Goya’s Ghosts – L’ultimo inquisitore è il nuovo film di Milos Forman, e sono sicuro che non verrà ricordato come uno dei suoi lavori migliori. C’è una vicenda che fa da pretesto, quella della giovanissima Ines, modella per Goya, figlia di una famiglia agiata, che viene imprigionata dall’Inquisizione spagnola; le vengono fatte “confessare” le proprie origini ebraiche oltre a non meglio precisate pratiche inerenti a tale religione. Tutto questo grazie ad un orrendo metodo di tortura, che a quel tempo la Chiesa riteneva un indiscutibile mezzo di Dio. C’è un falso protagonista, un Goya interpretato piuttosto fiaccamente da Stellan Skarsgard, c’è il vero protagonista, Lorenzo Casamares, interpretato con una interessante e al tempo stesso inquietante indolenza da Javier Bardem, che fa da esempio, da cavia, di quanto fallace può essere la coerenza umana, o anche, con una visione ottimistica, della misura in cui può cambiare il pensiero di un uomo finchè ha abbondanti libagioni. Nonostante la grande metafora sulla politica, sulla Chiesa, valida senza problema alcuno anche ai giorni nostri, e alla mirabile interpretazione “doppia” di una sempre più bella e brava Natalie Portman, il film come già detto scorre lento e cupo, si attorciglia su se stesso e rimane vittima di troppi cambiamenti storici. Pretende molto, ma alla fine annoia un po’.
Altro film con titolo in originale ma con sottotitolo, o aggiunta, italiana e completamente diversa, The Good Shepherd – L’ombra del potere è la terza prova registica di Bob De Niro, la cui parabola, se guardata solo dal punto di vista della direzione, si dimostra pericolosamente tendente al basso. Se si conta che parte nel 1993 con Bronx, film più che apprezzabile, e continua nel 2001 con The Score, dove riusciva a non convincerci nonostante tre protagonisti che avrebbero fatto crepare d’invidia qualsiasi altro regista (se stesso, Ed Norton e Sua Maestà Marlon Brando), invischiandosi in un giallo dove si perdeva il conto dei colpi di scena, questa volta si perde completamente nelle quasi tre ore di un film pachidermico e senza ritmo, dagli intenti interessanti e dalle potenzialità infinite, dal cast fiammeggiante (De Niro stesso, William Hurt, Matt Damon, Angelina Jolie, Joe Pesci, Alec Baldwin) e, presumiamo, dal budget infinito, regalandoci, appunto, quasi tre ore di acuta sonnolenza, indugiando sulla nascita della C.I.A., partendo da lontanissimo, attraversando la Seconda Guerra Mondiale, la crisi di Cuba, la guerra fredda, svariate presidenze USA, innumerevoli golpe e manovre sull’intero scacchiere mondiale, senza mai affondare il colpo, seppur, bisogna riconoscerlo, dando senza dubbio un’immagine meschina all’intera organizzazione. Probabilmente, questo è il massimo che si può fare, nella più grande democrazia occidentale. Ovvio che De Niro, che ha lavorato con grandi maestri, abbia appreso l’arte, certo che alcune (davvero poche, se appunto si pensa alla durata del film) sequenze sono degne di grande cinema (una su tutte: il velo da sposa che si perde nell’aria), ma l’insieme è davvero poca cosa.
Lascia l’amaro in bocca anche Mio fratello è figlio unico, ultima opera di Daniele Lucchetti, del quale, a distanza di 16 anni, rimpiangiamo ancora oggi Il portaborse, un’opera che ricordiamo graffiante e vanamente profetica. Tratto, come ormai sanno anche i sassi, da “Il Fasciocomunista” di Antonio Pennacchi, il film semplifica un po’ troppo la contrapposizione sessantottina (e degli anni che seguirono, anche tristemente noti come gli anni di piombo) destra/sinistra, dipingendo quella della provincia laziale, mettendo sul fuoco troppi personaggi, alcuni che avremmo voluto vedere approfonditi maggiormente, giocando un po’ troppo con la battuta facile, togliendo credibilità al tutto. Sufficiente il “nuovo divo” Scamarcio, di un’altra categoria Elio Germano, perfettamente a suo agio con ruoli che implichino una certa dose di commedia, tanto che lo vorremmo vedere quanto prima impegnato in un ruolo che esca da certi schemi.
Altro film con titolo in originale ma con sottotitolo, o aggiunta, italiana e completamente diversa, The Good Shepherd – L’ombra del potere è la terza prova registica di Bob De Niro, la cui parabola, se guardata solo dal punto di vista della direzione, si dimostra pericolosamente tendente al basso. Se si conta che parte nel 1993 con Bronx, film più che apprezzabile, e continua nel 2001 con The Score, dove riusciva a non convincerci nonostante tre protagonisti che avrebbero fatto crepare d’invidia qualsiasi altro regista (se stesso, Ed Norton e Sua Maestà Marlon Brando), invischiandosi in un giallo dove si perdeva il conto dei colpi di scena, questa volta si perde completamente nelle quasi tre ore di un film pachidermico e senza ritmo, dagli intenti interessanti e dalle potenzialità infinite, dal cast fiammeggiante (De Niro stesso, William Hurt, Matt Damon, Angelina Jolie, Joe Pesci, Alec Baldwin) e, presumiamo, dal budget infinito, regalandoci, appunto, quasi tre ore di acuta sonnolenza, indugiando sulla nascita della C.I.A., partendo da lontanissimo, attraversando la Seconda Guerra Mondiale, la crisi di Cuba, la guerra fredda, svariate presidenze USA, innumerevoli golpe e manovre sull’intero scacchiere mondiale, senza mai affondare il colpo, seppur, bisogna riconoscerlo, dando senza dubbio un’immagine meschina all’intera organizzazione. Probabilmente, questo è il massimo che si può fare, nella più grande democrazia occidentale. Ovvio che De Niro, che ha lavorato con grandi maestri, abbia appreso l’arte, certo che alcune (davvero poche, se appunto si pensa alla durata del film) sequenze sono degne di grande cinema (una su tutte: il velo da sposa che si perde nell’aria), ma l’insieme è davvero poca cosa.
Lascia l’amaro in bocca anche Mio fratello è figlio unico, ultima opera di Daniele Lucchetti, del quale, a distanza di 16 anni, rimpiangiamo ancora oggi Il portaborse, un’opera che ricordiamo graffiante e vanamente profetica. Tratto, come ormai sanno anche i sassi, da “Il Fasciocomunista” di Antonio Pennacchi, il film semplifica un po’ troppo la contrapposizione sessantottina (e degli anni che seguirono, anche tristemente noti come gli anni di piombo) destra/sinistra, dipingendo quella della provincia laziale, mettendo sul fuoco troppi personaggi, alcuni che avremmo voluto vedere approfonditi maggiormente, giocando un po’ troppo con la battuta facile, togliendo credibilità al tutto. Sufficiente il “nuovo divo” Scamarcio, di un’altra categoria Elio Germano, perfettamente a suo agio con ruoli che implichino una certa dose di commedia, tanto che lo vorremmo vedere quanto prima impegnato in un ruolo che esca da certi schemi.
3 commenti:
giustissimo e del tutto condivisibile il commento su "mio fratello è figlio unico".Continuo a trovare Scamarcio l'attore(?) più sopravvalutato di sempre, nemmeno minimamente paragonabile a Elio Germano che,sebbene non abbia "quegli occhi verdi che bucano lo schermo"(come ho letto da qualche parte...), è l'unico vero mattatore del film!
Non sono d'accordo col giudizio che dai sul Lorenzo Casamares de L'ultimo inquisitore. In effetti Lorenzo abiura la sua religione una volta conosciuti Voltair e altri scrittori, poi (non vorrei svelare troppo ad un eventuale lettore ignaro, ma non posso fare meno di così) quando perde il potere durante la controrivoluzione, a rischio della vita, non abiura le idee illuministiche, sebbene gli venisse offerta la salvezza, e sceglie la morte. Resta quindi nel film, secondo me, la condanna dell'inquisizione e per estensione della chiesa, viene esaltato il ruolo delle filosofie illuministiche, ma viene condannato infine l'uomo in quanto lo stesso Lorenzo, tra i due eventi: l'abiura della fede e il martirio per le idee della rivoluzione, frappone scelte terribili sul piano umano e criminali (ma anche il tentativo di salvare Nicole per interesse personale), fatte sulle spalle di innocenti per salvare le chiappe e il suo potere. Insomma viene mostrata, oltre alla forza delle idee, la bassezza dell'animo umano che le rovina (perchè portate dagli "stessi uomini di sempre", insieme alla loro, degli uomini, meschinità).
A me il film è particolarmente piaciuto e mi ha anche commosso. Mi ha trasmesso un senso di angoscia e disgusto reali. E questo era lo scopo a mio avviso, regalare il senso del vero, del reale che c'è anche nelle opere del Goya. Opere che non sono quasi mai "belle", alcune volte grottesche, altre volte ansiogene e altre, infine, belle: come la vita.
Per the good sheperd invece mi trovi in parte d'accordo: alla fine, per non farla troppo lunga, non mi è piaciuta la regia. Troppo lungo il film, interessanti le scene in cui si capiscono i metodi investigativi di Cia (non usano l'articolo davanti :-)), il tutto è un po confuso e difficile da seguire, ma forse questo era il vero intento di de Niro. Per rendere l'atmosfera di incertezza e precarietà che circonda gente che alla fine, nonostante tutti i crimi commessi, si sente un dipendente statale (e sembrerebbe dal film, pagata come tale). C'è però mi sembra, un intento assolutorio di fondo che non mi è piaciuto. Non sono mai riuscito ad entrare realmente nel film, ma forse è stata colpa mia.
Forse Bob si rifarà con i prossimi due film della trilogia.
Di Mio fratello è figlio unico non dico niente, per vostra fortuna :-) perchè non l'ho ancora visto.
Grazie e scuate per l'intromissione.
imparato molto
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