No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20060305
Colombia gen 06 - 41
Holiday in Colombia 25
29/1/2006 Popayan e la pastilla contra la resaca
Mi sveglio tardi, e mi sembra di stare bene. Scendo dal letto e d’improvviso ho come l’impressione che gli Stomp o i Tambours du Bronx tutti insieme stiano usando la mia testa come percussione aggiuntiva. Per giunta, accendo il cellulare e mi arriva la notizia che il Livorno ha perso 3 a 0 all’Olimpico contro la Roma; siamo in crisi. Io e il Livorno. Chiedo aiuto a Juli; già in Argentina, da lei, dai suoi amici e dai suoi fratelli, avevo sentito parlare di alcuni prodotti per la resaca, il termine castigliano per definire il doposbornia. E so che Juli ne ha con sè. Ne faccio uso: si chiama Alikal, e mi riprometto di sincerarmi se esiste in Italia. Ci eravamo già convinti, ma decidiamo di andarcene da Cali e di viaggiare immediatamente per Popayan. Inutile girarci intorno, oggi è il 29 gennaio, e il 4 febbraio abbiamo il volo di ritorno da Bogotà a Buenos Aires. Dobbiamo stringere i tempi e vedere il più possibile. Ci prepariamo velocemente, saldiamo il conto dell’hostel, usciamo, fermiamo un taxi e ci facciamo portare al terminal degli autobus. Ci sono diverse opzioni per Popayan, alla fine Juli contrattando duramente strappa un ottimo prezzo per viaggiare su un mini bus da sette posti. Si parte a mezzogiorno e dovremo farcela ad essere a Popayan prima del tramonto. Abbiamo il tempo per cercare un internet point dentro il terminal e scaricare la posta. Ci ripresentiamo al bus con qualche minuto di anticipo, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, alla fine partiremo con quasi mezz’ora di ritardo, si attende che i posti si esauriscano. Inganno l’attesa fissando, da sotto le lenti scure, la ragazza di un tipo che sta per salire sul nostro bus. Lui porta la maglia del Milan, lei porta il top del Naciónal di Medellín biancoverde, e se fosse dieci centimetri più alta potrebbe fare tranquillamente la modella. Sono entrambi mulatti, così come la bambina, sui quattro anni. L’autista sembra uscito da un western di Sergio Leone, ma è vestito in divisa da autista (pantaloni neri e camicia bianca) e guida aggressivo (non è un’eccezione, ma forse l’avrete capito). Ci mettiamo un po’ ad uscire dalla città, c’è anche da fare rifornimento. Dopo, la strada scorre piuttosto bene, è una delle migliori, piuttosto larga, senza moltissime salite. Ce la caviamo in poche ore, quasi non ci siamo più abituati a viaggi corti. Il terminal di Popayan è proporzionato alla cittadina, piuttosto piccola, telefoniamo all’hostel che ci ispira, prenotiamo due posti letto, poi tentiamo di farci dire dove siamo usando la mappa della guida, ma ci rendiamo conto che o non ce lo vogliono dire, o nessuno lo sa (propendiamo più per quest'ultima ipotesi). Un po’ scocciati, prendiamo un taxi, e il percorso che facciamo per arrivare all’hostel ci sembra davvero breve. Tra l’altro, ricontrollando la mappa, noto che il terminal si vede benissimo, così come l’ubicazione dell’hostel dove siamo alloggiati, e si vede anche a occhio che il percorso è breve. Buono a sapersi per quando ripartiremo. Ci sistemiamo, l’hostel è economico, ma anche questo no tiene onda, inoltre per usare la cucina devi pagare un extra. Usciamo immediatamente, le tre del pomeriggo passate da poco, ne approfittiamo, siamo già quasi convinti di andarcene domani da qui (e siamo appena arrivati), a meno che non troviamo qualche agenzia che propone escursioni interessanti nei dintorni.
Sarà perché è domenica, sarà che siamo al sud, sarà che la città è piccola, fatto sta che giriamo a vuoto per almeno un’ora senza trovare un posto dove si possa mangiare, e fate conto che siamo praticamente digiuni da ieri. Io anche di più, visto la fine che ha fatto il contenuto del mio stomaco ieri notte. Gira che ti rigira, troviamo qualcosa, e ci sembra fantastico. Alla tele una rete colombiana manda in onda un programma tipo TRL di mtv, ma ancora peggio, riconosco il palazzo di Bogotà dove ha sede questa rete. A pancia piena abbiamo tutto il tempo di completare il giro completo di Popayan, ovviamente completamente coloniale. Qualche palazzo degno di uno sguardo, il bianco che la fa da padrone (scoprirò poi che viene chiamata anche la ciudad blanca, non per niente), il “monumento” più importante si trova però alle porte della cittadina, e a dire la verità sono due, una coppia di ponti costruiti in momenti diversi; il più vecchio è chiamato puente del humilladero, perché era talmente ripido che chi lo attraversava non poteva evitare di abbassare la testa. Quello grande, costruito su 12 arcate, fu progettato da un ingegnere italiano, un frate francescano nato come Giovanni Beretti vicino a Novara, poi diventato Serafín Beretti. Oggettivamente, a chi è nato e cresciuto in Italia, non è che queste cose facciano venire la pelle d’oca, ma bisogna accettare che la storia del Sud America è ripartita praticamente da zero a partire dal 1492. E un po’ è anche colpa nostra. Continuiamo il giro di Popayan, anche se ho l’impressione di ripassare in posti già visti, e incontriamo un inglese già visto durante uno spostamento in bus, poi di sfuggita al Palm Tree a Medellín. Scambiamo un saluto, e scopriamo che è nel nostro stesso hostel. Appena ci lascia, concordiamo sul fatto che ha qualcosa che non va. Difficile da descrivere, ma osservandolo giù sul bus ne avevo avuto l’impressione. Tra le altre cose, balbetta, ma questo non significherebbe granchè. Però ti dà l’idea di essere un tipo talmente dimesso, che potrebbe essere un serial killer. Tramonta il sole, rientriamo all’hostel per una doccia e un po’ di riposo. Ho il letto accanto all'inglese, e mi accorgo che fa anche dei versi stranissimi quando tenta di dormire. Alle otto passate, devo svegliare Juli che si era addormentata come un sasso. Usciamo per mangiare un po', sperando di trovare qualcosa aperto. Troviamo una pizzeria, e, come potrete supporre, è vuota. Però, dopo 5 minuti che stiamo dentro, entrano due signore. Magari aspettavano che ci fosse qualcuno. Non abbiamo molta fame (oggi abbiamo pranzato tardi), quindi ci mangiamo una pizza (grande) in due, solo che, nonostante ci sia scritto sul menù, non hanno birra. Strano. Ci accontentiamo di una coca cola e una sprite. Terminiamo chiacchierando allegramente, si cominciano a tirare le somme del viaggio in definitiva, usciamo in cerca di una birra. Impresa titanica, e oggettivamente impossibile. In giro, pochissima gente. Tutto chiuso, completamente. Dopo aver fatto come i metronotte, girando a vuoto per un po’, e aver verificato che la sola musica che si sente in giro era quella proveniente dalla casa di uno che provava uno strumento, e che non c’è verso di bere non solo una birra, ma nemmeno una coca cola, ci sediamo su una panchina nella piazza principale, e mentre mi fumo l’ultima sigaretta, pianifichiamo velocemente il programma del giorno seguente, poi riprendiamo i nostri discorsi sui massimi sistemi. Visto che andremo a letto presto, ci sveglieremo presto, raccoglieremo i nostri pochi bagagli, andremo al terminal a piedi, prenderemo l’autobus più conveniente e ce ne andremo a San Agustín. Perfetto. Qui, ormai, non c’è nient’altro da vedere. Però ci siamo stati.
Penso a questa mattina, e a come stavo ieri sera. Mi sembrano passati anni luce, e invece non sono passate neppure 24 ore.
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