Source Code - di Duncan Jones (2011)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: un vi fate troppe domande sinnò vi viene 'r mar di testa
Colter Stevens è un pilota di elicotteri decorato dell'esercito statunitense. Il suo ultimo ricordo risale ad un'azione in Afghanistan, dove serviva. Improvvisamente, si ritrova su di un treno a Chicago, e davanti a lui c'è Christina, che lo chiama Sean e non la smette di parlare. Cerca di capire che cosa gli sta succedendo, e nel bagno scopre che il suo riflesso nello specchio descrive un altro corpo. Dal portafoglio scopre di essere Sean Fentress. Prima di raccapezzarcisi, il treno esplode. Adesso è dentro una specie di capsula, e tramite un video ed un interfono sta comunicando con lui la soldatessa Colleen Goodwin. Grazie al Source Code, e alla compatibilità del suo corpo con quello di Fentress, che è morto nell'esplosione del treno, la sua missione è di rivivere per un periodo limitato, gli ultimi otto minuti di vita di questo Sean. Perché? L'attentatore è in procinto di piazzare e far esplodere un altra bomba, stavolta nel centro di Chicago: se Stevens riuscirà ad individuarlo tramite gli ultimi otto minuti di Fentress, l'attentatore potrà essere fermato. Ma ci sono anche delle cose che non combaciano...
Purtroppo, il secondo lavoro da regista del figlio di David Bowie, non è all'altezza del suo debutto, l'intrigante Moon. Ci sono alcuni aspetti che lo richiamano o lo ricordano (Il protagonista è, in definitiva, solo come lo era, più palesemente, quello di Moon; i bellissimi modellini e i plastici, che si notano soprattutto nella panoramica iniziale, che richiamano quelli delle scene in esterno "lunare", appunto, di Moon), ma, così come accade per alcune band anglofone, se il primo film "suonava" decisamente inglese, questo Source Code "suona" proprio americano (Da intendersi statunitense, hollywoodiano).
Intendiamoci: gli spunti sono buoni, interessanti, seppur sfruttati più volte, ma lo schema, un po' da Ricomincio da capo, dà un po' di verve, anche se, appunto, è visto più e più volte. Ma il tenore, appunto, è un po' troppo muscolare e frenetico, e la parte di introspezione e di riflessione, che pure non mancherà agli spettatori pensanti, e che se la costruiranno da soli, è messa da parte, e viene lasciata solo la parte zuccherosa, per così dire.
Regia prevedibile, il cast è decente ma non eccelle particolarmente. Gyllenhaal (Colter Stevens/Sean Fentress) lo abbiamo visto meglio in altri casi (ma probabilmente dipende dalla bontà del film, a questo punto), Vera Farmiga (Colleen Goodwin) fa la sua parte con dignità, Michelle Monaghan (Christina) ha un viso carino, ma dovrà dimostrare qualcosa di più che sorridere per una stessa scena girata più volte.
Speriamo in qualcosa di meglio, per la prossima fatica di Duncan Jones.
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