Vinicio Capossela, 30/11/2008, Livorno, Teatro Goldoni
Affabulatore, questo è l’aggettivo che sento spesso usare per Capossela. Vorrei evitare di usarlo questa volta, prima di tutto perché senz’altro, senza rileggere, anch’io devo averlo usato spesso; in seconda battuta, perché nonostante la dimensione circense e spettacolare che Vinicio è riuscito a dare anche in questo tour, spingendosi ancora più in là rispetto al precedente, a supporto di Ovunque Proteggi (cosa che, francamente, non credevo fosse possibile), l’ho trovato pacificato, sobrio e lucido, nonostante non abbia perso la verve, e nonostante tutti continuino a notare (e sottolineare) i suoi vuoti di memoria, le sue incespicature (chissà se esiste oppure sto creando un neologismo), che io, invece, nella serata livornese ho letto come segni di una sincera timidezza.
Pubblico particolare, come, in parte, è ovvio che sia, per un artista che piace ad un pubblico mediamente adulto; gente ben vestita (o almeno, così credono), coppie, e pure famiglie con bambini. Visto che il concerto è in teatro, resiste la concezione tutta italiana e tutta provinciale, che a teatro si debba andare ben messi, o addirittura per sfoggiare: ho visto con i miei occhi persone che normalmente non si metterebbero mai una camicia, indossarne una per l’occasione e metterci sopra addirittura un pulloverino. Chissà che ne penserebbe Vinicio. Non c’entra niente, ma nel foyer vedo il mago Christopher aggirarsi nei pressi del banchetto del merchandising.
Sold Out da giorni, mi ritrovo un posto favoloso in terza fila laterale (posizione che preferisco anche al cinema), per il quale ringrazio ancora oggi e pubblicamente l’amica Susy. Si inizia in orario, e si intuisce che: lo spettacolo si dividerà in due parti, la prima sarà leggermente più intimista e sarà composta praticamente dall’intero ultimo album, Da solo. Ed è un piacere perdersi tra le note di questo ulteriore tassello delicato ed intimo, ma pure politico, che la frenesia di questi tempi moderni non mi ha ancora permesso di metabolizzare appieno. Metto a fuoco, ad esempio, che Lettere di soldati è forse una delle prime canzoni di Vinicio apertamente su temi d’attualità, la introduce dicendo che è importante farla qui, vicino a Camp Darby e dopo gli ultimi eventi elettorali (statunitensi), con la speranza che “quel” qualcosa non debba più servire, confermo che Orfani ora è il mio pezzo preferito di questo nuovo lavoro (e chi pensa, o scrive con malizia, che ci sia un riferimento a Orphans di Tom Waits potrebbe anche riflettere sul fatto che si vive anche di modestia ed omaggi, non solo di autostima), me la rido di gusto mentre strimpella Una giornata perfetta e penso a Carosone, finalmente vedo Chinaski (Vincenzo Costantino) all’opera, che legge una poesia riferita a “loro due” per introdurre In clandestinità, ho ancora il tempo per domandarmi come un musicista che riesce a scrivere una cosa come Il paradiso dei calzini non sia riconosciuto come bene nazionale, e insomma, cose così. All’appello manca solo Sante Nicola, ma mica si può avere tuttotutto. Vinicio cambia cappello, i suoi musicisti cambiano strumenti, lui pure, e mantiene le promesse e le premesse, suonando strumenti, principalmente a tasti, anche imprevedibili, improponibili e mai visti. Inconsistenti, appunto. Parla poco, in questa prima parte, quanto basta, e arriva sempre al cuore. Ispira un misto tra tenerezza e ilarità, per come si propone sottovoce e per le battute che fa, per i temi apparentemente nonsense e per il tono con cui li introduce e introduce, tramite loro, i pezzi.
L’intermezzo tra questa prima parte e la seconda è appannaggio del mago Christopher Wonder, ormai una componente fissa del “circo” di Vinicio, e della sua assistente Jessica Love, iper-tatuata ma con classe e gambe davvero lunghe. Si sorride, dapprima poco poco, fino a divertirsi sul serio. Una quindicina di minuti, più o meno.
Ecco che gli sfondi del palco si riempiono, e si colorano. Ci sono i disegni da freak-show di Davide Toffolo, dei Tre Allegri Ragazzi Morti (ma anche fumettista), che diventeranno realtà ed usciranno dai testi. Ed ecco che si rivolge lo sguardo al passato, prossimo e remoto. Si movimenta la serata, si va di polka e cha cha cha. I collaboratori montano una gabbia illuminata, dove il protagonista via via sarà rinchiuso; Vinicio sottolinea che la gabbia è un po’ come quella che, più o meno dal 1994, ci stanno costruendo intorno dicendoci che va tutto bene. C’è il palombaro su Canzone a manovella (pubblico che davvero soffre le poltrone del teatro, trascinante versione), c’è il Minotauro con i campanacci (l’avevamo già visto nel tour di Ovunque Proteggi) su Brucia troia, la medusa su (ovviamente) Medusa cha cha cha, c’è "The Human Pignata" (ancora Wonder, con due collaboratori mascherati da wrestlers messicani – o meglio, due luchadores - che lo percuotono mentre lui con la camicia di forza, o meglio con “the pazzo jacket“ – una camicia di forza - si libera, appeso naturalmente per i piedi, alla Houdini) su L’uomo vivo, c’è una versione emozionante di Con una rosa, una Che coss’è l’amor in Calexico-style, una coinvolgente Marajà, un’omaggio sentito a Livorno (città, dice lui, tra le poche dove si riesce a trovare la birra Ichnusa, tra le altre cose) con una toccante Modì (a questo proposito, credo che nei limiti del possibile Capossela renderà omaggio alle città dove suonerà in questo modo, tanto è vero che la sera dopo, al Teatro del Giglio di Lucca ha eseguito Un bel dì vedremo…della Butterfly, spiegando e commentando il testo, e scherzando su Puccini però con grande rispetto), fino a chiudere con i musicisti che suonano in piedi attorno a lui alla tastiera, a mo’ di banda, mentre dentro la gabbia ci sono un uomo, una donna e una bambina, scelti da Vinicio in mezzo al pubblico, ai quali è stato offerto del vino bianco (la bambina, alla quale invece è stato offerto un succo, dopo un pezzo si è messa a piangere, ed è stata “liberata” da Wonder, siparietto gustoso), e la band che esegue All’1,35 circa.
Tripudio, ma non è tutto. Dato che il concerto rientrava nel Premio Ciampi, i due organizzatori salgono sul palco, ringraziano, richiamano Vinicio, gli dedicano parole importanti, lo premiano con una targa, lui ringrazia e si impappina visibilmente emozionato, e regala un altro pezzo, insieme alla band. E non un pezzo qualsiasi, e nemmeno un pezzo suo. Dopo oltre due ore, suona e soprattutto canta Adius di Piero Ciampi. Ed io rido, ma piango pure.
Chioso e chiudo velocemente, senza lanciarmi in paragoni, riferimenti, sproloqui vari. Vinicio Capossela è un vero artista, sta lanciandosi “da solo” delle sfide ormai da anni, e le sta vincendo tutte. Nonostante sia nato ad Hannover, dovremmo essere orgogliosi di essere suoi compatrioti. Secondo me all’estero ce lo invidiano. Una delle poche cose che sono rimaste da invidiarci.
Affabulatore, questo è l’aggettivo che sento spesso usare per Capossela. Vorrei evitare di usarlo questa volta, prima di tutto perché senz’altro, senza rileggere, anch’io devo averlo usato spesso; in seconda battuta, perché nonostante la dimensione circense e spettacolare che Vinicio è riuscito a dare anche in questo tour, spingendosi ancora più in là rispetto al precedente, a supporto di Ovunque Proteggi (cosa che, francamente, non credevo fosse possibile), l’ho trovato pacificato, sobrio e lucido, nonostante non abbia perso la verve, e nonostante tutti continuino a notare (e sottolineare) i suoi vuoti di memoria, le sue incespicature (chissà se esiste oppure sto creando un neologismo), che io, invece, nella serata livornese ho letto come segni di una sincera timidezza.
Pubblico particolare, come, in parte, è ovvio che sia, per un artista che piace ad un pubblico mediamente adulto; gente ben vestita (o almeno, così credono), coppie, e pure famiglie con bambini. Visto che il concerto è in teatro, resiste la concezione tutta italiana e tutta provinciale, che a teatro si debba andare ben messi, o addirittura per sfoggiare: ho visto con i miei occhi persone che normalmente non si metterebbero mai una camicia, indossarne una per l’occasione e metterci sopra addirittura un pulloverino. Chissà che ne penserebbe Vinicio. Non c’entra niente, ma nel foyer vedo il mago Christopher aggirarsi nei pressi del banchetto del merchandising.
Sold Out da giorni, mi ritrovo un posto favoloso in terza fila laterale (posizione che preferisco anche al cinema), per il quale ringrazio ancora oggi e pubblicamente l’amica Susy. Si inizia in orario, e si intuisce che: lo spettacolo si dividerà in due parti, la prima sarà leggermente più intimista e sarà composta praticamente dall’intero ultimo album, Da solo. Ed è un piacere perdersi tra le note di questo ulteriore tassello delicato ed intimo, ma pure politico, che la frenesia di questi tempi moderni non mi ha ancora permesso di metabolizzare appieno. Metto a fuoco, ad esempio, che Lettere di soldati è forse una delle prime canzoni di Vinicio apertamente su temi d’attualità, la introduce dicendo che è importante farla qui, vicino a Camp Darby e dopo gli ultimi eventi elettorali (statunitensi), con la speranza che “quel” qualcosa non debba più servire, confermo che Orfani ora è il mio pezzo preferito di questo nuovo lavoro (e chi pensa, o scrive con malizia, che ci sia un riferimento a Orphans di Tom Waits potrebbe anche riflettere sul fatto che si vive anche di modestia ed omaggi, non solo di autostima), me la rido di gusto mentre strimpella Una giornata perfetta e penso a Carosone, finalmente vedo Chinaski (Vincenzo Costantino) all’opera, che legge una poesia riferita a “loro due” per introdurre In clandestinità, ho ancora il tempo per domandarmi come un musicista che riesce a scrivere una cosa come Il paradiso dei calzini non sia riconosciuto come bene nazionale, e insomma, cose così. All’appello manca solo Sante Nicola, ma mica si può avere tuttotutto. Vinicio cambia cappello, i suoi musicisti cambiano strumenti, lui pure, e mantiene le promesse e le premesse, suonando strumenti, principalmente a tasti, anche imprevedibili, improponibili e mai visti. Inconsistenti, appunto. Parla poco, in questa prima parte, quanto basta, e arriva sempre al cuore. Ispira un misto tra tenerezza e ilarità, per come si propone sottovoce e per le battute che fa, per i temi apparentemente nonsense e per il tono con cui li introduce e introduce, tramite loro, i pezzi.
L’intermezzo tra questa prima parte e la seconda è appannaggio del mago Christopher Wonder, ormai una componente fissa del “circo” di Vinicio, e della sua assistente Jessica Love, iper-tatuata ma con classe e gambe davvero lunghe. Si sorride, dapprima poco poco, fino a divertirsi sul serio. Una quindicina di minuti, più o meno.
Ecco che gli sfondi del palco si riempiono, e si colorano. Ci sono i disegni da freak-show di Davide Toffolo, dei Tre Allegri Ragazzi Morti (ma anche fumettista), che diventeranno realtà ed usciranno dai testi. Ed ecco che si rivolge lo sguardo al passato, prossimo e remoto. Si movimenta la serata, si va di polka e cha cha cha. I collaboratori montano una gabbia illuminata, dove il protagonista via via sarà rinchiuso; Vinicio sottolinea che la gabbia è un po’ come quella che, più o meno dal 1994, ci stanno costruendo intorno dicendoci che va tutto bene. C’è il palombaro su Canzone a manovella (pubblico che davvero soffre le poltrone del teatro, trascinante versione), c’è il Minotauro con i campanacci (l’avevamo già visto nel tour di Ovunque Proteggi) su Brucia troia, la medusa su (ovviamente) Medusa cha cha cha, c’è "The Human Pignata" (ancora Wonder, con due collaboratori mascherati da wrestlers messicani – o meglio, due luchadores - che lo percuotono mentre lui con la camicia di forza, o meglio con “the pazzo jacket“ – una camicia di forza - si libera, appeso naturalmente per i piedi, alla Houdini) su L’uomo vivo, c’è una versione emozionante di Con una rosa, una Che coss’è l’amor in Calexico-style, una coinvolgente Marajà, un’omaggio sentito a Livorno (città, dice lui, tra le poche dove si riesce a trovare la birra Ichnusa, tra le altre cose) con una toccante Modì (a questo proposito, credo che nei limiti del possibile Capossela renderà omaggio alle città dove suonerà in questo modo, tanto è vero che la sera dopo, al Teatro del Giglio di Lucca ha eseguito Un bel dì vedremo…della Butterfly, spiegando e commentando il testo, e scherzando su Puccini però con grande rispetto), fino a chiudere con i musicisti che suonano in piedi attorno a lui alla tastiera, a mo’ di banda, mentre dentro la gabbia ci sono un uomo, una donna e una bambina, scelti da Vinicio in mezzo al pubblico, ai quali è stato offerto del vino bianco (la bambina, alla quale invece è stato offerto un succo, dopo un pezzo si è messa a piangere, ed è stata “liberata” da Wonder, siparietto gustoso), e la band che esegue All’1,35 circa.
Tripudio, ma non è tutto. Dato che il concerto rientrava nel Premio Ciampi, i due organizzatori salgono sul palco, ringraziano, richiamano Vinicio, gli dedicano parole importanti, lo premiano con una targa, lui ringrazia e si impappina visibilmente emozionato, e regala un altro pezzo, insieme alla band. E non un pezzo qualsiasi, e nemmeno un pezzo suo. Dopo oltre due ore, suona e soprattutto canta Adius di Piero Ciampi. Ed io rido, ma piango pure.
Chioso e chiudo velocemente, senza lanciarmi in paragoni, riferimenti, sproloqui vari. Vinicio Capossela è un vero artista, sta lanciandosi “da solo” delle sfide ormai da anni, e le sta vincendo tutte. Nonostante sia nato ad Hannover, dovremmo essere orgogliosi di essere suoi compatrioti. Secondo me all’estero ce lo invidiano. Una delle poche cose che sono rimaste da invidiarci.
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