Non che Eduardo non sia più un indio, un uomo della selva che nonostante gli stivali di gomma sappia danzare con essa in perfetta armonia come un vecchio ballerino di tango: della selva conosce ogni segreto, la usa come una farmacia o panacea, paga il conto ogni volta che se ne serve. Se incide un tronco col machete per cavarne la resina, tampona il taglio (lui lo chiama "ferita") con tabacco puro per accelerare la cicatrizzazione. Come con ogni uomo della selva che si rispetti, arrivano i racconti delle guarigioni miracolose - laddove la scienza si era dichiarata impotente - operate dai principi attivi delle piante, ciascuna delle quali alberga uno spirito che "parla a chi sa ascoltare, insegna a chi vuole imparare". La storia, per esempio, di uno statunitense diabetico: "In America i medici lo avevano dato per spacciato, era venuto in Perú a godersi gli ultimi mesi di vita, mio padre, che è uno sciamano, l'ha guarito in tre settimane". Quella, meno credibile, di due casi di Aids curati con la corteccia della stessa pianta usata contro l'idropisia ("Il segreto è seguire alla lettera la dieta prescritta dallo sciamano"). Quella del suo piede destro, che lui stesso quasi recise con un colpo di machete sferrato per errore: "All'ospedale di Iquitos mi dissero che sarei rimasto storpio, avevo tagliato nervi e osso. Tornai qui e mi curai con le piante, oggi cammino alla perfezione: mi fa solo un po' male quando gioco a calcio". Ora, nonostante la cicatrice spaventosa, potete anche non crederci, ma il punto è che Eduardo non sta cercando di vendervi nessun prodotto o brevetto, né vuole impressionarvi con la narrazione di una battaglia a distanza fra sciamani in stile Harry Potter, nella quale, da incauto apprendista stregone, fu usato come tramite per uccidere una parente in una vendetta trasversale. È semplicemente il diagramma del suo lato A, quello senza sale né web: chi nasce indio resta per sempre legato alla selva e al fiume, l'infinita spianata d'acqua che, immota, riflette il cielo - essa stessa un altro cielo liquido sul quale galleggiano costellazioni di tronchi, vegetazione flottante, occhi di coccodrilli, e dell'una e dell'altro è padrone e al tempo stesso schiavo. E però Eduardo non è più completamente indio: la civiltà si è aperta un varco col machete nella sua anima, incidendo il lato B senza preoccuparsi di mettervi del tabacco. Trattandosi dell'Amazzonia, parte della popolazione del dipartimento di Loreto è composta da indios o nativi. Potete per esempio vederne una comunità vicino a Iquitos, l'ex capitale del caucciù, la città di Fitzcarraldo, in passato tanto ricca che i battelli scaricavano ogni settimana migliaia di casse di champagne francese sulle banchine di legno del porto, oggi l'ombra o ricordo di se stessa, rischiarata di notte dalle insegne al neon dei casinò e dei postriboli mascherati da Internet-café, dominata di giorno dalla mole pericolosamente inclinata e dipinta di un tragico blu elettrico del suo edificio più alto (nove piani), eretto sulla piazza della Cattedrale e abbandonato quando ci si rese conto che lo strato di sabbia su cui poggiavano le fondamenta non sarebbe stato in grado di reggerlo.Il nome della tribù è bora, i membri sono circa trecento, il loro villaggio sulla riva del fiume è a pochi minuti di lancia dal centro. In realtà, arrivandoci una domenica pomeriggio, scopro che non è il villaggio vero e proprio, c'è solo una gigantesca capanna di frasche sulla cui soglia stanno, pronte ad accogliermi, alcune ragazze a seno nudo, la vita fasciata da un gonnellino di rafia, i capelli ornati da piume. Una è di una bellezza radiosa, ha le sopracciglia depilate, un profilo delicatissimo e, se non m'inganno, un filo di trucco attorno agli occhi. Aspettate un momento, che cosa stringe in pugno? Come le altre, ha le mani cariche di collanine di semi e varia paccottiglia che vorrebbe vendermi. Le chiedo come si chiama, avrei preferito non saperlo: Heidi. Entro nella capanna, le donne e gli uomini, pressoché ignudi, si affrettano a sistemarsi in testa i copricapi piumati. Mi presentano il capo dei bora, un uomo stranamente giovane, anch'egli vestito solo di un perizoma, che mi invita a sedermi e mi offre uno spettacolo di danza: rifiuto, dicendogli che sono venuto solo per parlare. Credo di avergli dato una delusione, ma lui incassa con stile e facciamo una chiacchierata piacevole. Dice che il villaggio si trova all'interno della foresta, a due ore di cammino dal fiume, che i bora non hanno elettricità, che vivono di caccia (le loro armi sono arco e frecce, cerbottane, schioppi antichissimi), che di solito, fra loro, non danzano. A un tratto il simpatico selvaggio in biancheria etnico-intima interrompe il racconto, getta l'occhio verso il mio orologio, mi chiede che ore sono. Le cinque e mezzo, rispondo. "Allora ci prepariamo per rientrare", dice lui. "Come", osservo, "proprio voi che vivete immersi nella natura avete bisogno di consultare l'orologio per sapere che è tempo di tornare a casa?". "Chiaro che no", dice con una mezza risata, "normalmente ci basta guardare il cielo. A una certa ora, gli uccelli volano tutti verso il rio delle Amazzoni. Ma in genere, la domenica, dopo le cinque non arrivano più turisti: così sappiamo che la giornata è finita".
fine
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