ombra di dubbio.
*Questa frase di 15/20 (a seconda del vostro schermo) righe senza punto è dedicata a Filo, nella speranza che gli risulti leggibile. Nel caso vi fosse indigesta, non leggete mai Domani nella battaglia pensa a me.
Qualche mese dopo il finale della terza stagione, scopriamo che il peschereccio guidato da Angel, il portoricano che aveva "catturato" Cathy nelle sue reti mentre lei faceva immersioni e Sean si preoccupava di broccolare la subacquea figa, anziché tenere d'occhio sua sorella malata di cancro, era tutto un sogno causato dalle metastasi che, raggiunto il cervello, premevano sulla massa cerebrale. Dopo un salvataggio e un'operazione al cranio, Cathy si rende conto, insieme a tutta la famiglia, che le restano davvero pochi mesi da vivere, grazie a nuovi cicli di chemioterapia, che però la rendono fisicamente uno straccio. Seppellito Thomas, il cane che Marlene le ha lasciato alla sua morte, cominciamo a renderci conto delle dinamiche che si sono instaurate per vivere gli ultimi mesi di Cathy insieme. Paul, messa da parte la richiesta di divorzio, è ancora sotto lo stesso tetto, ma prosegue la sua attività di motivational speaker e scrivendo libri sullo stesso tono, assistito dalla giovane Amber, presenza fastidiosissima anche in casa Jamison. Adam sembra aver ritrovato un equilibrio, ma sta andando male a scuola, in particolare in chimica, e questo fa si che sua madre le affianchi Lydia, una secchiona di origini asiatiche, come tutor. Andrea è alle sue prime esperienze al college, e non sono tutte rose e fiori. Sean vive come sempre, emozionalmente sulle montagne russe, il sentiero di morte della sorella. Cathy sta vedendo, in parallelo alle cure, un'analista (della quale non conosceremo mai il nome). Saranno mesi lunghi ed intensi, che porteranno a decisioni drastiche, e ad una montagna russa di emozioni.
Forse a causa dello share in calo, un po' naturalmente perché una serie su una malata terminale di cancro non poteva durare all'infinito, come che sia Showtime ha deciso di chiudere The Big C un po' come farà HBO con Treme, ossia con una sorta di miniserie, che nonostante riprenda quasi esattamente da dove era terminata, come detto, la stagione precedente, ha perfino un sottotitolo tutto suo, e cioè Hereafter, e cioè in futuro, in avvenire, da qui in poi, ma pure aldilà. Quattro soli episodi, ma dalla durata praticamente doppia rispetto agli episodi delle stagioni precedenti, quasi un'ora l'uno, cronologicamente distanziati di alcuni mesi tra l'uno e l'altro.
Ora, come già detto spesso, e non ci posso fare niente perché è così ed è una cosa che giocoforza rimarrà impressa nella mia mente e nella mia persona, avendo vissuto un'esperienza simile con mia madre, sono sicuramente "di parte" giudicando una serie con questa tematica; ma nonostante la presenza istrionica di una, ancora una volta, straordinaria Laura Linney nel ruolo incontrastato della protagonista Cathy, meravigliosa anche quando vomita, fa la chemio e si caga (letteralmente) addosso, quando si vergogna di comprare una stampella perché ha ormai perso l'uso di una gamba, quando chiede l'eutanasia o quando manda affanculo un poliziotto che la ferma per guida (la sua ultima, evidentemente) pericolosa, The Big C, ed in particolare la sua stagione finale, è una serie (a dispetto del calo degli spettatori) bella, umana, dignitosa, che non nasconde allo spettatore niente del cancro, delle conseguenze della chemio, una serie che non ho paura a definire adulta a dispetto dei siparietti teenageriali (di Adam o di Andrea), delle follie sempre nuove di Sean, della immaturità tenera e bonaria di un (ancora una volta superlativo) Oliver Platt in grande spolvero nei panni di Paul, una serie che sta esattamente a metà tra Breaking Bad e Six Feet Under, che fa ridere e che fa piangere regalandoci pure momenti scontati ma molto molto intensi, come i fuochi d'artificio del compleanno di Adam, guarda caso proprio nella stessa location dove avevamo, nel finale della prima stagione, pianto a dirotto quando Adam aveva scoperto il garage dove la madre gli aveva preparato (appunto) un box pieno di regali "postumi", idea vista nell'altrettanto spezzacuore La mia vita senza me di Isabel Coixet, al quale la Hunt deve essersi per forza ispirata, e va bene così.*
Una serie che, a differenza, ma neppure troppo, di Six Feet Under, affronta la morte ma si ferma immediatamente prima, un passo prima, provando a raccontare come ci si può sentire accompagnando qualcuno verso l'incontro con la grande mietitrice, oppure andandovi incontro di persona. Una serie che è finita, ed è giusto così, ma che ci ha lasciato qualcosa. Senza ombra di dubbio.
*Questa frase di 15/20 (a seconda del vostro schermo) righe senza punto è dedicata a Filo, nella speranza che gli risulti leggibile. Nel caso vi fosse indigesta, non leggete mai Domani nella battaglia pensa a me.
20130528
He's Just Not That Into You
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Baltimora, Maryland (USA). Gigi è una ragazza giovane e piacente, che non riesce a trovare una storia seria, ed è convinta di non saper "leggere i segnali" degli uomini con cui esce. Lavora insieme a Beth, che convive con Neil da sette anni, e a Janine, sposata felicemente (almeno, così sembra) con Ben. Gigi esce con Conor, agente immobiliare, grande amico di Alex, direttore di un locale; convinta e molto presa da lui, si preoccupa perché lui non la richiama. In realtà, Conor ha avuto un'avventura con Anna, insegnante di yoga, e continua a vedersi con lei, anche se non hanno più fatto sesso.
Anna non è convinta, e quando conosce Ben capisce che è scattata la scintilla. Ma Ben è sposato, ed inizialmente rifiuta la corte di Anna, che però non si dà per vinta. Se Ben cede, è perché il matrimonio con Janine non funziona. Gigi, nel frattempo, cercando Conor si imbatte in Alex, che comincia a prenderla in simpatia, guidandola attraverso le sue uscite con gli uomini, aiutandola a "leggere i segnali". Convinta dalle chiacchiere teorizzanti di Gigi e Janine, Beth dà un ultimatum a Neil, o mi sposi o ti lascio. Neil non capisce, e la storia finisce.
Era da molto tempo che volevo vedere questo film; prima di tutto per il titolo, traduzione abbastanza azzeccata dell'originale (che come sempre, da molto tempo, potete trovare nel titolo del post), secondo per la presenza nel cast di alcune presenze femminili conosciute grazie a serie tv (quindi non mi riferisco né alla Johansson - Anna -, né alla Connelly - Janine -, né alla Barrymore - Mary - e no, neppure alla Aniston - Beth -, nonostante la sua carriera sia cominciata con Friends), e, per il momento, più viste all'opera (Ginnifer Goodwin, qui nei panni di Gigi, vista in Big Love; Busy Philipps, qui nella particina di Kelli Ann, vista in Cougar Town). Terzo motivo, questa affermazione letta in una recensione su serialmente.com ("quel film ha rovinato un numero indicibile di vite sentimentali"). Quarto, il fatto che, incredibilmente, durante questo fine settimana appena passato, mi sono ritrovato senza neppure un episodio di uno straccio di serie tv da vedere, e come potete vedere, ne seguo un numero illimitato; ho deciso quindi, visto che avevo anche esaurito (scritto) un "bagaglio" in doppia cifra di recensioni di film visti negli ultimi due anni, di ricominciare a guardare qualche film in casa, ma non volevo riprendere da qualcosa di molto impegnativo, tipo Holy Motors, e quindi mi sono orientato su questa commedia relativamente leggera, diretta nientemeno che dal regista di quel popo' di capolavoro che fu 4 amiche e un paio di jeans, e animato da un cast hollywoodiano di fama.
Beh, c'è poco da dire, così come i francesi ci fanno (a noi italiani) un culo come una manica di cappotto (tanto per, appunto, usare un francesismo) per quanto riguarda i film comici, gli statunitensi nelle commediole romantiche spaccano quasi sempre. Qui, complice il libro omonimo di Greg Behrendt e Liz Tuccillo, sceneggiato da Abby Kohn e Marc Silverstein (specializzati in commedie romantiche), Kwapis ha vita facile dando un ottimo ritmo alla pellicola, che rimane sempre in bilico tra tragico, comico e romantico, risultando gustosa e mai noiosa. Non avrei mai pensato di dirlo, ma l'intero cast, Ben Affleck - Neil - compreso, è piuttosto convincente. Dei famosi non citati prima, ci sono Bradley Cooper (Ben), Kevin Connolly (Conor) e Justin Long (Alex). Particine per Luis Guzmán (Javier) e Kris Kristofferson (Ken Murphy).
So che mi crocifiggerete, ma confermo ancora una volta: la Scarlett è, seppur fighissima, una culona (per i miei standard, molto elevati).
Baltimora, Maryland (USA). Gigi è una ragazza giovane e piacente, che non riesce a trovare una storia seria, ed è convinta di non saper "leggere i segnali" degli uomini con cui esce. Lavora insieme a Beth, che convive con Neil da sette anni, e a Janine, sposata felicemente (almeno, così sembra) con Ben. Gigi esce con Conor, agente immobiliare, grande amico di Alex, direttore di un locale; convinta e molto presa da lui, si preoccupa perché lui non la richiama. In realtà, Conor ha avuto un'avventura con Anna, insegnante di yoga, e continua a vedersi con lei, anche se non hanno più fatto sesso.
Anna non è convinta, e quando conosce Ben capisce che è scattata la scintilla. Ma Ben è sposato, ed inizialmente rifiuta la corte di Anna, che però non si dà per vinta. Se Ben cede, è perché il matrimonio con Janine non funziona. Gigi, nel frattempo, cercando Conor si imbatte in Alex, che comincia a prenderla in simpatia, guidandola attraverso le sue uscite con gli uomini, aiutandola a "leggere i segnali". Convinta dalle chiacchiere teorizzanti di Gigi e Janine, Beth dà un ultimatum a Neil, o mi sposi o ti lascio. Neil non capisce, e la storia finisce.
Era da molto tempo che volevo vedere questo film; prima di tutto per il titolo, traduzione abbastanza azzeccata dell'originale (che come sempre, da molto tempo, potete trovare nel titolo del post), secondo per la presenza nel cast di alcune presenze femminili conosciute grazie a serie tv (quindi non mi riferisco né alla Johansson - Anna -, né alla Connelly - Janine -, né alla Barrymore - Mary - e no, neppure alla Aniston - Beth -, nonostante la sua carriera sia cominciata con Friends), e, per il momento, più viste all'opera (Ginnifer Goodwin, qui nei panni di Gigi, vista in Big Love; Busy Philipps, qui nella particina di Kelli Ann, vista in Cougar Town). Terzo motivo, questa affermazione letta in una recensione su serialmente.com ("quel film ha rovinato un numero indicibile di vite sentimentali"). Quarto, il fatto che, incredibilmente, durante questo fine settimana appena passato, mi sono ritrovato senza neppure un episodio di uno straccio di serie tv da vedere, e come potete vedere, ne seguo un numero illimitato; ho deciso quindi, visto che avevo anche esaurito (scritto) un "bagaglio" in doppia cifra di recensioni di film visti negli ultimi due anni, di ricominciare a guardare qualche film in casa, ma non volevo riprendere da qualcosa di molto impegnativo, tipo Holy Motors, e quindi mi sono orientato su questa commedia relativamente leggera, diretta nientemeno che dal regista di quel popo' di capolavoro che fu 4 amiche e un paio di jeans, e animato da un cast hollywoodiano di fama.
Beh, c'è poco da dire, così come i francesi ci fanno (a noi italiani) un culo come una manica di cappotto (tanto per, appunto, usare un francesismo) per quanto riguarda i film comici, gli statunitensi nelle commediole romantiche spaccano quasi sempre. Qui, complice il libro omonimo di Greg Behrendt e Liz Tuccillo, sceneggiato da Abby Kohn e Marc Silverstein (specializzati in commedie romantiche), Kwapis ha vita facile dando un ottimo ritmo alla pellicola, che rimane sempre in bilico tra tragico, comico e romantico, risultando gustosa e mai noiosa. Non avrei mai pensato di dirlo, ma l'intero cast, Ben Affleck - Neil - compreso, è piuttosto convincente. Dei famosi non citati prima, ci sono Bradley Cooper (Ben), Kevin Connolly (Conor) e Justin Long (Alex). Particine per Luis Guzmán (Javier) e Kris Kristofferson (Ken Murphy).
So che mi crocifiggerete, ma confermo ancora una volta: la Scarlett è, seppur fighissima, una culona (per i miei standard, molto elevati).
20130527
bill hicks ...sane man
perchè chi ama la satira...lo ama.
perchè chi non lo conosce...lo conosca.
bill hicks, in un suo monologo completo.
spaccatevi dalle risate!
perchè chi non lo conosce...lo conosca.
bill hicks, in un suo monologo completo.
spaccatevi dalle risate!
doppelganger
The Vampire Diaries - di Kevin Williamson e Julie Plec - Stagione 4 (23 episodi; CW) - 2012/2013
Spoiler alert: chi non ha mai visto The Vampire Diaries ma fosse intenzionato a farlo, forse è meglio che non legga.
Elena si sveglia in casa sua, rendendosi conto che sta sentendo qualsiasi suono o rumore in tutto il vicinato. Poco a poco, si ricorda cosa è accaduto: stava morendo annegata, insieme a Matt, e Stefan, su sua richiesta, ha salvato il di lei ex ragazzo. Lei, di conseguenza, era tecnicamente morta, ma siccome poco prima era stata "curata" dalla dottoressa Meredith Fell con sangue di vampiro, si sta trasformando in un vampiro. Adesso è in transizione. I due fratelli Salvatore, che naturalmente la seguiranno nel difficile passaggio, hanno idee completamente opposte su come "abituarla" alla vita da vampiro, mentre Jeremy, il fratello di Elena, non vuole che lei completi la transizione. Mentre Elena sta vivendo per la prima volta l'esperienza dei suoi sensi, e dei suoi sentimenti, amplificati al massimo, e i tre uomini della sua vita discutono su quale sarà il suo futuro, in città si scatena la caccia al vampiro, guidata dal pastore Young.
Ogni volta che termina una stagione di The Vampire Diaries, di solito faticosamente, mi interrogo sul motivo per cui continuo a guardare la serie. Ogni volta trovo delle giustificazioni, ma non convinco neppure me stesso. Una cosa che, mi sono reso conto rileggendo i miei scritti sulle tre stagioni precedenti, non vi ho mai detto, è che il Kevin Williamson che, assieme a Julie Plec, ha sviluppato la serie partendo dai libri di L.J. Smith, è il creatore di Dawson's Creek, una serie che ha probabilmente lasciato traumatizzati anche persone già all'epoca considerate adulte, e mi sto riferendo ancora una volta a me stesso. Mi rendo conto che, con questa chiave, potrei allungare questa "critica" (perdonatemi, ma continuo a pensare di non essere accreditato per definire i miei resoconti su film, serie tv, libri e dischi recensioni) all'infinito: sono un 47enne che è ancora convinto di non aver vissuto a dovere l'adolescenza, e di avere sofferto una sostanziale carenza di quell'affetto giovanile idealizzato a causa di programmi televisivi quali, appunto, Dawson's Creek. Questo, forse, il motivo che mi spinge a sottopormi quasi masochisticamente, alla visione di una serie quale The Vampire Diaries. Perché messa da parte la (scusate) parte sovrannaturale, che in questa serie, come già detto, è debordante, la storyline principale e, pare, irrinunciabile (mentre invece molti, io compreso, si interrogano e fantasticano su come potrebbe essere TVD se, per esempio, in qualche maniera, anche molto tragica, venisse meno), è l'infinito, inarrestabile, molesto, devastante, ridondante, ammorbante, noiosissimo e straziante triangolo amoroso tra Elena, Stefan e Damon. Senza contare che le storie d'amore teenageriali, intendo quelle che esistono/sopravvivono oltre a questa del triangolo magico/mistico/sadico/triturapalle, sono distribuite come fossero coriandoli a carnevale, o aperitivi a Milano, lungo l'arco degli estenuanti, spesso, episodi. E quindi eccomi lì, che da una parte mi annoio a morte e vorrei disintossicarmi da TVD (ma adesso che ha cominciato anche mia sorella a vederlo, sono davvero condannato a vederlo fino a che morte non ci separi, e speriamo che muoia prima la serie, questo almeno si), e dall'altra continuo a guardarlo sperando che Matt si innamori di Rebekah, che Vicki e Jeremy si incontrino di nuovo nell'aldilà e si amino dando vita ad uno spin-off sui Dead Lovers che straccerebbe The Walking Dead anche se non dovesse accadere niente (neppure a livello di quota tette), che Caroline si decida a spingere Tyler tra le braccia di Hayley e si metta con l'ex stronzissimo Klaus, e che uno dei due fratelli Salvatore scompaia dalla faccia della Terra, almeno Elena la piagnona si deciderebbe a non tormentarli entrambi all'infinito sventolandogliela sotto il naso continuamente, e dandola un po' all'uno e un po' all'altro, ma senza decidersi a mettere un (altro) anello al dito, e via discorrendo.
La chiudo qui, ma non senza avvertirvi, che a proposito di spin-off, CW ha deciso che si farà: The Originals, ideato e curato da Julie Plec, partirà in ottobre. Vedrà come protagonisti i fratelli Mikaelson sopravvissuti, ed i loro amichetti di New Orleans. Esatto, avete capito bene (ma chi ha seguito TVD, e visto l'episodio 4x20 intitolato naturalmente The Originals, sa perché), la serie sarà ambientata a New Orleans: come distruggere la credibilità e l'appeal di una città che era diventata epica anche grazie ad una bellissima serie tv. Do you know what I mean...
Spoiler alert: chi non ha mai visto The Vampire Diaries ma fosse intenzionato a farlo, forse è meglio che non legga.
Elena si sveglia in casa sua, rendendosi conto che sta sentendo qualsiasi suono o rumore in tutto il vicinato. Poco a poco, si ricorda cosa è accaduto: stava morendo annegata, insieme a Matt, e Stefan, su sua richiesta, ha salvato il di lei ex ragazzo. Lei, di conseguenza, era tecnicamente morta, ma siccome poco prima era stata "curata" dalla dottoressa Meredith Fell con sangue di vampiro, si sta trasformando in un vampiro. Adesso è in transizione. I due fratelli Salvatore, che naturalmente la seguiranno nel difficile passaggio, hanno idee completamente opposte su come "abituarla" alla vita da vampiro, mentre Jeremy, il fratello di Elena, non vuole che lei completi la transizione. Mentre Elena sta vivendo per la prima volta l'esperienza dei suoi sensi, e dei suoi sentimenti, amplificati al massimo, e i tre uomini della sua vita discutono su quale sarà il suo futuro, in città si scatena la caccia al vampiro, guidata dal pastore Young.
Ogni volta che termina una stagione di The Vampire Diaries, di solito faticosamente, mi interrogo sul motivo per cui continuo a guardare la serie. Ogni volta trovo delle giustificazioni, ma non convinco neppure me stesso. Una cosa che, mi sono reso conto rileggendo i miei scritti sulle tre stagioni precedenti, non vi ho mai detto, è che il Kevin Williamson che, assieme a Julie Plec, ha sviluppato la serie partendo dai libri di L.J. Smith, è il creatore di Dawson's Creek, una serie che ha probabilmente lasciato traumatizzati anche persone già all'epoca considerate adulte, e mi sto riferendo ancora una volta a me stesso. Mi rendo conto che, con questa chiave, potrei allungare questa "critica" (perdonatemi, ma continuo a pensare di non essere accreditato per definire i miei resoconti su film, serie tv, libri e dischi recensioni) all'infinito: sono un 47enne che è ancora convinto di non aver vissuto a dovere l'adolescenza, e di avere sofferto una sostanziale carenza di quell'affetto giovanile idealizzato a causa di programmi televisivi quali, appunto, Dawson's Creek. Questo, forse, il motivo che mi spinge a sottopormi quasi masochisticamente, alla visione di una serie quale The Vampire Diaries. Perché messa da parte la (scusate) parte sovrannaturale, che in questa serie, come già detto, è debordante, la storyline principale e, pare, irrinunciabile (mentre invece molti, io compreso, si interrogano e fantasticano su come potrebbe essere TVD se, per esempio, in qualche maniera, anche molto tragica, venisse meno), è l'infinito, inarrestabile, molesto, devastante, ridondante, ammorbante, noiosissimo e straziante triangolo amoroso tra Elena, Stefan e Damon. Senza contare che le storie d'amore teenageriali, intendo quelle che esistono/sopravvivono oltre a questa del triangolo magico/mistico/sadico/triturapalle, sono distribuite come fossero coriandoli a carnevale, o aperitivi a Milano, lungo l'arco degli estenuanti, spesso, episodi. E quindi eccomi lì, che da una parte mi annoio a morte e vorrei disintossicarmi da TVD (ma adesso che ha cominciato anche mia sorella a vederlo, sono davvero condannato a vederlo fino a che morte non ci separi, e speriamo che muoia prima la serie, questo almeno si), e dall'altra continuo a guardarlo sperando che Matt si innamori di Rebekah, che Vicki e Jeremy si incontrino di nuovo nell'aldilà e si amino dando vita ad uno spin-off sui Dead Lovers che straccerebbe The Walking Dead anche se non dovesse accadere niente (neppure a livello di quota tette), che Caroline si decida a spingere Tyler tra le braccia di Hayley e si metta con l'ex stronzissimo Klaus, e che uno dei due fratelli Salvatore scompaia dalla faccia della Terra, almeno Elena la piagnona si deciderebbe a non tormentarli entrambi all'infinito sventolandogliela sotto il naso continuamente, e dandola un po' all'uno e un po' all'altro, ma senza decidersi a mettere un (altro) anello al dito, e via discorrendo.
La chiudo qui, ma non senza avvertirvi, che a proposito di spin-off, CW ha deciso che si farà: The Originals, ideato e curato da Julie Plec, partirà in ottobre. Vedrà come protagonisti i fratelli Mikaelson sopravvissuti, ed i loro amichetti di New Orleans. Esatto, avete capito bene (ma chi ha seguito TVD, e visto l'episodio 4x20 intitolato naturalmente The Originals, sa perché), la serie sarà ambientata a New Orleans: come distruggere la credibilità e l'appeal di una città che era diventata epica anche grazie ad una bellissima serie tv. Do you know what I mean...
20130526
family values
Modern Family - di Christopher Lloyd e Steven Levitan - Stagione 4 (24 episodi; ABC) - 2012/2013
La quarta stagione di Modern Family comincia esattamente dopo la chiusura dell'ultimo episodio della stagione precedente. E quindi, Gloria è alle prese con la rivelazione della sua inaspettata gravidanza, incapace di prevedere la reazione della quale è più preoccupata, quella di Jay, mentre lo stesso Jay sta per compiere 65 anni (e naturalmente la famiglia intera si organizza per celebrare l'evento a sua insaputa); Cam e Mitch cercando un nuovo equilibrio dopo che i loro sforzi per adottare un altro figlio si sono rivelati inutili, mentre nel nucleo "diretto" da Phil e Claire, Haley sta per lasciare la famiglia per andare al college.
Dite quel che volete, criticate pure, ma a me Modern Family continua a piacere, e proseguo divertendomi guardando gli episodi. E' vero, non è certo uno show trasgressivo, e la cosa potrebbe sembrare paradossale pensando al fatto che mette in scena un nuovo tipo di famiglia, quella che comunemente chiamiamo allargata, anche se in realtà si focalizza su quelli che sono tre nuclei familiari diversi, legati tra di loro dalle parentele. Per rinfrescarvi la memoria, anche se credo non ce ne sia bisogno, la serie mostra un (secondo) matrimonio tra un uomo che una volta avremmo definito anziano (over 60) e una donna straniera (rispetto alla nazione dove è ambientato lo show), molto più giovane di lui e soprattutto, bellissima e molto, molto, molto sexy, e un matrimonio gay, per di più con adozione. Quasi a bilanciare il tutto, c'è poi anche un matrimonio che definirei convenzionale, se solo non avessi paura che l'aggettivo fosse male interpretato, tra un uomo e una donna, con tre figli di diverse età. Nessuna quota tette, pochissime battute grevi (e, se ci sono, sono sempre e comunque dette con una certa lievità), la serie tenta di mostrarci le varie dinamiche familiari, facendo uso della tecnica del mockumentary, lasciando parlare i protagonisti a proposito delle situazioni che man mano si creano negli episodi.
Ora, il prodotto, arrivato alla quarta stagione, pur risentendo naturalmente di una certa stanchezza, come detto rimane divertente e piacevole, riuscendo sempre ad intenerire, a creare situazioni leggermente grottesche risolte con gusto, a far fare allo spettatore anche qualche grassa risata, comunque facendo mantenere un perenne sorrisetto sulle labbra, ed è pure riuscito, nell'arco di quattro anni fittizi (ma che per gli attori giovani sono ovviamente trascorsi veramente), a rendere una discreta evoluzione dei caratteri.
Infine, ma non meno importante, è sempre divertente ed interessante al tempo stesso, veder riportato sullo schermo, seppur da attori che interpretano un ruolo assegnato loro, le dinamiche che si instaurano sia in un rapporto di coppia che in quello genitori/figli; quella conoscenza dei vari tic dell'altro, chiunque esso sia, ed i vari modi del partner, o del parente, di affrontare quella determinata cosa, all'occorrenza a proprio vantaggio.
Non posso concludere senza aver ricordato, per l'ennesima volta, che Sofia Vergara (Gloria) è, oltre che hot, un'attrice dalla verve comica davvero interessante (nota curiosa: la Vergara sta diventando talmente famosa negli USA che, sempre negli USA, sono riusciti a trovare un'attrice porno colombiana e a trasformarla praticamente nella sua sosia porno; per i più curiosi, sto parlando di Esperanza Gomez), ma che a me piace moltissimo anche Julie Bowen (Claire). Ma parlando di attori, se penso che Nolan Gould (Luke) non ha ancora 15 anni, mi viene da credere che di lui sentiremo parlare per un bel po' di tempo ancora: è bravissimo!
20130525
scandalo
Scandal - di Shonda Rimes - Stagioni 1 e 2 (7 e 22 episodi; ABC) - 2012/2013
Washington D.C. Olivia Pope è una fixer, una che risolve i problemi. Soprattutto di immagine. Esperta di comunicazione, ha lavorato come direttore delle comunicazioni della Casa Bianca ed esperta di immagine per la campagna dell'attuale Presidente degli Stati Uniti d'America Fitzgerald Thomas Grant III (Fitz). Per qualche ragione, ha lasciato quel lavoro, per fondare la Olivia Pope and Associates, una società di gestione crisi, assumendo come collaboratori Stephen Finch, litigator (avvocato specializzato in cause penali o civili) inglese e sciupafemmine, Harrison Wright, altro litigator, dalla parlantina incessante, che conia la definizione di loro stessi, il team di Olivia, gladiators in suits, Abby Whelan, investigatrice, Huck, un ex agente CIA specializzato in informatica ma pure nelle torture fisiche, killer infallibile, taciturno fino alla nausea. A loro si unisce molto presto, in maniera sicuramente inusuale, la giovane Quinn Perkins, anche lei avvocato, assunta nel ruolo di tuttofare.
Olivia è rimasta in ottimi rapporti con la Casa Bianca, in special modo con Cyrus Beene, l'anziano ma espertissimo Capo dello Staff, segretamente, ma nemmeno troppo, gay, addirittura sposato con un giornalista politico. Quando la sua agenzia viene ingaggiata dalla Casa Bianca per gestire una crisi causata da uno scandalo di natura sessuale che coinvolge il Presidente, si comincia a capire che Olivia era in realtà in più che intimi rapporti col Presidente stesso, e, allo stesso tempo, che tutti i membri del suo dinamico staff sono a lei oltremodo devoti, perché sono stati tutti "salvati" da un futuro a dir poco incerto proprio dalla implacabile fixer.
Inizialmente incuriosito solo dalla presenza della bellissima Kerry Washington (Broomhilda in Django Unchained, ma era anche in The Last King of Scotland e in Ray, tra gli altri) nei panni della protagonista Olivia Pope, ho iniziato quasi per scherzo a guardare Scandal, e da subito mi sono ritrovato dipendente da una serie decisamente intrigante, ritmatissima, girata sempre con regie iper-dinamiche, ma soprattutto, scritta divinamente, da una ideatrice esperta, Shonda Rimes, che ho scoperto (denuncio la mia ignoranza in questo caso) essere l'ideatrice anche della serie che io non seguo, ma universalmente acclamata quale Grey's Anatomy. Scandal nasce come midseason replacement (rimpiazzo, più o meno), tra l'altro proprio di Private Practice, uno spin-off da Grey's Anatomy ideato dalla stessa Rimes), e i soli sette episodi di cui è composta la prima stagione lo stanno a dimostrare, per conquistarsi un posto importante, e relativi ascolti, nel palinsesto ABC, e, devo dire, a ragione. Scritta con sensibilità femminile, Scandal si propone un po' come una versione rosa/nera di The West Wing (ritroviamo tra l'altro Joshua Malina, qui nei panni di David Rosen), romantica ma piena di intrighi loschi, ben recitata, mai noiosa, con uno spiccato sesto senso per i colpi di scena e ben messo a livello di scarpe femminili, il che non guasta mai. La prima stagione getta le basi e ci fa conoscere il gruppo, mentre la seconda, dopo qualche aggiustamento, anche di cast, comincia a tessere una tela piuttosto complessa, e come detto, non annoia mai.
Il mio personaggio favorito è Huck, interpretato dal mai dimenticato Guillermo Diaz (già il fantastico Guillermo in Weeds), ma devo riconoscere che forse Jeff Perry nei panni di Cyrus è il migliore del lotto. Kerry Washington spesso dà l'idea di fare troppe faccine, ma è talmente figa che mi è impossibile criticarla. Quando indossa le décolleté color crema e i guanti lunghi sarebbe da farci un santino (per non dire di peggio).
Rinnovata per una terza stagione, è probabile che riprenda in settembre.
Washington D.C. Olivia Pope è una fixer, una che risolve i problemi. Soprattutto di immagine. Esperta di comunicazione, ha lavorato come direttore delle comunicazioni della Casa Bianca ed esperta di immagine per la campagna dell'attuale Presidente degli Stati Uniti d'America Fitzgerald Thomas Grant III (Fitz). Per qualche ragione, ha lasciato quel lavoro, per fondare la Olivia Pope and Associates, una società di gestione crisi, assumendo come collaboratori Stephen Finch, litigator (avvocato specializzato in cause penali o civili) inglese e sciupafemmine, Harrison Wright, altro litigator, dalla parlantina incessante, che conia la definizione di loro stessi, il team di Olivia, gladiators in suits, Abby Whelan, investigatrice, Huck, un ex agente CIA specializzato in informatica ma pure nelle torture fisiche, killer infallibile, taciturno fino alla nausea. A loro si unisce molto presto, in maniera sicuramente inusuale, la giovane Quinn Perkins, anche lei avvocato, assunta nel ruolo di tuttofare.
Olivia è rimasta in ottimi rapporti con la Casa Bianca, in special modo con Cyrus Beene, l'anziano ma espertissimo Capo dello Staff, segretamente, ma nemmeno troppo, gay, addirittura sposato con un giornalista politico. Quando la sua agenzia viene ingaggiata dalla Casa Bianca per gestire una crisi causata da uno scandalo di natura sessuale che coinvolge il Presidente, si comincia a capire che Olivia era in realtà in più che intimi rapporti col Presidente stesso, e, allo stesso tempo, che tutti i membri del suo dinamico staff sono a lei oltremodo devoti, perché sono stati tutti "salvati" da un futuro a dir poco incerto proprio dalla implacabile fixer.
Inizialmente incuriosito solo dalla presenza della bellissima Kerry Washington (Broomhilda in Django Unchained, ma era anche in The Last King of Scotland e in Ray, tra gli altri) nei panni della protagonista Olivia Pope, ho iniziato quasi per scherzo a guardare Scandal, e da subito mi sono ritrovato dipendente da una serie decisamente intrigante, ritmatissima, girata sempre con regie iper-dinamiche, ma soprattutto, scritta divinamente, da una ideatrice esperta, Shonda Rimes, che ho scoperto (denuncio la mia ignoranza in questo caso) essere l'ideatrice anche della serie che io non seguo, ma universalmente acclamata quale Grey's Anatomy. Scandal nasce come midseason replacement (rimpiazzo, più o meno), tra l'altro proprio di Private Practice, uno spin-off da Grey's Anatomy ideato dalla stessa Rimes), e i soli sette episodi di cui è composta la prima stagione lo stanno a dimostrare, per conquistarsi un posto importante, e relativi ascolti, nel palinsesto ABC, e, devo dire, a ragione. Scritta con sensibilità femminile, Scandal si propone un po' come una versione rosa/nera di The West Wing (ritroviamo tra l'altro Joshua Malina, qui nei panni di David Rosen), romantica ma piena di intrighi loschi, ben recitata, mai noiosa, con uno spiccato sesto senso per i colpi di scena e ben messo a livello di scarpe femminili, il che non guasta mai. La prima stagione getta le basi e ci fa conoscere il gruppo, mentre la seconda, dopo qualche aggiustamento, anche di cast, comincia a tessere una tela piuttosto complessa, e come detto, non annoia mai.
Il mio personaggio favorito è Huck, interpretato dal mai dimenticato Guillermo Diaz (già il fantastico Guillermo in Weeds), ma devo riconoscere che forse Jeff Perry nei panni di Cyrus è il migliore del lotto. Kerry Washington spesso dà l'idea di fare troppe faccine, ma è talmente figa che mi è impossibile criticarla. Quando indossa le décolleté color crema e i guanti lunghi sarebbe da farci un santino (per non dire di peggio).
Rinnovata per una terza stagione, è probabile che riprenda in settembre.
A sinistra Kerry Washington, che in Scandal interpeta Olivia Pope, e a destra Judy Smith, l'esperta in gestione crisi alla quale si è ispirata la creatrice della serie Shonda Rimes per il personaggio di Olivia Pope. |
20130524
bang bang
The Big Bang Theory - di Chuck Lorre e Bill Prady - Stagione 6 (24 episodi; CBS) - 2012/2013
Howard è ancora sulla International Space Station (l'ilare partenza è stata descritta nell'ultimo episodio della stagione precedente), e naturalmente Raj soffre enormemente la sua assenza. L'astrofisico indiano, infatti, è rimasto l'unico single del gruppo. Invitato da Sheldon al suo secondo anniversario con Amy, con ovvia irritazione della ragazza, per poi andare a rompere le uova nel paniere a Leonard e Penny. Raj, alla fine, comincia ad uscire con Stuart, il proprietario del comics store frequentato dai quattro geni.
Comincia così la sesta stagione di The Big Bang Theory, che, come abbiamo detto più volte, ha perso giocoforza l'iniziale vena scoppiettante per provare a far evolvere i personaggi, appunto con tre rapporti di coppia (e chissà che pian piano...). Ora, c'è da dire che, formando un gruppetto impensabile inizialmente, ma a volte rivelatosi quasi migliore di quello di Leonard, Sheldon, Raj ed Howard, Penny, Amy e Bernadette hanno senza dubbio contribuito a far diventare questa sit-com una sorta di culto: si pensi solo che alla sesta stagione, i dati di ascolto sono praticamente raddoppiati rispetto alla prima, e, udite udite, hanno raggiunto i venti milioni di spettatori con l'episodio 13, The Bakersfield Expedition.
Tornando ai rapporti di coppia, quello di Howard e Bernadette è già passato allo step successivo, mentre quelli di Leonard e Penny, e di Sheldon ed Amy, procedono lenti come lumaconi. Nonostante questo, ciò non impedisce a Sheldon di esibirsi, di tanto in tanto, nelle sue spassose digressioni solipsistiche che tanto ci fanno ridere. Nonostante tutto, il personaggio interpretato sempre magistralmente da Jim Parsons, rimane ancora una volta l'asso nella manica di The Big Bang Theory. Che in settembre, arriverà alla sua settima stagione.
Howard è ancora sulla International Space Station (l'ilare partenza è stata descritta nell'ultimo episodio della stagione precedente), e naturalmente Raj soffre enormemente la sua assenza. L'astrofisico indiano, infatti, è rimasto l'unico single del gruppo. Invitato da Sheldon al suo secondo anniversario con Amy, con ovvia irritazione della ragazza, per poi andare a rompere le uova nel paniere a Leonard e Penny. Raj, alla fine, comincia ad uscire con Stuart, il proprietario del comics store frequentato dai quattro geni.
Comincia così la sesta stagione di The Big Bang Theory, che, come abbiamo detto più volte, ha perso giocoforza l'iniziale vena scoppiettante per provare a far evolvere i personaggi, appunto con tre rapporti di coppia (e chissà che pian piano...). Ora, c'è da dire che, formando un gruppetto impensabile inizialmente, ma a volte rivelatosi quasi migliore di quello di Leonard, Sheldon, Raj ed Howard, Penny, Amy e Bernadette hanno senza dubbio contribuito a far diventare questa sit-com una sorta di culto: si pensi solo che alla sesta stagione, i dati di ascolto sono praticamente raddoppiati rispetto alla prima, e, udite udite, hanno raggiunto i venti milioni di spettatori con l'episodio 13, The Bakersfield Expedition.
Tornando ai rapporti di coppia, quello di Howard e Bernadette è già passato allo step successivo, mentre quelli di Leonard e Penny, e di Sheldon ed Amy, procedono lenti come lumaconi. Nonostante questo, ciò non impedisce a Sheldon di esibirsi, di tanto in tanto, nelle sue spassose digressioni solipsistiche che tanto ci fanno ridere. Nonostante tutto, il personaggio interpretato sempre magistralmente da Jim Parsons, rimane ancora una volta l'asso nella manica di The Big Bang Theory. Che in settembre, arriverà alla sua settima stagione.
20130523
correggere
Rectify - di Ray McKinnon - Stagione 1 (6 episodi; Sundance Channel) - 2013
Stati Uniti d'America, stato della Georgia. Daniel Holden ha 37 anni, ed è da 19 nel braccio della morte di un carcere non lontano dalla sua cittadina d'origine, per l'uccisione e lo stupro della sua fidanzatina di 16 anni, Hanna. La sua pena è stata rimandata più volte, ed ora, grazie alla lotta strenua portata avanti soprattutto dalla sorella Amantha, e dal nuovo avvocato Jon Stern (che ha una relazione con la stessa Amantha), puntando il dito sulla mancanza del DNA di Daniel sulla scena del delitto (nonostante la vittima sia stata ritrovata con Daniel che le aveva portato dei fiori e la teneva per mano), viene rilasciato, in attesa di una completa revisione del processo. Entrato in carcere ragazzo, Daniel adesso è un uomo che, per sua stessa ammissione, parla di cose che ha letto nei numerosi libri che ha consumato durante il suo periodo di reclusione, ma manca totalmente di qualsivoglia esperienza di vita, se si eccettuano quelle precedenti ai suoi 18 anni. Taciturno, si muove come un automa, educato e riservato, viene accolto dalla sua famiglia allargata all'uscita del carcere, e viene accompagnato a casa, a Paulie, Georgia. Oltre ad Amantha, devota sorella, donna lottatrice che ama alla follia il fratello, e l'avvocato Stern, ci sono la madre Janet, ed il patrigno Ted Talbot Sr., uomo gentile e premuroso che ha sposato Janet dopo la morte del padre di Daniel, avvenuta durante la di lui prigionia. A casa troverà il diffidente Ted Jr., figlio di primo letto di Ted Sr., la di lui moglie Tawney, giovane "cristiana rinata" che svilupperà una strana simpatia per Daniel, il fratellastro Jared, il più giovane, nato dal matrimonio tra Ted Sr. e Janet, e tutta la sua cittadina, la polizia convinta che Daniel sia colpevole, la famiglia di Hanna (madre e fratello, anche loro profondamente convinti della colpevolezza di Daniel e decisamente arrabbiati), ma anche altre persone, vecchie conoscenze, che non credono alla colpa dell'uomo. Infine, George e Trey, i due ex ragazzi che hanno testimoniato di aver visto Daniel portare i fiori sul cadavere della ragazza.
Prima serie originale di Sundance Channel, canale che promette scintille, e segnalatami da Buzz altresì noto come fagioliborlotti, Rectify, uscita dalla mente di Ray McKinnon, un attore, regista e sceneggiatore capace di interpretare caratteri diversissimi quali, tanto per farvi capire, coach Cotton in The Blind Side, e il procuratore Lincoln Potter in Sons of Anarchy (per non parlare di Deadwood, Fratello, dove sei? o Apollo 13), vincitore persino di un Oscar per il miglior corto nel 2001 (The Accountant, pazzesco, si trova su youtube) insieme a Lisa Blount (sua moglie, morta nel 2010) e nientemeno che all'amico Walton Goggins (The Shield, Justified, Django Unchained), è, a dispetto dei suoi riferimenti anche "alti" (a volte pure buttati lì a casaccio), dei suoi dialoghi che qualcuno potrà trovare ridondanti, della forzata riflessione sul senso della vita, della religione, sulla presunzione d'innocenza, su quanto è cambiata la vita nell'ultimo ventennio, sullo stile di vita statunitense e sulla realtà tutta particolare degli stati del sud, è soprattutto una serie che, letteralmente, vi toglierà il fiato, sempre che siate un po' polentoni come me, nel qual caso vi ritroverete, inoltre, a singhiozzare rumorosamente più volte, durante la visione dei sei episodi che compongono la prima stagione (e meno male che la serie è stata rinnovata per una seconda, di dieci episodi).
Straordinaria l'interpretazione di Aden Young (Daniel Holden), visto nel bel film L'albero della Bertuccelli, bellissimissima e selvaggia Abigail Spencer (Amantha Holden), per lei fino ad ora solo film davvero poca roba, delicatissima Adelaide Clemens (Tawney; secondo me è la sorella segreta di Michelle Williams), antipaticissimo Clayne Crawford (Ted Jr.).
Secondo me da vedere si si si.
20130522
quella nuova
New Girl - di Elizabeth Meriwether - Stagioni 1 e 2 (24 e 25 episodi; Fox) - 2011/2013
Los Angeles, California. Jessica Day detta Jess è un'insegnante non di ruolo, twenty-something-almost-thirty, originaria di Portland, Oregon, sensibile, carina, dolce, con un senso dell'umorismo a volte fuori luogo, inusuale nel modo di vestire e senza dubbio un po' strana. Dopo aver scoperto che il suo ragazzo, col quale conviveva, la tradiva, e dopo aver convissuto brevemente con la sua migliore amica Cece, professione modella (che co-abita a sua volta con altre modelle, molte delle quali straniere), cerca un'altra sistemazione. La trova in un bell'appartamento dove già convivono tre amici: Coach, un personal trainer particolarmente duro con i suoi clienti e allievi, Nick, un barista disordinato e costantemente impaurito di rimanere un fallito, e Schmidt, il miglior amico di Nick, un ex grasso adesso fortemente concentrato sull'obiettivo di conquistare il maggior numero di donne possibili. Nonostante le perplessità iniziali, Jess viene accettata come nuova co-inquilina, e il quintetto (Cece compresa, con Winston, un ex cestista professionista, che prende il posto di Coach, che deve trasferirsi) diventa fonte inesauribile di peripezie tragicomiche.
Ho recuperato inizialmente in ritardo la prima stagione e l'inizio della seconda, di questa simpatica sitcom che inizialmente si basava sulla deliziosa presenza di Zooey Deschanel nei panni di Jessica Day, e proseguito la visione con discreto divertimento. La serie si fa apprezzare per l'ironia leggera e la crescita di un paio dei personaggi maschili (Nick e Schmidt), ci regala spesso delle belle risate con situazioni grottesche, e il formato da poco più di 20 minuti ad episodio fa si che New Girl si presti ad essere un simpatico intermezzo tra cose più serie o più "pesanti". Molte guests star (Justin Long, Eva Amurri, Ryan Kwanten, Kareem Abdul-Jabbar, Jeanne Tripplehorn, Parker Posey, Carla Gugino, Jamie Lee Curtis, Rob Reiner, Olivia Munn, Odette Annable, Margo Martindale, Dennis Farina, Steve Howey, Dermot Mulroney e, l'ho preso come un regalo, per l'ultimo episodio della seconda stagione, perfino Taylor Swift), divertenti Jake Johnson (Nick) e Max Greenfield (Schmidt), deliziosa come detto la Deschanel, bellissima Hannah Simone (Cece).
Verso settembre la terza stagione.
Los Angeles, California. Jessica Day detta Jess è un'insegnante non di ruolo, twenty-something-almost-thirty, originaria di Portland, Oregon, sensibile, carina, dolce, con un senso dell'umorismo a volte fuori luogo, inusuale nel modo di vestire e senza dubbio un po' strana. Dopo aver scoperto che il suo ragazzo, col quale conviveva, la tradiva, e dopo aver convissuto brevemente con la sua migliore amica Cece, professione modella (che co-abita a sua volta con altre modelle, molte delle quali straniere), cerca un'altra sistemazione. La trova in un bell'appartamento dove già convivono tre amici: Coach, un personal trainer particolarmente duro con i suoi clienti e allievi, Nick, un barista disordinato e costantemente impaurito di rimanere un fallito, e Schmidt, il miglior amico di Nick, un ex grasso adesso fortemente concentrato sull'obiettivo di conquistare il maggior numero di donne possibili. Nonostante le perplessità iniziali, Jess viene accettata come nuova co-inquilina, e il quintetto (Cece compresa, con Winston, un ex cestista professionista, che prende il posto di Coach, che deve trasferirsi) diventa fonte inesauribile di peripezie tragicomiche.
Ho recuperato inizialmente in ritardo la prima stagione e l'inizio della seconda, di questa simpatica sitcom che inizialmente si basava sulla deliziosa presenza di Zooey Deschanel nei panni di Jessica Day, e proseguito la visione con discreto divertimento. La serie si fa apprezzare per l'ironia leggera e la crescita di un paio dei personaggi maschili (Nick e Schmidt), ci regala spesso delle belle risate con situazioni grottesche, e il formato da poco più di 20 minuti ad episodio fa si che New Girl si presti ad essere un simpatico intermezzo tra cose più serie o più "pesanti". Molte guests star (Justin Long, Eva Amurri, Ryan Kwanten, Kareem Abdul-Jabbar, Jeanne Tripplehorn, Parker Posey, Carla Gugino, Jamie Lee Curtis, Rob Reiner, Olivia Munn, Odette Annable, Margo Martindale, Dennis Farina, Steve Howey, Dermot Mulroney e, l'ho preso come un regalo, per l'ultimo episodio della seconda stagione, perfino Taylor Swift), divertenti Jake Johnson (Nick) e Max Greenfield (Schmidt), deliziosa come detto la Deschanel, bellissima Hannah Simone (Cece).
Verso settembre la terza stagione.
20130521
truth
Emily Thorne, in realtà Amanda Clarke, si è rifugiata in Giappone dal maestro Takeda per chiarirsi le idee su cosa farne della sua voglia di vendetta. Ha scoperto che sua madre è ancora viva, ed è lì fuori da qualche parte. Ma naturalmente non è la sola novità devastante per mezzo della quale Revenge ci ha lasciato col fiato sospeso (si fa per dire, ovviamente) tra la prima e la seconda stagione: Victoria Grayson pare morta in un incidente aereo, la finta Amanda è incinta dell'antico amore della vera Amanda (e non ci si può fare niente, perché la verità non si può dire, a rischio di essere scoperti), Jack, Charlotte, vera sorellastra dell'Amanda originale (ma convinta di essere sorellastra di quella incinta, cosa che la fa sentire ancor più in famiglia, dato che lei sta insieme all'insipido fratello Declan - non che il fratello maggiore sia il massimo dell'interesse) è andata in overdose, e Daniel (Grayson, of course), dopo la rottura con Emily/Amanda, si sta facendo consolare da Ashley, che proprio non ne vuole sapere di tornare in Inghilterra portandosi dietro il suo accento.
Siccome quelle che scrivo a propositi di dischi, libri, film e pure serie tv, non sono recensioni vere e proprie, ma giudizi personali, di solito mi faccio guidare dalle emozioni, pur cercando di mantenere una certa apertura mentale, e pensare pure come altri potrebbero reagire di fronte al "prodotto" del quale parlo. Detto questo, la seconda stagione di Revenge, una serie che, durante la prima, si era conquistata sorprendentemente la palma di guilty pleasure personale, è risultata talmente deludente che sto seriamente considerando di non guardarmi la terza, che comincerà il prossimo settembre. Evidentemente, una serie di fattori hanno fatto si che la mia "simpatia" fosse un po' come il governo delle larghe intese, destinata a durare poco. La sospensione del'incredulità viene messa a dura prova dai continui colpi di scena che vengono rilasciati in modalità telenovela, le recitazioni caricaturali non aiutano, la serie perde colpi fino ad arrivare a dei livelli imbarazzanti verso il giro di boa, per poi sparare i fuochi d'artificio nel finalone, arrivando a scomodare complotti planetari. Ho fatto davvero fatica ad arrivare alla fine degli episodi, a questo giro. Ad ogni modo, se qualcuno volesse continuare la visione anche durante la terza stagione, il cliffhanger è stato servito con precisione chirurgica all'ultimo secondo dell'ultimo episodio: un po' come il gol del Sassuolo.
20130520
Soccer sucks? I don't think so.
Forse ha ragione l'amico Monty: sono io che mi ostino ad avere una visione romantica del gioco del calcio, a dispetto della sudditanza psicologica, gli arbitraggi pilotati e gli interventi (degli arbitri) chirurgici, la tessera del tifoso, i tornelli, le televisioni, le scommesse, l'impossibilità di concorrere alla pari con i milionari che si divertono a convertire il calcio in politica, i "biscotti" (a Livorno si chiamano "torte") all'ultima giornata, le simpatie politiche e l'idiozia dei tifosi di qualsiasi colore.
Non me ne frega niente: se ci vuole la tessera del tifoso, cioè se bisogna essere schedato da una specie di stato di polizia messo in piedi da un ex ministro che adesso si spaccia per il volto serio di un partito razzista, io faccio, anzi, ho fatto, la tessera del tifoso, ed ho proseguito a comprare l'abbonamento della squadra per la quale faccio il tifo. Quest'anno, come vi ho detto forse, ho fatto l'abbonamento perfino per mio nipote, che è venuto allo stadio solo una volta (per fortuna a vedere una bella partita, guarda caso Livorno-Sassuolo 3 a 2 in rimonta), e che sta diventando per l'Inter, pensate un po', senza che io ci abbia messo bocca.
E lasciamo da parte pure il fatto che la stessa tessera si è rivelata strumento inutile per svuotare gli stadi: ci ha pensato la televisione, e comunque all'occorrenza i tifosi senza tessera entrano lo stesso, e non vanno nel settore ospiti, creando così maggiori problemi. Ma non voglio parlarvi di questo. Voglio parlarvi di emozioni.
Ieri sono andato a Modena, a vedere Sassuolo-Livorno. Come ormai saprete tutti o quasi, il calendario della serie B sembrava essere stato scritto da uno sceneggiatore di thriller. Sassuolo, Verona e Livorno arrivavano all'ultima giornata distanziati da un punto (rispettivamente 82, 81 e 80), per due soli posti che garantivano la promozione in serie A. La terza classificata avrebbe dovuto disputare i playoff (la terza contro la sesta classificata e la quarta contro la quinta, gare di andata e ritorno, la prima in casa della peggio classificata, l'eventuale pareggio al termine dei due incontri promuove la meglio piazzata in classifica, le vincenti del primo turno si incontrano in altre due partite con le stesse regole), a meno che tra la terza e la quarta non ci fossero più di nove punti. Ecco il thriller: prima dell'ultima giornata, la quarta era l'Empoli, che aveva un ritardo di 8 punti dal Livorno. E quali partite erano previste per l'ultima giornata? Sassuolo-Livorno e Verona-Empoli. Come dire: se il Livorno voleva andare in serie A senza fare i playoff (dopo una stagione passata praticamente sempre al secondo posto), doveva vincere contro il Sassuolo, mentre Verona-Empoli era un pareggio annunciato, tanto da essere messa fuori dalle scommesse. Infatti, il Verona con un punto si garantiva in ogni caso il secondo posto (anche a parità di punti con il Sassuolo, il Verona aveva la meglio per gli scontri diretti), e l'Empoli si garantiva i playoff: in caso di sconfitta del Livorno, perché ci sarebbero stati 7 punti di distanza, in caso di pareggio tra Sassuolo e Livorno perché ci sarebbero stati sempre tra le due squadre 8 punti di distanza, e in caso di vittoria del Livorno perché il Sassuolo, che sarebbe stato terzo per via degli scontri diretti con il Verona, avrebbe avuto "solo" nove punti di distacco sull'Empoli, garantendo la "necessità" dei playoff.
Quindi, si va a Modena con gli amici "di stadio", insieme ad altri tremila livornesi, ingabbiati nel settore ospiti da dove la prospettiva sul campo e quindi sulle azioni di gioco viene meno (lo so, mi sono abituato a vedere la partita dalla tribuna). Alla fine della partita, all'ultimo secondo dell'ultimo minuto di recupero, con un giocatore espulso nelle file del Livorno e due in quelle del Sassuolo, dopo aver giocato a una porta sola per tutto il secondo tempo, il Sassuolo in contropiede mette dentro il gol dell'uno a zero. Invasione di campo da parte dei tifosi "di casa" (il Sassuolo gioca a Modena perché il suo stadio non ha l'agibilità per la serie B), che normalmente sono 50/100 e ieri erano quasi diecimila (ancora mi sto chiedendo come abbiano fatto), e partita finita senza che l'arbitro riesca a fischiare la fine, cerimonia di premiazione perché il Sassuolo vince la classifica della serie B. Noi si torna a casa delusi, ma decisi a dire la nostra ai playoff.
Ora, ognuno ha il suo modo di reagire alle delusioni. Ognuno vive la propria simpatia per una squadra di calcio alla sua maniera. Non metto in dubbio chi non ha apprezzato la direzione dell'arbitro, la sistematicità e la cattiveria dei falli e delle provocazioni dei calciatori del Sassuolo, la magica sparizione dei raccattapalle nel secondo tempo, e addirittura, addirittura, la sospetta sparizione di ogni pallone a parte quello in campo a 10 minuti dalla fine (una cosa che in un campionato professionista fa abbastanza ridere, con tutto il rispetto per la squadra del Presidente di Confindustria).
Io ero convinto che il Sassuolo non ci volesse andare in serie A, e che anche negli anni addietro avesse perso a bella posta. E perfino il parcheggiatore, incapace di manovrare l'autosilos nel quale eravamo curiosi di infilare la macchina (tanto che l'abbiamo lasciata davanti alla cassa), ce l'aveva detto. Era una diceria diffusa. Ma mi sbagliavo. Evidentemente, se perfino i modenesi di adozione, come quella signora che ci serviva al ristorante dove abbiamo pranzato prima di entrare allo stadio, erano preoccupati che il Sassuolo potesse andare in serie A, qualcosa c'era, qualcuno che ci credeva c'era. E, a pensarci bene, così come è comprensibile il giramento di scatole di una città capoluogo di provincia che si vede "usurpare" il predominio sul suo stadio, diventa comprensibile perfino l'ostruzionismo o la cattiveria di una squadra che rappresenta una cittadina di 40mila abitanti che vede il traguardo di giocare in serie A.
Ma, come sapete, sono un inguaribile ottimista, nonché come già detto, romantico. E quindi, dopo un viaggio di ritorno con poche parole (sempre di più di altri, perché la voglia di ridere non ci abbandona mai), e una notte dormita bene causa stanchezza ma fatta pure di riflessioni, quello che conservo della trasferta di ieri è la consapevolezza di aver vissuto un momento (un altro) indimenticabile, un'emozione di quelle che vale la pena vivere. Si è parlato, purtroppo per un momento troppo breve, qualche anno fa, di "cultura della sconfitta". Ecco che ieri, mi sono trovato d'accordo con gli ultras, cosa che mi succede di rado. Quando hanno applaudito e ringraziato i giocatori del Livorno. Semplicemente perché ci hanno provato, fino in fondo, anche sbagliando, come il nostro portiere che si è fatto espellere per essere caduto in una provocazione da due soldi.
Perché la partita di ieri è stata parte del bello del calcio. Una partita in parte bruttina (il primo tempo), sofferta perché giocata da entrambe le squadre con la paura di prenderle, sudata per l'afa che il cielo coperto generava, sporca e antisportiva per i comportamenti sopra descritti (sia da parte "loro" che pure da parte nostra), piena di emozioni altalenanti nel secondo tempo, tra due squadre che si sarebbero meritate subito la promozione.
Non scendo in particolari tecnici, non ne sarei troppo capace, e non servirebbe a niente. Sono stato felice di esserci, e continuo a rimpiangere di non essere stato presente nelle occasioni festose perse solo per scaramanzia. La grinta del nostro allenatore, autore, come già detto, di un piccolo miracolo, a fine partita, quando è venuto sotto la curva ad incitarci a continuare a crederci (così, almeno, ho interpretato i suoi gesti), le belle, perfino bellissime partite viste quest'anno, un filo di giustizia celestiale, mi fanno sperare che la squadra venderà cara la pelle fin dal prossimo mercoledì, durante la partita d'andata con il Brescia, a Brescia.
Occhi sereni, cuori impavidi, non possono perdere! Avanti Livorno.
Non me ne frega niente: se ci vuole la tessera del tifoso, cioè se bisogna essere schedato da una specie di stato di polizia messo in piedi da un ex ministro che adesso si spaccia per il volto serio di un partito razzista, io faccio, anzi, ho fatto, la tessera del tifoso, ed ho proseguito a comprare l'abbonamento della squadra per la quale faccio il tifo. Quest'anno, come vi ho detto forse, ho fatto l'abbonamento perfino per mio nipote, che è venuto allo stadio solo una volta (per fortuna a vedere una bella partita, guarda caso Livorno-Sassuolo 3 a 2 in rimonta), e che sta diventando per l'Inter, pensate un po', senza che io ci abbia messo bocca.
E lasciamo da parte pure il fatto che la stessa tessera si è rivelata strumento inutile per svuotare gli stadi: ci ha pensato la televisione, e comunque all'occorrenza i tifosi senza tessera entrano lo stesso, e non vanno nel settore ospiti, creando così maggiori problemi. Ma non voglio parlarvi di questo. Voglio parlarvi di emozioni.
Ieri sono andato a Modena, a vedere Sassuolo-Livorno. Come ormai saprete tutti o quasi, il calendario della serie B sembrava essere stato scritto da uno sceneggiatore di thriller. Sassuolo, Verona e Livorno arrivavano all'ultima giornata distanziati da un punto (rispettivamente 82, 81 e 80), per due soli posti che garantivano la promozione in serie A. La terza classificata avrebbe dovuto disputare i playoff (la terza contro la sesta classificata e la quarta contro la quinta, gare di andata e ritorno, la prima in casa della peggio classificata, l'eventuale pareggio al termine dei due incontri promuove la meglio piazzata in classifica, le vincenti del primo turno si incontrano in altre due partite con le stesse regole), a meno che tra la terza e la quarta non ci fossero più di nove punti. Ecco il thriller: prima dell'ultima giornata, la quarta era l'Empoli, che aveva un ritardo di 8 punti dal Livorno. E quali partite erano previste per l'ultima giornata? Sassuolo-Livorno e Verona-Empoli. Come dire: se il Livorno voleva andare in serie A senza fare i playoff (dopo una stagione passata praticamente sempre al secondo posto), doveva vincere contro il Sassuolo, mentre Verona-Empoli era un pareggio annunciato, tanto da essere messa fuori dalle scommesse. Infatti, il Verona con un punto si garantiva in ogni caso il secondo posto (anche a parità di punti con il Sassuolo, il Verona aveva la meglio per gli scontri diretti), e l'Empoli si garantiva i playoff: in caso di sconfitta del Livorno, perché ci sarebbero stati 7 punti di distanza, in caso di pareggio tra Sassuolo e Livorno perché ci sarebbero stati sempre tra le due squadre 8 punti di distanza, e in caso di vittoria del Livorno perché il Sassuolo, che sarebbe stato terzo per via degli scontri diretti con il Verona, avrebbe avuto "solo" nove punti di distacco sull'Empoli, garantendo la "necessità" dei playoff.
Quindi, si va a Modena con gli amici "di stadio", insieme ad altri tremila livornesi, ingabbiati nel settore ospiti da dove la prospettiva sul campo e quindi sulle azioni di gioco viene meno (lo so, mi sono abituato a vedere la partita dalla tribuna). Alla fine della partita, all'ultimo secondo dell'ultimo minuto di recupero, con un giocatore espulso nelle file del Livorno e due in quelle del Sassuolo, dopo aver giocato a una porta sola per tutto il secondo tempo, il Sassuolo in contropiede mette dentro il gol dell'uno a zero. Invasione di campo da parte dei tifosi "di casa" (il Sassuolo gioca a Modena perché il suo stadio non ha l'agibilità per la serie B), che normalmente sono 50/100 e ieri erano quasi diecimila (ancora mi sto chiedendo come abbiano fatto), e partita finita senza che l'arbitro riesca a fischiare la fine, cerimonia di premiazione perché il Sassuolo vince la classifica della serie B. Noi si torna a casa delusi, ma decisi a dire la nostra ai playoff.
Ora, ognuno ha il suo modo di reagire alle delusioni. Ognuno vive la propria simpatia per una squadra di calcio alla sua maniera. Non metto in dubbio chi non ha apprezzato la direzione dell'arbitro, la sistematicità e la cattiveria dei falli e delle provocazioni dei calciatori del Sassuolo, la magica sparizione dei raccattapalle nel secondo tempo, e addirittura, addirittura, la sospetta sparizione di ogni pallone a parte quello in campo a 10 minuti dalla fine (una cosa che in un campionato professionista fa abbastanza ridere, con tutto il rispetto per la squadra del Presidente di Confindustria).
Io ero convinto che il Sassuolo non ci volesse andare in serie A, e che anche negli anni addietro avesse perso a bella posta. E perfino il parcheggiatore, incapace di manovrare l'autosilos nel quale eravamo curiosi di infilare la macchina (tanto che l'abbiamo lasciata davanti alla cassa), ce l'aveva detto. Era una diceria diffusa. Ma mi sbagliavo. Evidentemente, se perfino i modenesi di adozione, come quella signora che ci serviva al ristorante dove abbiamo pranzato prima di entrare allo stadio, erano preoccupati che il Sassuolo potesse andare in serie A, qualcosa c'era, qualcuno che ci credeva c'era. E, a pensarci bene, così come è comprensibile il giramento di scatole di una città capoluogo di provincia che si vede "usurpare" il predominio sul suo stadio, diventa comprensibile perfino l'ostruzionismo o la cattiveria di una squadra che rappresenta una cittadina di 40mila abitanti che vede il traguardo di giocare in serie A.
Ma, come sapete, sono un inguaribile ottimista, nonché come già detto, romantico. E quindi, dopo un viaggio di ritorno con poche parole (sempre di più di altri, perché la voglia di ridere non ci abbandona mai), e una notte dormita bene causa stanchezza ma fatta pure di riflessioni, quello che conservo della trasferta di ieri è la consapevolezza di aver vissuto un momento (un altro) indimenticabile, un'emozione di quelle che vale la pena vivere. Si è parlato, purtroppo per un momento troppo breve, qualche anno fa, di "cultura della sconfitta". Ecco che ieri, mi sono trovato d'accordo con gli ultras, cosa che mi succede di rado. Quando hanno applaudito e ringraziato i giocatori del Livorno. Semplicemente perché ci hanno provato, fino in fondo, anche sbagliando, come il nostro portiere che si è fatto espellere per essere caduto in una provocazione da due soldi.
Perché la partita di ieri è stata parte del bello del calcio. Una partita in parte bruttina (il primo tempo), sofferta perché giocata da entrambe le squadre con la paura di prenderle, sudata per l'afa che il cielo coperto generava, sporca e antisportiva per i comportamenti sopra descritti (sia da parte "loro" che pure da parte nostra), piena di emozioni altalenanti nel secondo tempo, tra due squadre che si sarebbero meritate subito la promozione.
Non scendo in particolari tecnici, non ne sarei troppo capace, e non servirebbe a niente. Sono stato felice di esserci, e continuo a rimpiangere di non essere stato presente nelle occasioni festose perse solo per scaramanzia. La grinta del nostro allenatore, autore, come già detto, di un piccolo miracolo, a fine partita, quando è venuto sotto la curva ad incitarci a continuare a crederci (così, almeno, ho interpretato i suoi gesti), le belle, perfino bellissime partite viste quest'anno, un filo di giustizia celestiale, mi fanno sperare che la squadra venderà cara la pelle fin dal prossimo mercoledì, durante la partita d'andata con il Brescia, a Brescia.
Occhi sereni, cuori impavidi, non possono perdere! Avanti Livorno.
20130519
Утомлённые солнцем
Il sole ingannatore - di Nikita Mikhalkov (1994)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: addavenì baffone
1936, Unione Sovietica. Il colonnello Kotov sta trascorrendo un periodo spensierato nella sua dacia assieme alla bella e giovane moglie Marusya, e alla figlioletta Nadia. Kotov è una sorta di celebrità sovietico-bolscevica: dimostrazione palese la si ha quando un contadino dei dintorni corre a chiamarlo, perché i carri armati dell'esercito stanno per danneggiare il raccolto del grano, durante alcune manovre. Kotov, seppur infastidito, vestito in borghese, corre a fermare i carri armati. Non riconosciuto dai militari, si fa prestare un berretto, e poi si fa chiamare il maresciallo. Le giovani reclute muovono i carri armati altrove, scusandosi. Il colonnello e le sue donne si riuniscono poi alla grande e giocosa famiglia aristocratica per il pranzo. Ma la riunione familiare viene interrotta dall'arrivo improvviso di Dimitri, introdotto a Nadia come zio Mitya. Dimitri, ex nobile ed ex anticomunista, ex fidanzato di Marusya e scomparso improvvisamente nel 1923. Sembra una visita di cortesia, ma in realtà Dimitri adesso lavora per la famigerata NKVD, in pratica la polizia segreta di Stalin.
Oscar nel 1995 come miglior film in lingua non inglese, Il sole ingannatore è probabilmente il film più famoso del regista russo. Elegante, ridondante, allegorico, bucolico, poetico, e al tempo stesso sanguinario, spietato, amaro, nostalgico addirittura, surreale con tocchi che agli ignari di una certa filmografia potrebbero sembrare permessi solo a registi come David Lynch, Il sole ingannatore, come dicono correttamente i critici più quotati, è quello di Stalin e delle sue purghe.
Impegnativo, lungo, lento e a tratti pomposo, interpretato dallo stesso regista nei panni di Kotov, dalla vera figlia Nadezhda nella parte di Nadia, dalla splendida lituana Ingeborga Dapkunaite che interpreta Marusya, e da Oleg Menshikov nella dolente parte di Dimitri, è uno di quei film dai quali non ci si può esentare.
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: addavenì baffone
1936, Unione Sovietica. Il colonnello Kotov sta trascorrendo un periodo spensierato nella sua dacia assieme alla bella e giovane moglie Marusya, e alla figlioletta Nadia. Kotov è una sorta di celebrità sovietico-bolscevica: dimostrazione palese la si ha quando un contadino dei dintorni corre a chiamarlo, perché i carri armati dell'esercito stanno per danneggiare il raccolto del grano, durante alcune manovre. Kotov, seppur infastidito, vestito in borghese, corre a fermare i carri armati. Non riconosciuto dai militari, si fa prestare un berretto, e poi si fa chiamare il maresciallo. Le giovani reclute muovono i carri armati altrove, scusandosi. Il colonnello e le sue donne si riuniscono poi alla grande e giocosa famiglia aristocratica per il pranzo. Ma la riunione familiare viene interrotta dall'arrivo improvviso di Dimitri, introdotto a Nadia come zio Mitya. Dimitri, ex nobile ed ex anticomunista, ex fidanzato di Marusya e scomparso improvvisamente nel 1923. Sembra una visita di cortesia, ma in realtà Dimitri adesso lavora per la famigerata NKVD, in pratica la polizia segreta di Stalin.
Oscar nel 1995 come miglior film in lingua non inglese, Il sole ingannatore è probabilmente il film più famoso del regista russo. Elegante, ridondante, allegorico, bucolico, poetico, e al tempo stesso sanguinario, spietato, amaro, nostalgico addirittura, surreale con tocchi che agli ignari di una certa filmografia potrebbero sembrare permessi solo a registi come David Lynch, Il sole ingannatore, come dicono correttamente i critici più quotati, è quello di Stalin e delle sue purghe.
Impegnativo, lungo, lento e a tratti pomposo, interpretato dallo stesso regista nei panni di Kotov, dalla vera figlia Nadezhda nella parte di Nadia, dalla splendida lituana Ingeborga Dapkunaite che interpreta Marusya, e da Oleg Menshikov nella dolente parte di Dimitri, è uno di quei film dai quali non ci si può esentare.
20130518
nato e cresciuto
Nacido y criado - di Pablo Trapero (2006)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Santiago e Milli sono una coppia che ha tutto. Un lavoro che li soddisfa e li realizza, una bellissima casa, una vita piena, una figlia meravigliosa, Josefina. Ma un giorno, tutto va in pezzi, mentre stanno viaggiando in auto per una gita, Santiago distratto dai capricci di Josefina, perde il controllo dell'auto e l'incidente che ne segue è spaventoso. Santiago è distrutto dall'aver distrutto due vite, quelle dell'amata moglie e dell'altrettanto amata figlia, e cambia completamente la sua, di vita: se ne va nella Patagonia pre-andina, vicino ai confini con il Cile, nell'interno del paese, dove le anime sono poche e ci si può perdere. Lavora nel minuscolo aeroporto locale, assieme al coinquilino Robert, e con il Cacique, il soprannome storico di un indio mapuche originario del luogo, appunto "nacido y criado", nato e cresciuto. Le dinamiche del luogo li portano a frequentarsi continuamente, a stringere un'amicizia cementata dall'alcol. Ma i fantasmi del passato continuano ad inseguire Santiago.
Con questo Nacido y criado completo le recensioni dei film dell'argentino Pablo Trapero, fatta esclusione per il suo debutto Mondo Grúa, che vidi ai suoi tempi, quando ancora non vi tediavo con le mie scritture. Il film in questione è il primo dove appare la moglie Martina Gusman, donna bellissima e col tempo attrice sempre più brava, attrice che lo ha poi accompagnato in ogni suo lungometraggio (fatta esclusione del segmento che Trapero ha diretto nel film collettivo 7 days in Havana) fino ad oggi. Per concludere le curiosità, il personaggio di Robert è interpretato dall'ottimo Federico Esquerro, presente come attore in tutti i film di Trapero fino a Carancho (e in tutti fino ad Elefante blanco come tecnico del suono).
Passando al film vero e proprio, si può dire che è il film di passaggio all'età adulta di Trapero, nel senso che siamo di fronte al primo film con una fotografia professionale, e probabilmente con un budget sicuramente più importante dei precedenti. Trapero è molto bravo a creare una prima parte in cui la serena routine familiare genera, senza nessun apparente motivo, un senso crescente d'angoscia nello spettatore, che naturalmente sente che qualcosa sta per accadere. Poi, sembra di assistere ad un altro film, ad un'altra storia, meno angosciante ma non meno disperata. Luoghi selvaggi e bellissimi, e diverse scene dalla potenza inaudita, fanno di Nacido y criado un altro film davvero interessante. Poco convincente il finale, seppur pieno di commozione.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Santiago e Milli sono una coppia che ha tutto. Un lavoro che li soddisfa e li realizza, una bellissima casa, una vita piena, una figlia meravigliosa, Josefina. Ma un giorno, tutto va in pezzi, mentre stanno viaggiando in auto per una gita, Santiago distratto dai capricci di Josefina, perde il controllo dell'auto e l'incidente che ne segue è spaventoso. Santiago è distrutto dall'aver distrutto due vite, quelle dell'amata moglie e dell'altrettanto amata figlia, e cambia completamente la sua, di vita: se ne va nella Patagonia pre-andina, vicino ai confini con il Cile, nell'interno del paese, dove le anime sono poche e ci si può perdere. Lavora nel minuscolo aeroporto locale, assieme al coinquilino Robert, e con il Cacique, il soprannome storico di un indio mapuche originario del luogo, appunto "nacido y criado", nato e cresciuto. Le dinamiche del luogo li portano a frequentarsi continuamente, a stringere un'amicizia cementata dall'alcol. Ma i fantasmi del passato continuano ad inseguire Santiago.
Con questo Nacido y criado completo le recensioni dei film dell'argentino Pablo Trapero, fatta esclusione per il suo debutto Mondo Grúa, che vidi ai suoi tempi, quando ancora non vi tediavo con le mie scritture. Il film in questione è il primo dove appare la moglie Martina Gusman, donna bellissima e col tempo attrice sempre più brava, attrice che lo ha poi accompagnato in ogni suo lungometraggio (fatta esclusione del segmento che Trapero ha diretto nel film collettivo 7 days in Havana) fino ad oggi. Per concludere le curiosità, il personaggio di Robert è interpretato dall'ottimo Federico Esquerro, presente come attore in tutti i film di Trapero fino a Carancho (e in tutti fino ad Elefante blanco come tecnico del suono).
Passando al film vero e proprio, si può dire che è il film di passaggio all'età adulta di Trapero, nel senso che siamo di fronte al primo film con una fotografia professionale, e probabilmente con un budget sicuramente più importante dei precedenti. Trapero è molto bravo a creare una prima parte in cui la serena routine familiare genera, senza nessun apparente motivo, un senso crescente d'angoscia nello spettatore, che naturalmente sente che qualcosa sta per accadere. Poi, sembra di assistere ad un altro film, ad un'altra storia, meno angosciante ma non meno disperata. Luoghi selvaggi e bellissimi, e diverse scene dalla potenza inaudita, fanno di Nacido y criado un altro film davvero interessante. Poco convincente il finale, seppur pieno di commozione.
20130517
famiglia su ruote
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Emilia ha 84 anni, e vive nei sobborghi di Buenos Aires. Nel giorno del suo 84esimo compleanno, che festeggerà con tutta la sterminata e squinternata famiglia, riceve l'invito dalla sorella, che vive nella provincia di Misiones, nel nord argentino, lussureggiante e traboccante di verde, simile alla jungla: dovrà essere l'ospite d'onore ad un matrimonio di famiglia, che si terrà di lì a poco. Eccitata, felice, si rivolge alla famiglia per questo viaggio. Oscar, marito di Marta, una delle due figlie di Emilia, insiste perchè tutta la famiglia viaggi insieme col suo vecchissimo camper, del quale è orgoglioso, fino al punto di non rendersi conto che un viaggio di quasi duemila chilometri (il luogo del matrimonio è quasi al confine col Brasile) non è assolutamente alla portata del suo amato camper. Figlie, mariti, nipoti e pronipoti, tutti e tutte con i loro segreti, le loro fisse, i loro problemi, i loro drammi e le loro situazioni irrisolte, si trovano a dover condividere uno spazio confinato e strettissimo, con un clima afoso e poco clemente, per un periodo che, giocoforza, sembrerà infinito e troppo lungo, insopportabile. Ce la faranno?
Familia rodante segue El bonaerense, e senza dubbio rispetto al film precedente sa molto più di commedia. Nonostante ciò, il film è più che godibile, in alcuni momenti scoppiettante e pirotecnico, dipinge alla perfezione la classe media (medio-bassa) argentina, la struttura familiare e le sue dinamiche, la teatralità che, personalmente, sono convinto abbiano mutuato dalla loro provenienza italiana, e si propone come un ottimo, personale, realista, sincero, grezzo, gioiellino on the road. Trapero sta addosso ai protagonisti, fa si che la telecamera sembri sudare insieme a loro, insiste sui primi piani e sui particolari, e riesce a far sembrare stroardinari e navigati professionisti un gruppo di attori improvvisati, debuttanti e/o non professionisti, intensi e ancora una volta più che credibili. In più, come un portafortuna, ancora una volta fa recitare la sua vera nonna, Graciana Chironi (Emilia), presente anche in Mondo Grúa e in El bonaerense.
Emilia ha 84 anni, e vive nei sobborghi di Buenos Aires. Nel giorno del suo 84esimo compleanno, che festeggerà con tutta la sterminata e squinternata famiglia, riceve l'invito dalla sorella, che vive nella provincia di Misiones, nel nord argentino, lussureggiante e traboccante di verde, simile alla jungla: dovrà essere l'ospite d'onore ad un matrimonio di famiglia, che si terrà di lì a poco. Eccitata, felice, si rivolge alla famiglia per questo viaggio. Oscar, marito di Marta, una delle due figlie di Emilia, insiste perchè tutta la famiglia viaggi insieme col suo vecchissimo camper, del quale è orgoglioso, fino al punto di non rendersi conto che un viaggio di quasi duemila chilometri (il luogo del matrimonio è quasi al confine col Brasile) non è assolutamente alla portata del suo amato camper. Figlie, mariti, nipoti e pronipoti, tutti e tutte con i loro segreti, le loro fisse, i loro problemi, i loro drammi e le loro situazioni irrisolte, si trovano a dover condividere uno spazio confinato e strettissimo, con un clima afoso e poco clemente, per un periodo che, giocoforza, sembrerà infinito e troppo lungo, insopportabile. Ce la faranno?
Familia rodante segue El bonaerense, e senza dubbio rispetto al film precedente sa molto più di commedia. Nonostante ciò, il film è più che godibile, in alcuni momenti scoppiettante e pirotecnico, dipinge alla perfezione la classe media (medio-bassa) argentina, la struttura familiare e le sue dinamiche, la teatralità che, personalmente, sono convinto abbiano mutuato dalla loro provenienza italiana, e si propone come un ottimo, personale, realista, sincero, grezzo, gioiellino on the road. Trapero sta addosso ai protagonisti, fa si che la telecamera sembri sudare insieme a loro, insiste sui primi piani e sui particolari, e riesce a far sembrare stroardinari e navigati professionisti un gruppo di attori improvvisati, debuttanti e/o non professionisti, intensi e ancora una volta più che credibili. In più, come un portafortuna, ancora una volta fa recitare la sua vera nonna, Graciana Chironi (Emilia), presente anche in Mondo Grúa e in El bonaerense.
20130516
l'abitante della provincia di Buenos Aires
El bonaerense - di Pablo Trapero (2002)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Enrique Orlando Mendoza detto Zapa è un giovane apprendista fabbro che vive in un piccolo villaggio della provincia argentina; la vita scorre lenta e tranquilla, si ha poco e di sicuro non ci si "strappa i capelli" dal lavoro. Il suo capo, detto El polaco, lo manda a svolgere un lavoro che Zapa pensa essere un lavoro perfettamente legale, aprire una cassaforte in un officina. Ma la notte, dei compari del Polaco la svuotano, e il giorno seguente Zapa viene messo in carcere per il furto.
Lo zio Ismael, poliziotto in pensione, grazie alle sue conoscenze, lo fa uscire dal carcere facendo un patto: il nipote deve trasferirsi a Buenos Aires per diventare un aspirante agente della Policía Bonaerense. E così accade; Zapa si trasferisce, trova un appartamento, diventa il protegé del suo superiore, Gallo, intreccia una storia con una donna più anziana di lui, si rende conto della corruzione e dell'assurdità che serpeggia all'interno della polizia, ne diventa parte integrante.
Secondo lungometraggio di fiction dell'ormai ben riconosciuto al di fuori dei confini argentini Pablo Trapero, dopo il debutto con Mondo Grúa, questo El bonaerense è un film ruvido ma intrigante, che mostra l'Argentina rurale e quella metropolitana con tutti i suoi paradossi e le sue contraddizioni, e, so che è troppo comodo dirlo adesso (ma chi segue fassbinder sa che Trapero non l'ho "scoperto" ora), mostra chiaramente che la stoffa c'era. Intuizione, propensione alla violenza "poetica", machismo di facciata esibito in realtà per denunciare questa ulteriore piaga, realismo come detto prima ruvido, denuncia sfacciata della corruzione dilagante, ispirato dai grandi classici, El bonaerense è un film ottimo, che mostra un regista già maturo, solo alla ricerca di mezzi più importanti. Cast sconosciuto ma tutto splendidamente credibile.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Enrique Orlando Mendoza detto Zapa è un giovane apprendista fabbro che vive in un piccolo villaggio della provincia argentina; la vita scorre lenta e tranquilla, si ha poco e di sicuro non ci si "strappa i capelli" dal lavoro. Il suo capo, detto El polaco, lo manda a svolgere un lavoro che Zapa pensa essere un lavoro perfettamente legale, aprire una cassaforte in un officina. Ma la notte, dei compari del Polaco la svuotano, e il giorno seguente Zapa viene messo in carcere per il furto.
Lo zio Ismael, poliziotto in pensione, grazie alle sue conoscenze, lo fa uscire dal carcere facendo un patto: il nipote deve trasferirsi a Buenos Aires per diventare un aspirante agente della Policía Bonaerense. E così accade; Zapa si trasferisce, trova un appartamento, diventa il protegé del suo superiore, Gallo, intreccia una storia con una donna più anziana di lui, si rende conto della corruzione e dell'assurdità che serpeggia all'interno della polizia, ne diventa parte integrante.
Secondo lungometraggio di fiction dell'ormai ben riconosciuto al di fuori dei confini argentini Pablo Trapero, dopo il debutto con Mondo Grúa, questo El bonaerense è un film ruvido ma intrigante, che mostra l'Argentina rurale e quella metropolitana con tutti i suoi paradossi e le sue contraddizioni, e, so che è troppo comodo dirlo adesso (ma chi segue fassbinder sa che Trapero non l'ho "scoperto" ora), mostra chiaramente che la stoffa c'era. Intuizione, propensione alla violenza "poetica", machismo di facciata esibito in realtà per denunciare questa ulteriore piaga, realismo come detto prima ruvido, denuncia sfacciata della corruzione dilagante, ispirato dai grandi classici, El bonaerense è un film ottimo, che mostra un regista già maturo, solo alla ricerca di mezzi più importanti. Cast sconosciuto ma tutto splendidamente credibile.
20130515
persona di interesse rilevante
Person of Interest - di Jonathan Nolan - Stagioni 1 e 2 (23 e 22 episodi; CBS) - 2011/2013
New York, oggi. John Reese è un ex berretto verde e un esecutivo della CIA con una estrema abilità nel districarsi da situazioni complicatissime, mira infallibile, tecniche di lotta raffinatissime, conoscenza di armi ed esplosivi, abilità di sopravvivenza in casi estremi. E' ritenuto morto, ma in realtà vive come un homeless qualunque nei bassifondi della Grande Mela, una vita distrutta dopo aver saputo che Jessica, la donna che amava e che era stato costretto a lasciare a causa del suo lavoro e dell'impossibilità di avere con lei una relazione stabile, è morta. Divorato dai sensi di colpa (nonostante Jessica si fosse sposata dopo aver terminato la relazione con John, erano rimasti in contatto, e lei gli aveva dato altre opportunità), John non vuole più saperne del mondo "normale". Ma viene avvicinato da Harold Finch, un solitario miliardario, nonché genio informatico, che gli offre uno stipendio da favola per le sue abilità da soldato, ma soprattutto, uno scopo nobile. John accetta.
In cosa consiste questo scopo nobile, questa missione? E' presto detto, ma difficile da credere: Harold, in collaborazione con Nathan Ingram, il volto ufficiale della società che hanno fondato, ha creato un sistema informatico di sorveglianza di massa. The Machine, così la chiama Harold, è un potentissimo sistema informatico integrato, che sorvegliando tutte le telecamere, le comunicazioni elettroniche, le entrate audio disponibili in tutto il mondo, elabora previsioni attendibili su qualsiasi tipo di atto violento, individuando colpevole o vittima. La società di Ingram e Finch ha sviluppato questo sistema sotto la supervisione e l'incarico del governo degli Stati Uniti d'America, per poi cedere i diritti allo stesso governo: verrà usata per prevenire atti di terrorismo, e scongiurare un altro 11 settembre. Ma la macchina non individua solo gli atti di terrorismo, bensì qualsiasi atto violento. Ingram crea una routine che permette di conoscere i dati di vittima o carnefice degli atti violenti considerati irrilevanti dal governo, venendo meno al patto col governo stesso. Scomparso Ingram, Finch è rimasto a conoscenza della routine, e puntualmente sa come venire a conoscenza dei dati irrilevanti. Ha bisogno di uno come Reese per prevenire gli atti violenti non terroristici. E c'è un gran lavoro da fare.
Creata da Jonathan Nolan, che è proprio il fratello dell'acclamato regista Christopher (Memento, Inception, gli ultimi Batman), che con lui ha co-sceneggiato The Prestige, un paio di Batman, il prossimo Interstellar, ed ha scritto Memento Mori, il corto su cui si è basato il fratello per Memento, e prodotto dall'ormai famosissimo J.J. Abrams, Person of Interest è un divertissement d'azione spesso estrema per niente stupido, che mantiene un ottimo livello di ironia, e che a volte "mette in crisi" (in maniera positiva) quando filosofeggia, e suggerisce l'eventualità di giocare a fare Dio (vedi il season finale della seconda stagione, da poco terminata, God Mode), mettendo in discussione perfino qualche convinzione etica. Protagonista assoluto un rigenerato, ma mai dimenticato, Jim Caviezel nella parte di un sempre più ironico, col passare degli episodi, John Reese, affiancato dall'ottima spalla Michael Emerson (The Practice, Lost) nella parte di Harold Finch); supportati da un cast di contorno fatto da ottimi caratteristi, i due danno vita ad un'altalena tra il serio e il faceto, le regie sono molto dinamiche e adatte al mood, e la trama orizzontale di ogni episodio viene intrecciata piuttosto sapientemente con le varie storylines verticali che attraversano l'intera serie. Il risultato è una serie che negli USA fa una media di oltre 13 milioni di spettatori ad episodio, godibile e, come detto, mai stupida.
New York, oggi. John Reese è un ex berretto verde e un esecutivo della CIA con una estrema abilità nel districarsi da situazioni complicatissime, mira infallibile, tecniche di lotta raffinatissime, conoscenza di armi ed esplosivi, abilità di sopravvivenza in casi estremi. E' ritenuto morto, ma in realtà vive come un homeless qualunque nei bassifondi della Grande Mela, una vita distrutta dopo aver saputo che Jessica, la donna che amava e che era stato costretto a lasciare a causa del suo lavoro e dell'impossibilità di avere con lei una relazione stabile, è morta. Divorato dai sensi di colpa (nonostante Jessica si fosse sposata dopo aver terminato la relazione con John, erano rimasti in contatto, e lei gli aveva dato altre opportunità), John non vuole più saperne del mondo "normale". Ma viene avvicinato da Harold Finch, un solitario miliardario, nonché genio informatico, che gli offre uno stipendio da favola per le sue abilità da soldato, ma soprattutto, uno scopo nobile. John accetta.
In cosa consiste questo scopo nobile, questa missione? E' presto detto, ma difficile da credere: Harold, in collaborazione con Nathan Ingram, il volto ufficiale della società che hanno fondato, ha creato un sistema informatico di sorveglianza di massa. The Machine, così la chiama Harold, è un potentissimo sistema informatico integrato, che sorvegliando tutte le telecamere, le comunicazioni elettroniche, le entrate audio disponibili in tutto il mondo, elabora previsioni attendibili su qualsiasi tipo di atto violento, individuando colpevole o vittima. La società di Ingram e Finch ha sviluppato questo sistema sotto la supervisione e l'incarico del governo degli Stati Uniti d'America, per poi cedere i diritti allo stesso governo: verrà usata per prevenire atti di terrorismo, e scongiurare un altro 11 settembre. Ma la macchina non individua solo gli atti di terrorismo, bensì qualsiasi atto violento. Ingram crea una routine che permette di conoscere i dati di vittima o carnefice degli atti violenti considerati irrilevanti dal governo, venendo meno al patto col governo stesso. Scomparso Ingram, Finch è rimasto a conoscenza della routine, e puntualmente sa come venire a conoscenza dei dati irrilevanti. Ha bisogno di uno come Reese per prevenire gli atti violenti non terroristici. E c'è un gran lavoro da fare.
Creata da Jonathan Nolan, che è proprio il fratello dell'acclamato regista Christopher (Memento, Inception, gli ultimi Batman), che con lui ha co-sceneggiato The Prestige, un paio di Batman, il prossimo Interstellar, ed ha scritto Memento Mori, il corto su cui si è basato il fratello per Memento, e prodotto dall'ormai famosissimo J.J. Abrams, Person of Interest è un divertissement d'azione spesso estrema per niente stupido, che mantiene un ottimo livello di ironia, e che a volte "mette in crisi" (in maniera positiva) quando filosofeggia, e suggerisce l'eventualità di giocare a fare Dio (vedi il season finale della seconda stagione, da poco terminata, God Mode), mettendo in discussione perfino qualche convinzione etica. Protagonista assoluto un rigenerato, ma mai dimenticato, Jim Caviezel nella parte di un sempre più ironico, col passare degli episodi, John Reese, affiancato dall'ottima spalla Michael Emerson (The Practice, Lost) nella parte di Harold Finch); supportati da un cast di contorno fatto da ottimi caratteristi, i due danno vita ad un'altalena tra il serio e il faceto, le regie sono molto dinamiche e adatte al mood, e la trama orizzontale di ogni episodio viene intrecciata piuttosto sapientemente con le varie storylines verticali che attraversano l'intera serie. Il risultato è una serie che negli USA fa una media di oltre 13 milioni di spettatori ad episodio, godibile e, come detto, mai stupida.
20130514
Side Effects
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Martin Taylor, giovane e spregiudicato broker di Wall Street, sta per uscire dal carcere dove ha scontato una pena di quattro anni per insider trading. Ancora nel fiore degli anni, vuole ricominciare, seppur andandoci piano, come gli consigliano, per tornare a condurre una vita agiata e tendente al lusso, per riavere indietro tutto quello che gli è stato, secondo la sua visione, tolto ingiustamente. La bella e altrettanto giovane moglie Emily (erano sposati da un anno quando Martin è finito dietro le sbarre) lo ha aspettato con pazienza, diligenza e spirito di sacrificio. Si è trovata un lavoro, è rimasta in ottimi rapporti con la madre di Martin, ha tirato avanti. Ma ha sofferto di depressione, è stata in cura da una psichiatra, ha fatto uso di antidepressivi. Quando finalmente Martin esce, la depressione sembra impossessarsi nuovamente della ragazza, che prova istinti suicidi, e che una mattina, nel garage del loro palazzo, si dirige a tutta velocità verso un muro. Finita all'ospedale, viene presa in cura da un altro psichiatra, il dottor Jonathan Banks, che la vorrebbe trattenere per sicurezza: non è così sicuro che la ragazza non possa essere pericolosa, quanto meno per se stessa. Ma Emily sa come convincere il dottore, e promette di andare in cura da lui tre volte alla settimana. Il patto è fatto, ed Emily torna a casa. Seppur con alti e bassi (sta per tentare nuovamente di suicidarsi una mattina mentre aspetta la metro), Emily continua a vedere il dottor Banks, che nel frattempo si mette in contatto con la precedente psichiatra, Victoria Siebert, che gli segnala un nuovo farmaco, l'Ablixa, che pare fare miracoli. Jonathan tiene ai suoi pazienti, ma sta cercando di guadagnare: doppi turni in ospedale, studio condiviso con altri due soci da privato, ed infine, da qualche giorno, ha accettato di prendere parte ad una sperimentazione su un nuovo antidepressivo, il tutto pagato dalla casa produttrice. Emily ha una ricaduta, poi un'altra, ed un giorno, disperata, approccia Banks mentre sta parlando con la moglie Dierdre, preoccupata per un colloquio di lavoro. Anche Emily ha visto la pubblicità dell'Ablixa, e suggerisce a Banks se non sia il caso di provare anche quello. Il dottore si fa convincere ancora una volta, e lo prescrive alla ragazza. I giorni seguenti, Emily pare trasformata: vivace, piena di energie, ritrova perfino l'intesa sessuale con Martin. Ma gli effetti collaterali si presentano immediatamente: sonnambulismo. Banks prova a contrastarli con un ulteriore farmaco, ma alla fine, il conto si presenta. Emily compie un atto efferato. Banks comincia a dubitare del suo operato. Sarà proprio così?
Per dire, solo a raccontarlo si capisce che Side Effects, ultimo (forse, ma non sono tipo cinque/sei anni che si dice?) film di Soderbergh (ma come scrivono tutti correttamente, il 26 maggio di questo anno andrà in onda su HBO - e dove sennò? - il suo effettivo ultimo film, Behind the Candelabra, su Liberace), non è mica un giochetto stupido, o un divertissement. E', a mio parere, per chi arriva al cinema senza saperne molto, come ho fatto io, una sorta di giallo che ti spiazza e ti sorprende. Prima di tutto perché ti aspetti una denuncia verso le case farmaceutiche e l'abuso degli antidepressivi, ma invece ti ritrovi per le mani un intrigo quasi hitchcockiano, freddo (qui si, concordo con Dantès), calcolato, che effettivamente manca di empatia ma, suppongo, proprio perché non c'è un personaggio che sia uno, per il quale valga la pena di empatizzare. E' un mondo malato ma soprattutto avido, sembra dirci Soderbergh con quella faccia da nerd, e, se è vero quel che dice il dottor Banks a proposito della sua emigrazione dal Regno Unito agli Stati Uniti (in breve "se uno va da uno psichiatra in UK è malato, se ci va negli USA vuole stare meglio"), è anche vero che "One pill can change your life", come recita la tagline del film stesso, e che si prescrivano antidepressivi come se piovesse, è vero pure questo, e bisognerebbe andarci piano.
Detto questo, Rooney Mara (Emily) è bravissima, tanto che Jude Law (Jonathan Banks) fatica a starle dietro in varietà espressiva e sbalzi di umore. A questo punto, aspetto in gloria un film che riunisca le due sorelle Rooney e Kate. Channing Tatum (Martin Taylor) fa arredamento, come pure Catherine Zeta-Jones (Victoria Siebert), e siccome il film è un generatore di sospetti, viene il sospetto che siano stati messi entrambi lì per il lato estetico. Un sacco di facce note nelle parti marginali: David Costabile (Gale Boetticher di Breaking Bad) è Carl, Mamie Gummer (The Ward, The Good Wife) è Kayla, eccetera eccetera. Io mi permetto di segnalare Vinessa Shaw nella parte di Dierdre, moglie di Banks, già nell'orrendo Two Lovers, dove già ebbi a dire che mi ricorda Hillary Swank: me la ricorda tutt'ora.
20130513
mamma Roma
Roma - di Adolfo Aristarain (2004; inedito in Italia)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Spagna. Scrittore di discreto successo di origini argentina, Joaquín Góñez, da tempo ritiratosi a vita molto privata, personaggio scontroso e di poche parole, seppur potenzialmente pieno di aneddoti, cose da raccontare, e di grande cultura ed intelligenza, deve consegnare entro breve tempo la sua autobiografia al suo editore, che lo sta pressando. E' su spinta dell'editore stesso, che gli viene assegnato il giovane aspirante giornalista e scrittore Manuel Cueto, educato ma fermo, e non privo di prontezza di spirito e, pure lui, intelligenza. Nonostante le premesse, per niente incoraggianti, Manuel conquista l'anziano scrittore, e soprattutto, tra il suo rispetto e la sua curiosità, e i ricordi che l'autobiografia rivangano, Joaquín racconta e rivive la sua giovinezza a Buenos Aires, tra aria di dittatura, primi amori, musica, desideri, speranze, e soprattutto, la figura importantissima della madre, Roma Di Toro, donna delicata ma fortissima, vera artefice del destino di successo del figlio.
L'anziano regista argentino dice che questo, per il momento suo ultimo film, è parte di una trilogia sulle paure (interiori e psicologiche, suppongo, perché di certo non sono film horror), ma a me pare soprattutto di intravedere [mancandomene uno dei tre, il condizionale è d'obbligo; Martin (Hache) l'ho visto, e mi piacque, Lugares comunes no, ma a questo punto conto di recuperarlo], quale trait d'union, i rapporti familiari "interrotti". Come che sia, se si tralascia l'eccessiva durata (oltre due ore e mezzo), Roma è un film magari non di eccezionale interesse, ma dal forte impatto emotivo, evidentemente ispirato dal grande amore che questo regista ha per la sua nazione di origine, un po' prevedibile e formale, ma tutto sommato godibile, e sostenuto molto bene dai due protagonisti, José Sacristán (attore spagnolo dalla filmografia sterminata, già con Aristarain in Un posto nel mondo, e perfino con Gillo Pontecorvo in Ogro), nei panni di Joaquín Góñez da anziano, e da Juan Diego Botto, un attore anche lui di origini argentine ma emigrato in Spagna da piccolo dopo la scomparsa, come desaparecido, del padre, già con Aristarain in Martin (Hache), e attore che a me piace particolarmente, che qui se la cava (al solito) egregiamente in una doppia parte, quella di Manuel Cueto, e quella dello stesso Góñez da giovane. Molto brava anche l'argentina Susú Pecoraro nella parte di Roma.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Spagna. Scrittore di discreto successo di origini argentina, Joaquín Góñez, da tempo ritiratosi a vita molto privata, personaggio scontroso e di poche parole, seppur potenzialmente pieno di aneddoti, cose da raccontare, e di grande cultura ed intelligenza, deve consegnare entro breve tempo la sua autobiografia al suo editore, che lo sta pressando. E' su spinta dell'editore stesso, che gli viene assegnato il giovane aspirante giornalista e scrittore Manuel Cueto, educato ma fermo, e non privo di prontezza di spirito e, pure lui, intelligenza. Nonostante le premesse, per niente incoraggianti, Manuel conquista l'anziano scrittore, e soprattutto, tra il suo rispetto e la sua curiosità, e i ricordi che l'autobiografia rivangano, Joaquín racconta e rivive la sua giovinezza a Buenos Aires, tra aria di dittatura, primi amori, musica, desideri, speranze, e soprattutto, la figura importantissima della madre, Roma Di Toro, donna delicata ma fortissima, vera artefice del destino di successo del figlio.
L'anziano regista argentino dice che questo, per il momento suo ultimo film, è parte di una trilogia sulle paure (interiori e psicologiche, suppongo, perché di certo non sono film horror), ma a me pare soprattutto di intravedere [mancandomene uno dei tre, il condizionale è d'obbligo; Martin (Hache) l'ho visto, e mi piacque, Lugares comunes no, ma a questo punto conto di recuperarlo], quale trait d'union, i rapporti familiari "interrotti". Come che sia, se si tralascia l'eccessiva durata (oltre due ore e mezzo), Roma è un film magari non di eccezionale interesse, ma dal forte impatto emotivo, evidentemente ispirato dal grande amore che questo regista ha per la sua nazione di origine, un po' prevedibile e formale, ma tutto sommato godibile, e sostenuto molto bene dai due protagonisti, José Sacristán (attore spagnolo dalla filmografia sterminata, già con Aristarain in Un posto nel mondo, e perfino con Gillo Pontecorvo in Ogro), nei panni di Joaquín Góñez da anziano, e da Juan Diego Botto, un attore anche lui di origini argentine ma emigrato in Spagna da piccolo dopo la scomparsa, come desaparecido, del padre, già con Aristarain in Martin (Hache), e attore che a me piace particolarmente, che qui se la cava (al solito) egregiamente in una doppia parte, quella di Manuel Cueto, e quella dello stesso Góñez da giovane. Molto brava anche l'argentina Susú Pecoraro nella parte di Roma.
20130512
zona franca
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Gerusalemme. Una giovane ragazza piange. E' Rebecca, ebrea/statunitense che vive qui da qualche mese, insieme al suo fidanzato Julio, spagnolo di origini ebraiche. Ma i due si sono appena lasciati, perché Julio ha tradito Rebecca con una rifugiata palestinese, dirante un'operazione militare. Rebecca non sa cosa fare del suo futuro, tornare negli USA sarebbe una sconfitta, ma in Israele non conosce nessuno. Casualmente, entra nel taxi di Hanna, una donna ebrea che deve recarsi con una certa urgenza nella free zone tra i confini di Giordania, Arabia Saudita, Siria e Iraq, per una questione di denaro. Rebecca, che non ha dove andare, decide di andare con lei, vincendo le resistenze di Hanna. Nella free zone, luogo dove il mercato nero la fa da padrone, e di conseguenze le attività losche, le due donne si incontrano con Leila, un'araba-palestinese che funge da riferimento per le attività del marito di Hanna. In realtà, Hanna cercava un palestinese soprannominato L'americano, che ha dei soldi da darle; quindi, Hanna costringe Leila a condurla nell'oasi dove dovrebbe trovarsi L'americano. Ma quando vi arrivano...
Nonostante diverse critiche negative (ma pure qualche candidatura ed un premio, a Cannes, ad Hanna Laslo, che interpreta Hanna), questo film mi ha intrigato, mi è piaciuto, e lo ricordo con nitidezza, a dispetto dei mesi passati dalla sua visione. Gitai, anche sceneggiatore insieme alla collaboratrice storica Marie-Jose Sanselme, così come in molti altri suoi film, riesce ad essere drammatico, ma pure a tirare fuori i lati positivi della vicinanza pericolosa delle culture arabe e ebraiche, ed è sempre bravo a trasmettere emozioni. Questo Free Zone è un road movie femminile teso, vibrante e magnificamente interpretato da un terzetto delle meraviglie, che ci trasporta in un non-luogo affascinante che mette paura al tempo stesso, facendoci davvero viaggiare solo con lo sguardo. Non è poco.
Oltre alla già citata Hanna Laslo, comica israeliana, le altre due protagoniste sono la sempre splendida Hiam Abbass nei panni di Leila, e la meravigliosa Natalie Portman (che, forse non lo sapete, ma è ebrea e nata proprio a Gerusalemme) nella parte di Rebecca: la scena del suo pianto sulle note del traditional ebraico Had Gadia (che noi conosciamo per la sua coverizzazione da parte di Angelo Branduardi in Alla fiera dell'est) è a dir poco devastante, e la sua parte è quella che "subisce" una trasformazione psicologica, che l'attrice è brava a dipingere con la sua prova.
Completano il cast Carmen Maura (Mrs. Breitberg, la madre dell'ex fidanzato di Rebecca) e Makram Koury (L'americano), già in House of Saddam, Il giardino di limoni, Miral, Munich, The West Wing, La sposa siriana.
Gerusalemme. Una giovane ragazza piange. E' Rebecca, ebrea/statunitense che vive qui da qualche mese, insieme al suo fidanzato Julio, spagnolo di origini ebraiche. Ma i due si sono appena lasciati, perché Julio ha tradito Rebecca con una rifugiata palestinese, dirante un'operazione militare. Rebecca non sa cosa fare del suo futuro, tornare negli USA sarebbe una sconfitta, ma in Israele non conosce nessuno. Casualmente, entra nel taxi di Hanna, una donna ebrea che deve recarsi con una certa urgenza nella free zone tra i confini di Giordania, Arabia Saudita, Siria e Iraq, per una questione di denaro. Rebecca, che non ha dove andare, decide di andare con lei, vincendo le resistenze di Hanna. Nella free zone, luogo dove il mercato nero la fa da padrone, e di conseguenze le attività losche, le due donne si incontrano con Leila, un'araba-palestinese che funge da riferimento per le attività del marito di Hanna. In realtà, Hanna cercava un palestinese soprannominato L'americano, che ha dei soldi da darle; quindi, Hanna costringe Leila a condurla nell'oasi dove dovrebbe trovarsi L'americano. Ma quando vi arrivano...
Nonostante diverse critiche negative (ma pure qualche candidatura ed un premio, a Cannes, ad Hanna Laslo, che interpreta Hanna), questo film mi ha intrigato, mi è piaciuto, e lo ricordo con nitidezza, a dispetto dei mesi passati dalla sua visione. Gitai, anche sceneggiatore insieme alla collaboratrice storica Marie-Jose Sanselme, così come in molti altri suoi film, riesce ad essere drammatico, ma pure a tirare fuori i lati positivi della vicinanza pericolosa delle culture arabe e ebraiche, ed è sempre bravo a trasmettere emozioni. Questo Free Zone è un road movie femminile teso, vibrante e magnificamente interpretato da un terzetto delle meraviglie, che ci trasporta in un non-luogo affascinante che mette paura al tempo stesso, facendoci davvero viaggiare solo con lo sguardo. Non è poco.
Oltre alla già citata Hanna Laslo, comica israeliana, le altre due protagoniste sono la sempre splendida Hiam Abbass nei panni di Leila, e la meravigliosa Natalie Portman (che, forse non lo sapete, ma è ebrea e nata proprio a Gerusalemme) nella parte di Rebecca: la scena del suo pianto sulle note del traditional ebraico Had Gadia (che noi conosciamo per la sua coverizzazione da parte di Angelo Branduardi in Alla fiera dell'est) è a dir poco devastante, e la sua parte è quella che "subisce" una trasformazione psicologica, che l'attrice è brava a dipingere con la sua prova.
Completano il cast Carmen Maura (Mrs. Breitberg, la madre dell'ex fidanzato di Rebecca) e Makram Koury (L'americano), già in House of Saddam, Il giardino di limoni, Miral, Munich, The West Wing, La sposa siriana.
20130511
the Gorilla's cure
La cura del gorilla - di Carlo Arturo Sigon (2006)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Sandrone detto Gorilla è un personaggio. Come ebbi già a dire, "è di sinistra ma disincantato (ex leoncavallino), difende i deboli ma accetta compromessi (lavora, anche sporco, per chi ha i soldi), scopa ma è sfigato. Il problema è che Gorilla soffre di uno strano Disturbo Dissociativo dell'Identità, che lo strema. Gorilla fa l'investigatore privato e all'occorrenza il buttafuori, è disordinato, ma quando si addormenta, quasi immediatamente cambia personalità, e si risveglia, con il solito corpo, ma con la personalità del Socio, il suo equivalente ma pignolo e precisissimo, ha altri "giri" rispetto al Gorilla, e i due comunicano lasciandosi dei bigliettini. Sandrone esce dall'ospedale, e fatica a riprendersi dall'ultimo "incidente", dovuto ad uno dei suoi lavori "borderline"; non riesce a star fermo, nella noiosissima Cremona, e accetta in lavoro investigativo sulla morte di un albanese. Visto che è in bolletta, accetta poi un altro lavoro, da un editore di Torino, che lo assume per la sorveglianza di un evento promozionale di bassissimo livello. Le due cose si mischieranno in una sorta di disastro globale.
Buon film del debuttante (rimasto tale, visto che non ha più diretto lungometraggi) Sigon, che partecipa alla stesura della sceneggiatura insieme a Pasquale Plastino (collaboratore di Verdone) e a Sandrone Dazieri, autore del libro omonimo (come pure degli altri libri che hanno per protagonista Sandrone detto Gorilla).
Claudio Bisio se la cava egregiamente nella doppia parte del Gorilla e del Socio, e un cast fornitissimo (Antonio Catania, Stefania Rocca, Kledi Kadiu, Bebo Storti, fantastico nella parte di Gipi, Gigio Alberti, ed Ernest Borgnine - Il mucchio selvaggio - in una partecipazione straordinaria); il film, a mio giudizio, rende abbastanza giustizia al fascino del libro e alla figura del Gorilla, anche se soffre di una certa staticità tutta italiana, che ovviamente penalizza un film teoricamente di azione. Più che discreta la fotografia.
Gli amanti di Dazieri, però, non rimarrano delusi. Sempre a mio parere.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Sandrone detto Gorilla è un personaggio. Come ebbi già a dire, "è di sinistra ma disincantato (ex leoncavallino), difende i deboli ma accetta compromessi (lavora, anche sporco, per chi ha i soldi), scopa ma è sfigato. Il problema è che Gorilla soffre di uno strano Disturbo Dissociativo dell'Identità, che lo strema. Gorilla fa l'investigatore privato e all'occorrenza il buttafuori, è disordinato, ma quando si addormenta, quasi immediatamente cambia personalità, e si risveglia, con il solito corpo, ma con la personalità del Socio, il suo equivalente ma pignolo e precisissimo, ha altri "giri" rispetto al Gorilla, e i due comunicano lasciandosi dei bigliettini. Sandrone esce dall'ospedale, e fatica a riprendersi dall'ultimo "incidente", dovuto ad uno dei suoi lavori "borderline"; non riesce a star fermo, nella noiosissima Cremona, e accetta in lavoro investigativo sulla morte di un albanese. Visto che è in bolletta, accetta poi un altro lavoro, da un editore di Torino, che lo assume per la sorveglianza di un evento promozionale di bassissimo livello. Le due cose si mischieranno in una sorta di disastro globale.
Buon film del debuttante (rimasto tale, visto che non ha più diretto lungometraggi) Sigon, che partecipa alla stesura della sceneggiatura insieme a Pasquale Plastino (collaboratore di Verdone) e a Sandrone Dazieri, autore del libro omonimo (come pure degli altri libri che hanno per protagonista Sandrone detto Gorilla).
Claudio Bisio se la cava egregiamente nella doppia parte del Gorilla e del Socio, e un cast fornitissimo (Antonio Catania, Stefania Rocca, Kledi Kadiu, Bebo Storti, fantastico nella parte di Gipi, Gigio Alberti, ed Ernest Borgnine - Il mucchio selvaggio - in una partecipazione straordinaria); il film, a mio giudizio, rende abbastanza giustizia al fascino del libro e alla figura del Gorilla, anche se soffre di una certa staticità tutta italiana, che ovviamente penalizza un film teoricamente di azione. Più che discreta la fotografia.
Gli amanti di Dazieri, però, non rimarrano delusi. Sempre a mio parere.
20130510
Kuf
Giudizio sintetico: si può vedere ma anche no (2,5/5)
Giudizio vernacolare: per capillo ci vole 'r libretto com'a teatro
Turchia rurale, oggi. Basri è un uomo anziano, impiegato delle ferrovie come controllore dei binari: chilometri e chilometri lungo i binari a controllare che sia tutto a posto, tutto in ordine. Vedovo da qualche anno, da 18 anni suo figlio, universitario ad Istanbul, è scomparso, durante le repressioni del regime turco negli anni '90. Basri, uomo di poche, pochissime parole, invaso da una tristezza senza fine, condannato a vivere per inerzia, da anni, ogni poco scrive due lettere, una alla Questura e una al Ministero, per avere notizie di suo figlio. Ascolta le notizie su una vecchia radiolina, mangia solo spesso in luoghi assurdi, lungo i binari, parla solo se interpellato. Le autorità sono scocciate. Il commissario locale gli fa spesso visita; quello nuovo, non perde occasione per convocarlo al commissariato, ed interrogarlo stancamente sulla ragione che spinge l'uomo a scrivere incessantemente, a non abbandonare la speranza. Nel contempo, qualche collega di Basri, in particolar modo Cemil, prende spunto dall'ossessione di Basri stesso per farne oggetto di scherno.
Il primo impulso che ho avuto, dopo aver visto Muffa, è stato quello di leggere altre recensioni. Tutte estremamente positive. Il secondo è stato chiedermi perché. Ecco, Muffa è uno di quei casi in cui si dubita fortemente della critica ufficiale, e che fa venire il sospetto che in pochi abbiano davvero visto il film; oppure, che sia uno di quei film dei quali si debba per forza parlare bene, magari perché lo distribuisce la Sacher di Nanni Moretti o perché è un film "politico". Vincitore del premio per la miglior opera prima, il film di debutto del turco Ali Aydin è debitore, a livello stilistico, di impostazione e di costruzione, senza dubbio verso Nuri Bilge Ceylan e pure verso il cinema iraniano, ma, a mio giudizio, manca della poesia ermetica che permea ad esempio tutte le opere di Ceylan, pur riprendendone alcuni attori (Ercan Kesal nella parte di Basri e Muhammet Uzuner nella parte del commissario) e qualche slancio paesaggistico (perfino alcune atmosfere molto somiglianti a C'era una volta in Anatolia). Ha inoltre il grave difetto di essere davvero troppo ermetico, e se non fosse per quei due pannelli introduttivi prima dell'inizio del film, non ci si capirebbe davvero niente. Poi c'è l'infinito problema del doppiaggio, che affligge qualsiasi opera audiovisiva, figuriamoci un film a basso costo e a distribuzione limitata come questo.
Molti recensori citano Dostoevskij, probabilmente a ragione, per il dolore ed il senso di colpa; certo è che il plot twist che genera il senso di colpa in Basri a me è parso un po' campato in aria. Era quindi chiaro anche al regista, anche sceneggiatore, che solo il dolore e la ricerca ossessiva del protagonista non poteva reggere l'intero film.
Bravi i due attori già citati, ma probabilmente ancor più bravo Tansu Bicer, intravisto in Sut di Kaplanoglu. Un film che mi ha lasciato alquanto dubbioso.
Giudizio vernacolare: per capillo ci vole 'r libretto com'a teatro
Turchia rurale, oggi. Basri è un uomo anziano, impiegato delle ferrovie come controllore dei binari: chilometri e chilometri lungo i binari a controllare che sia tutto a posto, tutto in ordine. Vedovo da qualche anno, da 18 anni suo figlio, universitario ad Istanbul, è scomparso, durante le repressioni del regime turco negli anni '90. Basri, uomo di poche, pochissime parole, invaso da una tristezza senza fine, condannato a vivere per inerzia, da anni, ogni poco scrive due lettere, una alla Questura e una al Ministero, per avere notizie di suo figlio. Ascolta le notizie su una vecchia radiolina, mangia solo spesso in luoghi assurdi, lungo i binari, parla solo se interpellato. Le autorità sono scocciate. Il commissario locale gli fa spesso visita; quello nuovo, non perde occasione per convocarlo al commissariato, ed interrogarlo stancamente sulla ragione che spinge l'uomo a scrivere incessantemente, a non abbandonare la speranza. Nel contempo, qualche collega di Basri, in particolar modo Cemil, prende spunto dall'ossessione di Basri stesso per farne oggetto di scherno.
Il primo impulso che ho avuto, dopo aver visto Muffa, è stato quello di leggere altre recensioni. Tutte estremamente positive. Il secondo è stato chiedermi perché. Ecco, Muffa è uno di quei casi in cui si dubita fortemente della critica ufficiale, e che fa venire il sospetto che in pochi abbiano davvero visto il film; oppure, che sia uno di quei film dei quali si debba per forza parlare bene, magari perché lo distribuisce la Sacher di Nanni Moretti o perché è un film "politico". Vincitore del premio per la miglior opera prima, il film di debutto del turco Ali Aydin è debitore, a livello stilistico, di impostazione e di costruzione, senza dubbio verso Nuri Bilge Ceylan e pure verso il cinema iraniano, ma, a mio giudizio, manca della poesia ermetica che permea ad esempio tutte le opere di Ceylan, pur riprendendone alcuni attori (Ercan Kesal nella parte di Basri e Muhammet Uzuner nella parte del commissario) e qualche slancio paesaggistico (perfino alcune atmosfere molto somiglianti a C'era una volta in Anatolia). Ha inoltre il grave difetto di essere davvero troppo ermetico, e se non fosse per quei due pannelli introduttivi prima dell'inizio del film, non ci si capirebbe davvero niente. Poi c'è l'infinito problema del doppiaggio, che affligge qualsiasi opera audiovisiva, figuriamoci un film a basso costo e a distribuzione limitata come questo.
Molti recensori citano Dostoevskij, probabilmente a ragione, per il dolore ed il senso di colpa; certo è che il plot twist che genera il senso di colpa in Basri a me è parso un po' campato in aria. Era quindi chiaro anche al regista, anche sceneggiatore, che solo il dolore e la ricerca ossessiva del protagonista non poteva reggere l'intero film.
Bravi i due attori già citati, ma probabilmente ancor più bravo Tansu Bicer, intravisto in Sut di Kaplanoglu. Un film che mi ha lasciato alquanto dubbioso.
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