No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20060319
hai trovato le tue indie, John?
The New World – Il nuovo mondo – di Terrence Malick 2006
Nel 1607, gli inglesi sbarcano sulle coste della Virginia, per fondarvi la città di Jamestown. Tra di loro, agli arresti per un tentativo di ammutinamento, il capitano John Smith, valoroso e indomito esploratore, assetato più di conoscenza che di gloria e ricchezza, men che meno di sangue altrui. La zona è abitata dai nativi Powhatan, che diffidano dei bianchi. Inviato in ricognizione insieme ad altri uomini, Smith viene catturato dai nativi. Unico sopravvissuto, viene risparmiato grazie all’intercessione di una delle figlie del capo tribù, la bella Pocahontas. Tra di loro nasce un amore intenso, travolgente ma delicato, fortissimo. Le tensioni tra bianchi e nativi, però, osteggia l’amore, e Smith, tornato a Jamestown e quasi obbligato ad assumere il comando della cittadina, abbandona i sogni d’amore. Pocahontas salva tutta Jamestown, in un periodo di freddo intenso, portando insieme alla sua corte cibo e coperte ad una comunità ormai alla disperazione, ma questo, invece di far volgere la storia al meglio, crea diffidenza in lei da parte della tribù. La principessa infatti viene allontanata dai suoi, e finisce per tornare a Jamestown quando l’amato Smith cade in disgrazia. Conscio delle enormi difficoltà, e spinto dalla fregola esploratrice, Smith parte per mare e fa dire alla sua bella che è morto annegato. Pocahontas è disperata, e si chiude in se stessa. La salverà il colono John Rolfe, tenace e gentile, che la accudirà, la amerà in silenzio, la sposerà cosciente che lei non lo ama, e sopporterà perfino il fatto che Smith non è morto.
Malick non è un genio come Kubrick, ma il suo modo di fare cinema gli si avvicina molto. Questo film è una sinfonia messa in immagini, se è vero che quasi tutti i più importanti critici cinematografici sostengono che vada visto almeno due volte.
Certo, ci vuole impegno e predisposizione per mettersi davanti a questo suo lavoro, come per tutti gli altri, e anche se probabilmente non è il suo migliore, questo film è una spanna sopra al 90% delle produzioni che arrivano nelle sale normalmente.
L’uso della voce fuori campo, caratteristica fondamentale della cinematografia dello schivo regista (altro segno di distinzione assolutamente apprezzabile, in questo panorama di presenzialismo forzato), è padroneggiata in maniera sublime, e, a differenza di tutti gli altri registi che provano ad usarla, e si scottano, in lui trova la dimensione più alta e poetica, creando una simbiosi profonda e a volte catartica, tra lo spettatore e i protagonisti, tre, Smith, Pocahontas e Rolfe, che “pensano” attraverso il sistema “voice-off”.
La fotografia, premiata con l’Oscar, unita ai magistrali movimenti di macchina, ci accompagnano attraverso la scoperta, appunto, del nuovo mondo, con occhi vergini e duali, da una parte (i bianchi, gli uomini) e dall’altra (i nativi, la donna). L’amore, motore immobile della trama, viene illustrato nelle sue diverse sfaccettature, delicato e platonico, almeno apparentemente, quello di Smith e di Pocahontas (qui, forse, Malick eccede nelle scene di tenerezza bucolico-amorosa, ma la vogliamo leggere come una esagerazione funzionale alla creazione di un rapporto che sarà tanto più intenso quanto lacerante al momento dell’abbandono), paziente, tenace ed interamente dedicato quello di Rolfe, passionale, travolgente, feroce ma affrontato con enorme dignità fino in fondo, quello della giovanissima principessa nativa americana.
I sottotesti, volendo, infiniti. Se lo Scorsese di “Gangs of New York” parte, appunto, dalla grande mela, Malick parte da più lontano ancora, e ci accusa tutti quanti, mettendoci metaforicamente dentro al fortino assediato di Jamestown.
Cast con alti e bassi, anche se la direzione è impeccabile. Per un Bale diligente e dal basso profilo, ci pare di vedere un Farrell che, al cospetto di una leggenda come Malick, perde la sua grande occasione; ci appare come un attore bellissimo, ma monoespressivo. Grandissima e lungimirante, invece, la scommessa vinta ingaggiando la sedicenne Q’Orianka Kilcher (all’epoca della lavorazione ne aveva 15), tedesca di sangue Quechua, molto brava, leggiadra, sensuale, intensa, deliziosa nella sua bellezza imperfetta, androgina, meticcia e morbosa. Uno spettacolo, insomma.
Lezione di cinema.
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