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20080902

consumi


Da D la repubblica delle donne, nr 612. Molto interessante.


La lavatrice è un capriccio?
CONSUMI

La risposta negli Usa in recessione è comunque no, è una necessità. E con lei, una serie di oggetti fino a qualche anno fa poco diffusi. Il segreto è nel murketing, il "marketing losco". Ecco come ci convince a comprare


di Farhad Manjoo*

Quali sono i prodotti senza i quali non viviamo? La lavapiatti è un lusso o un bene irrinunciabile? La lavatrice e l'essiccatore sono una vera necessità o un capriccio? E che dire del computer, del forno a microonde, della connessione internet ad alta velocità o dell'aria condizionata? A queste domande, formulate dagli intervistatori del Pew Research Center, duemila statunitensi hanno risposto in maniera univoca: di nessuno di quegli oggetti si può fare a meno. Rispetto agli spartani anni Novanta, i beni di consumo considerati irrinunciabili si sono moltiplicati. Fino a non moltissimi anni fa, il cellulare era visto come una stravaganza, mentre oggi tutti ne possiedono almeno uno, se non due.

Che gli Usa si consumino nel consumismo non è proprio una sorpresa. Però, come fa notare il giornalista Rob Walker nel libro Buying In: The Secret Dialogue Between What We Buy and Who We Are, pochi ammettono di soccombere alle strategie di vendita, o che sia il marketing a creare e pilotare le loro esigenze. I pubblicitari stanno al gioco: assicurano che convincere il pubblico è difficile. Allo stesso modo, la stampa di settore annuncia la nascita di un "nuovo consumatore" che, tra YouTube e TiVo (un sistema che permette di registrare programmi tv senza spot), sembra avere sviluppato gli anticorpi alla pubblicità. "Non siamo grandi consumatori", confessano a Walker alcuni giovani, prima di decantare le virtù del lettore MP3 o della birra prediletti.

In pochi hanno sondato l'occulta poesia del marketing come Walker, curatore di Consumed, una rubrica che l'inserto settimanale del New York Times dedica alla cultura dello shopping. Ogni dato che riporta nel libro mostra che la società statunitense è, tra tutte quelle mai esistite, la più dedita all'acquisto. Gli americani comprano ogni giorno più roba, producono più rifiuti e si indebitano sempre di più. Basandosi su ricerche svolte da psicologi ed economisti, l'autore spiega la comparsa di alcuni improbabili marchi, e afferma come la vulnerabilità del pubblico alle onnipresenti strategie di marketing derivi dalla sua incapacità di scorgerne la trama. Tanto che, da anni, i pubblicitari adottano un metodo occulto. Walker lo chiama murketing (da murk, ossia significa "poco chiaro", "losco"): una volta che se ne è compreso il funzionamento, lo si riconosce ovunque.

Prendiamo la Pabst Blue Ribbon, birra a buon prezzo un tempo sinonimo di classe operaia dell'interno degli Usa. A partire dagli anni Settanta il marchio ha conosciuto un forte declino, drammatico nel 2001. Già l'anno dopo, però, ha registrato un improvviso incremento delle vendite. Merito di un'improbabile fascia demografica: quella dei controcorrente. In alcune roccaforti di tendenza - per esempio Portland - gli skater e altre creature tatuate hanno preso a bere quella birra. E a chi domandava il motivo, rispondevano di apprezzare la Pabst per l'assenza di immagine; in altre parole, perché l'azienda sembrava poco interessata a vendere.

Di norma, quando una società intravede nel mercato una nuova, improvvisa opportunità lancia una campagna mirata ai nuovi consumatori. Però Neal Stewart, guru del marketing della Pabst, conosceva bene No Logo, il manifesto antimultinazionali di Naomi Klein, e sapeva che un pubblico diffidente verso il capitalismo sarebbe fuggito di fronte a messaggi esplicitamente commerciali. Per questo l'azienda ha evitato i testimonial (Kid Rock aveva già dimostrato interesse) preferendo investire nel murketing: in particolare, sponsorizzando improbabili eventi in tutto il Paese. Rivolgendosi alla controcultura giovanile americana, la Pabst ha finanziato presentazioni dl film sugli skateboarder e raduni dell'editoria indipendente. In ciascuna di queste occasioni, il logo della bevanda rimaneva piuttosto nascosto. L'obiettivo era "apparire in ogni circostanza come un marchio secondario", farsi considerare "La birra della protesta sociale", una "Compagna dissidente" in contrapposizione ai grandi nomi sul mercato.

La campagna era architettata per reclamizzare il prodotto, ma senza darne l'impressione. Al punto che il messaggio di branding che emergeva - ammesso che ne emergesse uno - era qualcosa come: "Hey, non ci importa se bevi questa roba o no". A un pubblico stanco di tutte le birre cui invece, di essere bevute, importa eccome (le pubblicità in onda durante il Super Bowl tradiscono una certa disperazione...), l'atteggiamento della Pabst appariva confortante. E i risultati hanno superato le aspettative. Walker scrive che un tale si è fatto tatuare sulla schiena il logo della Pabst, trenta centimetri per trenta. Questo perché, ha detto il fan, il marketing a basso impatto della bevanda "non ti insulta".

Il murketing non si limita alla birra. Per diffondere il marchio Scion, diretto ai giovani, la Toyota ha organizzato feste per i redattori di riviste indipendenti, dai nomi come Art Prostitute. Si pensa che la Red Bull abbia speso centinaia di milioni di dollari in eventi "segreti", tra cui gare di kiteboarding (lo sport in cui si cavalcano le onde legati a un aquilone), di videogiochi e di breakdance. C'è poi il sistema del passaparola: le agenzie pubblicitarie reclutano "agenti" che decantino ai loro ignari amici le doti di alcuni prodotti.

Walker mostra diffusamente l'insistenza con cui queste campagne invadono la nostra cultura, in particolare quella giovanile. I membri di una generazione iperconsapevole, cui viene riconosciuto il merito di essere impermeabile al marketing, di fatto si affidano ai marchi per definire se stessi. Per protestare contro le multinazionali della birra, quale modo migliore che farsi tatuare il logo della Pabst?

Una cosa è evidente: l'etica anticapitalista della Pabst Blue Ribbon è, come dice l'autore del libro, "tutta una finta". L'azienda ha da tempo chiuso lo stabilimento di Milwaukee, affidando la produzione alla Miller. Oggi lo staff Pabst si dedica unicamente al marketing e alle vendite. "Sarebbe difficile trovare un simbolo della resistenza al branding peggiore di questo", scrive Walker. Agli estimatori della birra, però, non importa. Nella nuova era del murketing, l'immagine è tutto.


(© New York Times 2008)

(*) Farhad Manjoo scrive di tecnologia sulla rivista Slate ed è autore di True Enough: Learning to Live in a Post-Fact Society.

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