Volbeat + Iced Earth, venerdì 11 ottobre 2013, Trezzo sull'Adda, Live Club
foto di Giles Smith
Quasi due anni erano passati dall'ultimo concerto di cui vi avevo parlato, e poco meno dall'ultimo visto (un Capossela visto due volte al Verdi di Firenze nel giro di otto mesi, l'ultima delle quali nel dicembre del 2011): il fisico spossato e dolorante, nonostante sia rimasto fermo e lontano dalla bolgia per tutta la sera, a differenza dei miei due pards, Filo e Monty, mi spiega senza troppe parole il perché di questa scelta.
Però sono contento di aver rotto il digiuno per questa band, e con questa compagnia. C'è di che ringraziare ancora una volta Monty, per aver insistito sui danesi (i Volbeat si formano a Copenaghen nel 2001), che fino a pochi mesi fa non conoscevo affatto, e mi ha fatto una certa impressione la compagnia "aggiunta", oltre ai dinosauri già citati prima: i due nipoti di Filo, che avevo visto bambini e che adesso sono due omoni, e due loro amici, tra cui una giovanissima chitarrista. La qual cosa mi ha fatto riflettere, oltre alla solita impressione di essere anziano, e mi ha fatto pensare a quella frase che, un po' scherzando, un po' no, avevo detto tanti anni fa all'amico Robi parlando di musica (e lui ancora oggi spesso se ne ricorda): "un giorno, il metallo conquisterà il mondo". E così, in parte, è stato.
Tagliamo la parte iniziale, di abbracci, convenevoli, felicità di ritrovarsi ogni tanto e piacere per facce nuove o seminuove, e arriviamo al Live Club (ragazzi, la scelta di parcheggiare al di là del cavalcavia si è rivelata strategica per l'uscita dal parcheggio, meditiamoci su per un'eventuale altra volta), un locale del quale avevo sentito spesso parlare ma nel quale non ero mai stato. Interessante, capace di contenere forse un paio di migliaia di persone, e che quando arriviamo è già gremito, nonostante ci sia da aspettare oltre un'ora per vedere i Volbeat calcare le assi del palco. Come già annotato nel recente passato, il metallaro-tipo di questi anni è ormai lontano dalla facce truci alle quali mi ero abituato vent'anni fa, quelle che poi erano cominciate a cambiare con l'avvento della grunge era, e che si mischiavano ai fan dell'alternative rock in seguito. Sempre più ragazze, e naturalmente ormai tatuaggi come se piovesse, nessuno che si stupisce più per spettatori non abbigliati in nero, borchie solo opzionali. Eppure, c'è un cuore di metallo che batte dentro tutti i presenti. Vediamolo.
Con precisione oserei dire svizzera, alle 22,00 salgono sul palco gli statunitensi Iced Earth. Ora, la band, ci dice Wikipedia, è attiva dal 1984, e fa dischi dal 1990. Io, forse colpevolmente, non li avevo mai sentiti nominare. Attraverso innumerevoli cambi di formazione, il fondatore, nonché unico membro superstite Jon Schaffer, ha attraversato quindi quasi 30 anni di heavy metal, e possiamo dire che è praticamente rimasto a trent'anni fa, con solo dei piccolissimi aggiustamenti. Ecco perché, ai miei occhi, e anche a quelli dei pards, ma non ad una discreta accolita presente al concerto, gli Iced Earth risultano fuori tempo (in senso figurato, anche se, ad essere pignoli, il batterista si rivela davvero poco esperto) e addirittura ridicoli; fastidiosissimo il falsetto del cantante Stu Block, che a giudicarlo dal fondo della sala, avrebbe avuto bisogno pure di uno shampoo (a dire la verità, risultano anche stucchevoli i continui riferimenti ai Volbeat, ma anche qui, è probabile che esageri io: niente vieta che tra le due band si sia creata una bella atmosfera in tour, unita ad un rispetto professionale reciproco). Non malaccio un paio di ballate, a dire il vero. Massimo rispetto, però, per il cuore di metallo di Schaffer e per l'impegno dei suoi scudieri: per chi cerca l'iconografia e tutto l'armamentario gestuale e rituale dell'heavy metal, gli Iced Earth sono consigliati.
Suonano per circa 50 minuti, e, stando alle note ufficiali del sito del Live Club, l'inizio del concerto degli headliner è previsto per le 23,15, quindi dopo 25 minuti. Si assiste al cambio palco e al ritocco del soundcheck, ma l'attesa si prolunga di quasi 10 minuti extra. Poi, le luci si spengono, e si illumina il palco vuoto, corredato da telone sullo sfondo e da disegni sugli ampli che richiamano quelli delle copertine della band. Parte Born to Raise Hell degli immarcescibili Motorhead, e come introduzione non c'è male. Mi spiazza il fatto che venga fatta suonare praticamente tutta. Parte l'Intro dell'ultimo disco, Outlaw Gentlemen & Shady Ladies, ma siamo ancora su basi registrate. E, alla fine, dopo oltre cinque minuti di manfrina, ecco che partono davvero: a sorpresa, almeno per me, apre Hallelujah Goat dal terzo disco, Guitar Gangsters & Cadillac Blood (2008), immediatamente seguita dalla title track di quello stesso disco, quindi un'apertura "vecchia" di un paio di dischi, ma decisamente d'effetto. Suoni perfetti, mixati di lusso, chitarre taglienti come da copione, la voce di Michael che dà subito l'impressione di essere all'altezza (era una delle cose che aspettavo con più ansia). Un attimo che si tira il fiato e poi via subito con Radio Girl, un passo ancora più indietro (Rock the Rebel/Metal the Devil, 2007), un pezzo che ci ricorda un'altra delle "sfaccettature" dei Volbeat, il punk rock arioso alla Misfits. Ecco quindi la prima delle ultime (Outlaw Gentlemen, 2013), la bella The Nameless One. Mi chiedo come possa Rob Caggiano, il lead guitarist, l'ultimo acquisto della band, ex Anthrax ["come potete vedere, siamo gli Anthrax con tre nuovi membri!", scherza Poulsen; curioso, io che ho seguito gli Anthrax degli inizi, per poi abbandonarli dopo Sound of the White Noise (1993), di lui non ne avevo mai sentito parlare fino a che non ho conosciuto i Volbeat], stare sul palco con un cappello a cuffia (potrà pure essere di cotone e leggero quanto volete, ma dopo un paio d'ore con qualcosa sul capo sotto le luci del palco probabilmente ti troverai in testa un allevamento di porcini o qualcosa di simile). Fa il suo ingresso sul palco una chitarra acustica con relativo supporto (per permettere a chi la suona di non "staccarsi" da quella elettrica), e Michael accenna Ring of Fire di Johnny Cash (dovevo proprio specificarlo?), lasciando poi cantare il pubblico. Grande risposta della platea, e il ragazzone si esalta.
continua domani
2 commenti:
Hellyeah, man!
devo prima scrivere la mia, dopo leggo la tua. Sennò mi faccio influenzare.
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