Un articolo su una delle mie serie tv preferite, vista con occhio critico dal punto di vista politico. Per quanto mi piaccia la serie, e per quanto trovi il tono molto simile a quello dei teorici complottisti, mi è stato difficile non condividerlo. L'articolo è uscito su Jacobin, un trimestrale statunitense di tendenze sinistrorse, autodefinitosi "un magazine di cultura e polemica".
Da Internazionale nr. 1029.
La fiction al potere
di Deepa Kumar e Arun Kundnani
La terza stagione della serie tv Homeland è partita con ascolti da record. I creatori della serie, Alex Gansa e Howard Gordon, che in passato hanno lavorato alla serie 24, sono riusciti a elaborare una narrazione di successo per la guerra al terrore nell’era di Obama. Se 24 rifletteva lo stile da cowboy dell’amministrazione Bush, Homeland parla della guerra “intelligente” di Obama. Non c’è da stupirsi se il presidente degli Stati Uniti Barack Obama adora la serie. E pare che anche Dick Cheney, vicepresidente all’epoca di George W. Bush, l’abbia guardata, immedesimandosi con uno dei personaggi. Nel 2007 Cheney chiese al suo medico di scollegare il sistema wireless contenuto nel suo pacemaker come precauzione contro possibili attentati, anticipando di qualche anno la trama di Homeland.
Un rapporto antico
L’influenza delle agenzie governative statunitensi sui prodotti culturali e la loro capacità di determinare il modo in cui l’opinione pubblica percepisce l’apparato per la sicurezza nazionale hanno una storia lunga. Già negli anni trenta l’Fbi aveva istituito un ufficio per curare la propria immagine nel cinema e in seguito negli show di radio e tv. Altre agenzie governative – il dipartimento della difesa, l’esercito, la marina, l’aeronautica – hanno seguito il bureau su questa strada creando uffici che ottenessero in modo sistematico rappresentazioni favorevoli. Più recentemente, anche la Cia e il dipartimento per la sicurezza nazionale hanno seguito questa tendenza. Spesso queste campagne di pubbliche relazioni a favore dell’apparato di sicurezza nazionale includono un finanziamento indiretto. Nella sua analisi sulla raffigurazione degli arabi a Hollywood, lo studioso dei mezzi di comunicazione Jack Shaheen ha indicato una tipologia di film in cui gli arabi sono denigrati, tra cui True Lies e Decisione critica, che negli anni novanta hanno ricevuto attrezzature, personale e assistenza tecnica da parte del dipartimento della difesa. Da allora sono moltissimi i film e le serie tv che hanno dato nuovo lustro all’esercito e alle agenzie per la sicurezza nazionale, come Argo o la serie tv Jag.
L’incentivo per i produttori è che in cambio di qualche concessione sul piano del controllo editoriale, hanno la possibilità di girare in location particolari, usare impiegati governativi come comparse, avere accesso a consulenti tecnici, a immagini di repertorio o ad attrezzature costose, senza spendere un dollaro. Costa meno sottomettersi all’influenza del governo che noleggiare un sottomarino o una portaerei. Cinema e tv diventano arterie attraverso cui l’apparato di sicurezza nazionale fa circolare le sue ossessioni. Ma non è un rapporto unidirezionale. C’è anche un effetto opposto per cui film e serie che parlano di terrorismo e controterrorismo possono influenzare il mondo della politica. Il rapporto della commissione sull’11 settembre, pubblicato nel 2004, ha indicato in un “fallimento dell’immaginazione” il principale problema delle politiche di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Per prevenire attacchi terroristici in futuro sarebbe stato necessario trovare “un modo per praticare abitualmente, fino a incorporarlo nella burocrazia, l’esercizio dell’immaginazione”. Tom Clancy nel suo romanzo del 1994 Debito d’onore aveva immaginato che un Boeing 747 si andasse a schiantare sul campidoglio di Washington. Nella guerra al terrore, quindi, al fatto che le burocrazie degli apparati di sicurezza non sapessero immaginare le minacce possibili si poteva rimediare con la creatività degli sceneggiatori di Hollywood, che diventava, negli orizzonti del sistema per la sicurezza nazionale, importante come un quartier generale della difesa. Un primo caso documentato di questo doppio efetto si è veriicato proprio con la serie della Fox 24. In realtà la serie forniva alla nazione un briefing politico settimanale sulla miriade di minacce che gli Stati Uniti si trovano teoricamente a dover affrontare, e sui modi migliori per contrastarle. Joel Surnow, uno dei creatori della serie, ha raccontato alla giornalista Jane Mayer: “L’America vuole che sia Jack Bauer a combattere la guerra al terrore. Lui è un patriota”. Dal momento che la principale tattica usata da Jack Bauer, protagonista della serie 24, è la tortura, le implicazioni di questa dichiarazione erano piuttosto chiare. Nell’autunno del 2002 i legali del governo responsabili dell’autorizzazione di nuove tecniche di interrogatorio ebbero la sensazione che la seconda stagione di 24, in onda in quel periodo, fosse un via libera per l’approvazione di tecniche di tortura fino a quel momento considerate fondamentalmente immorali. I limiti di ciò che era ritenuto accettabile erano stati collettivamente re-immaginati con la creazione di un nuovo “senso comune” relativo alla sicurezza nazionale. Il fatto che un film come Zero Dark Thirty presenti l’uso della tortura come un argomento di discussione accettabile piuttosto che come qualcosa di assolutamente sbagliato è un buon indicatore di quanto la guerra al terrore abbia modificato in modo permanente le norme etiche in nome di una “chiarezza morale” contro il terrorismo diffusa da Hollywood. Tuttavia, il fallimento della guerra in Iraq, la perdita di credibilità degli Stati Uniti sulla scena mondiale e le reazioni alla linea di George W. Bush imponevano dei cambiamenti. E a questo punto entra in scena Obama e l’era del “potere intelligente”. L’apparato per la sicurezza nazionale statunitense adesso sostiene di voler conquistare “cuori e menti” oltre che “colpire e stupire”. I nuovi metodi per combattere la guerra al terrore – competenza culturale, attacchi mirati e un paziente lavoro di raccolta di informazioni – dovrebbero prendere il posto della demonizzazione generalizzata, delle occupazioni militari e delle giustificazioni costruite ad arte.
Da Bauer a Brody
Con una decisa sterzata dagli scenari catastrofici di 24, la trama di Homeland si concentra sul caos psicologico da cui deriva quella che i funzionari per la sicurezza nazionale definiscono la “radicalizzazione”, soprattutto quando coinvolge statunitensi convertiti all’islam. Nella prima stagione apprendiamo che il marine Nicholas Brody è stato tenuto prigioniero da Al Qaeda per otto anni. Nei primi episodi Brody nasconde la sua conversione all’islam. E gli spettatori sono spinti a concludere che Brody sia diventato un terrorista, cosa che alla fine si rivela esatta. L’agente della Cia Carrie Mathison – il cui personaggio, a quanto pare, è basato sulla stessa analista della Cia che ha ispirato la protagonista di Zero Dark Thirty – sospetta di Brody e comincia a sorvegliarlo illegalmente. Carrie è ossessionata da Brody e alla fine resta sentimentalmente coinvolta. La trama non solo giustifica una sorveglianza sistematica come azione di controterrorismo, ma dimostra come possa diventare la base per un sentimento d’amore. Certo, Brody e Carrie sono dei personaggi complessi, e la prima stagione ha colpito il pubblico con la sua trama imprevedibile e sofisticata. Le posizioni apparentemente liberal della serie e l’inclusione di scene come quella in cui la figlia di Brody critica la politica estera statunitense e difende le convinzioni religiose di suo padre mescolano ulteriormente le carte. Ma il risultato principale di Homeland resta fondamentalmente quello di far apparire naturale il modo di agire dell’apparato per la sicurezza nazionale nell’era di Obama. Se la politica di Obama implica una nuova attenzione al terrorista “interno”, Brody incarna quello che succede ai bravi americani che si convertono all’islam. Ma essendo un musulmano bianco non somiglia al tipico jihadista irrazionale, monodimensionale (e scuro di pelle) rappresentato di solito da Hollywood. Nella seconda stagione il pubblico viene a sapere che Israele ha bombardato l’Iran per impedirgli di sviluppare armi atomiche;questo fornisce il pretesto per concentrarsi su Hezbollah, che inverosimilmente si è alleata con Al Qaeda per vendicarsi attaccando gli Stati Uniti. Beirut diventa un’immaginaria enclave terrorista. Torna, come in 24, l’immagine di una patria vulnerabile a minacce interne ed esterne. E non solo si esagera la portata di quelle minacce, ma si giustifica il fatto che la Cia si occupi della sicurezza interna (che è fuori dalla sua giurisdizione) e i metodi di agenti come Carrie. L’accanimento con cui Carrie dà la caccia ad Abu Nazir, la mente dietro diversi attacchi terroristici, la porta a spiare varie persone all’interno degli Stati Uniti. Una logica simile è stata addotta dalla National security agency per giustificare il suo sistema di sorveglianza totale: i futuri 11 settembre si potranno prevenire solo raccogliendo una quantità sempre maggiore di informazioni sui cittadini americani. Nella terza stagione, in onda in queste settimane, l’attenzione si sposta sul finanziamento alle attività terroristiche, e compare un funzionario dell’intelligence iraniana che finanzia il terrorismo contro gli Stati Uniti da Caracas, in Venezuela. Un tema preso di peso dalle teorie dei neoconservatori secondo cui l’Iran potrebbe usare l’America Latina come “base operativa perinanziare una guerra asimmetrica contro gli Stati Uniti”, come spiega un rapporto dell’American Enterprise Institute. Il Venezuela si sarebbe quindi unito a questo nuovo asse del male. Per l’estrema destra statunitense, il fantasma di un’Hezbollah latinoamericana è l’ideale, perché fonde le minacce del terrorismo, dell’estrema sinistra e dell’immigrazione ispanica in una singola immagine del male. Il vero eroe di Homeland è il mentore di Carrie alla Cia, Saul Berenson, un personaggio che incarna pienamente le contraddizioni e i limiti della guerra al terrore di Obama. La moglie indiana, la conoscenza culturale del Medio Oriente e la capacità di parlare arabo correntemente sono aspetti enfatizzati proprio come le credenziali multiculturali dello stesso presidente Obama.
Sono tratti che gli consentono di dare la caccia ai terroristi in modo più efficace, attraverso
decisioni attentamente calibrate, contrapposte alle fin troppo irruente missioni di 24. Saul possiede perfino una conoscenza dettagliata del calcio iraniano, un’informazione che si rivela utile quando il nome di un giocatore viene usato come identità di copertura dal proprietario di una squadra di calcio venezuelana coinvolto in attività terroristiche. Quando nella terza stagione assume la guida della Cia, Saul viene descritto come estremamente cauto e preciso, pronto ad annullare un attacco coordinato di droni perché uno dei sei obiettivi non era localizzabile. È esattamente questa l’immagine che il presidente Obama ha cercato di dare di sé in quanto portatore di una saggezza morale che riflette su questioni filosofiche mentre autorizza la “lista delle uccisioni”.
I bravi ragazzi della CIA
Berenson però crede anche nel profiling su base razziale se necessario, e in un’occasione dà alla sua squadra istruzioni su come condurre un’indagine: “Stabiliamo delle priorità. Prima quelli con la pelle scura”. Quando gli viene assegnata un’assistente, Fara, che indossa il velo, Berenson le dice: “Quell’afare che porti in testa è un grande vaffanculo alle persone che lavoreranno con te”. La discriminazione razziale è una tattica deplorevole ma comprensibile.
A differenza di quanto succedeva in 24, la tortura non è la soluzione universale, ma può comunque essere uno strumento essenziale, finché è impiegata accanto alle competenze “soft” di Carrie e Saul. Brody è pugnalato a una mano durante un interrogatorio, ma solo perché Carrie possa subentrare presentandosi come il poliziotto buono e ottenere la sua collaborazione. In Homeland la politica è essenzialmente benevola, occasionalmente portata fuori strada da cricche fuori controllo. Nel corso della serie Carrie e Saul esprimono la loro preoccupazione verso queste cricche da una posizione interna al sistema. In linea con il discorso ufficiale sulla radicalizzazione, però, il dissenso politico e il terrorismo si fondono l’uno nell’altro: l’unica voce musulmana è quella dei terroristi. A un livello più profondo, quindi, gli assunti alla base della guerra al terrore di Homeland sono più o meno gli stessi di 24, anche se si ostentano credenziali più liberal. Homeland funziona esattamente come 24, fornendo all’apparato per la sicurezza nazionale i mezzi per dare un’eco alle fantasie sulla minaccia terrorista e stabilendo al tempo stesso nuovi limiti di accettabilità in questioni come la sorveglianza e la violenza politica. Trasmette al pubblico l’idea che la guerra al terrore rappresenti ormai uno stato di emergenza permanente e che a occuparsene siano persone istruite, sobrie, dotate di princìpi etici e intelligenza alle quali dovremmo affidare il compito di proteggerci. E se questi funzionari equilibrati a volte ritengono necessario basarsi su pregiudizi razziali o ricorrere alla tortura, dovremmo fidarci del loro giudizio. La Cia, un’organizzazione con pochi rivali nell’uso del terrore politico, rinnova la sua immagine e si presenta come l’unica agenzia che ci proteggerà da Al Qaeda ed Hezbollah, dal Venezuela e dall’Iran fusi insieme. Homeland dà alla guerra al terrore di Obama una nuova faccia liberal. Ma da questo immaginario sono totalmente assenti i sentimenti e le opinioni dei destinatari della violenza dell’impero.
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