Solino - di Fatih Akin 2002
Giudizio sintetico: si può perdere
Nel 1964, una famiglia pugliese parte dall'amato paese natale, dopo la morte del padre di Rosa, alla volta della Germania: destinazione Duisburg, regione della Ruhr. Missione: migliorare le loro condizioni di vita (vi ricorda qualcosa?). Il padre, Romano Amato, inizialmente fatto assumere in miniera da un parente, si stanca presto: troppa fatica. La moglie ha un'idea che si rivelerà geniale: aprire una pizzeria. La prima di Duisburg. Nel frattempo, i figli Gigi e Giancarlo, antitesi l'uno dell'altro, si ambientano poco a poco e, dimenticata Solino (o quasi), crescono tedeschi e vivono un'epoca di cambiamenti epocali (citazione voluta da Heimat).
Terzo lungometraggio di fiction di Fatih Akin, precede di due anni La sposa turca, e sceglie, chissà perchè (mi piacerebbe davvero saperlo), di raccontare l'emigrazione italiana in Germania. Forse perchè quella italiana è stata la migrazione di massa immediatamente precedente quella turca, verso la Germania. Comunque sia, il film non si rivela imprescindibile (sfido chiunque a riconoscere qualche tratto distintivo, la "mano" di Akin, senza sapere che questo film è suo, rispetto a La sposa turca e Ai confini del paradiso), ma non è neanche da buttare. Si intravedono diversi riferimenti a Tornatore (addirittura due attrici del cast avevano già lavorato con Tornatore) e a Coppola, la sceneggiatura (che non è di Akin, particolare importante) è decisamente prevedibile e molto stereotipata in diversi momenti, ma la mano è buona e la personalità si intravede. Quel che non è stereotipato fino in fondo è la visione dell'italiano, nonostante quello che possiamo pensare noi davanti al succedersi degli eventi. La mamma che rischia di far perdere il treno a tutta la famiglia perchè sta pregando in chiesa per il padre appena morto, non è una cosa così improbabile da aspettarsi, da una donna del sud Italia nel 1964, tanto per dirne una. Curioso osservare i temi che torneranno più tardi nel cinema di Akin (le radici, la doppia nazionalità, il dualismo, la famiglia e gli scontri generazionali, gli scatti d'ira incontrollabili, la violenza domestica), genuino l'omaggio al cinema. Ben risolta, invece, la questione della "concorrenza" tra i due fratelli, tema che impiega tutto il film a dipanarsi e che, di fatto, ne regge l'apparato.
Ben diretti gli attori, in gran parte italiani ma poco conosciuti, mentre i due protagonisti tedeschi incarnano i figli: Barnaby Metschurat (l'abbiamo visto ne L'appartamento spagnolo di Klapisch) è Gigi, Moritz Bleibtreu (indimenticabile in cult come Luna Papa, Le particelle elementari e Lola corre, ma presente anche in Munich di Spielberg, tra gli altri) è Giancarlo, e a dispetto delle pettinature, entrambi se la cavano egregiamente.
Alla fine, è interessante più come idea che come realizzazione in sé.
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