FONDI, PROGETTI E ICONE. IL CASO EMERGENCY
di Andrea Debenedetti
È la più internazionale tra le nostre Ong. E anche la più “politica”. Ma il vicepresidente di Emergency, Carlo Garbagnati, ci corregge subito. «Politica, nel senso di occuparsi dei bisogni concreti dei cittadini». Come funziona una Ong? «Posso parlare del nostro caso, perché è l’unico che conosco bene». Dunque? «Innanzitutto, dallo Stato non riceviamo un euro. È il prezzo da pagare, anzi da non ricevere, per riuscire a mantenere una totale autonomia operativa». E il cinque per mille? «Nel 2007 abbiamo incassato circa quattro milioni e mezzo di euro: ma sono soldi che riceviamo dai contribuenti che scelgono di destinare la loro quota a noi». E gli altri soldi chi li mette? «Alcuni enti locali ci danno una mano. Penso alla Regione Toscana, che insieme alla Fondazione Montepaschi ha contribuito alla realizzazione del nostro nuovo centro di cardiochirurgia in Sudan. Il resto viene dai privati. A tutti i donatori spediamo in omaggio la rivista trimestrale: ecco, posso dire che a riceverla sono più di 110mila. Il nostro budget annuale è di circa 20, 25 milioni di euro. Senza le donazioni saremmo perduti». Parlava prima di autonomia operativa. «Diciamo che tutti i governi hanno delle aree geografiche di interesse. Per esempio, ora “tirano” molto l’Africa e l’Afghanistan, mentre la Cambogia, che è uno dei Paesi in cui siamo più attivi, non rientra nei loro piani. Se partecipano a un progetto, vogliono metterci la faccia e la firma. Nessuno finanzia una cosa che esiste già e che non ha una resa né politica né d’immagine». Esisteranno pure altre forme di appoggio non economico. «L’unica cosa che riceviamo è il cosiddetto “titolo di conformità”. Il ministero degli Esteri certifica che quello che facciamo riveste un interesse internazionale e questo ci garantisce due vantaggi. Al nostro personale viene riconosciuta una copertura assicurativa e pensionistica. In più, i direttori sanitari degli ospedali italiani ci devono concedere i loro medici per i nostri progetti, qualora ne facciamo richiesta». Quanta gente lavora dentro e intorno a Emergency? «In Italia ci sono una sessantina di dipendenti fissi regolarmente stipendiati, tra Milano, che è la sede principale, Roma e Palermo. In ambito internazionale il nostro staff si compone di circa 150 tra medici, paramedici e amministrativi. A cui vanno aggiunte 1.500 persone coinvolte nei progetti a livello locale. E i volontari, almeno quattromila in tutta Italia». Come nasce un vostro progetto? «Dalla valutazione oggettiva dei bisogni e della sua fattibilità. I nostri progetti, a differenza di altre realtà, non hanno data di scadenza. L’obiettivo è riuscire a creare ospedali autosufficienti dal punto di vista finanziario e tecnico-professionale, ma prima di arrivarci passano anni. Solo in Irak possiamo dire di aver portato a termine due progetti, ma lì c’era il vantaggio di lavorare con un personale locale già qualificato. Altrove invece la formazione deve partire quasi da zero, e allora diventa tutto più lungo». Quanto conta e quanto “pesa” il fatto di avere un’icona come Gino Strada per Emergency? «Conta moltissimo. E in parte pesa anche. All’inizio, quando si trattava di farci conoscere, quella di farci rappresentare da lui è stata una scelta consapevole, sia per il carisma sia perché lui realizzava materialmente gli interventi sul campo. Adesso il problema è quello di far
conoscere contenuti e ragioni del nostro lavoro, di dare continuità a Emergency al di là della faccia e del marchio. Il paradosso, oggi, è che siamo troppo conosciuti. Tutti hanno lo zainetto o la maglietta di Emergency, tutti conoscono il nostro nome, tutti danno per scontato che esistiamo: questo rischia di far passare in secondo piano che noi siamo una Onlus. E una Onlus, per sopravvivere, ha sempre bisogno di fondi».
conoscere contenuti e ragioni del nostro lavoro, di dare continuità a Emergency al di là della faccia e del marchio. Il paradosso, oggi, è che siamo troppo conosciuti. Tutti hanno lo zainetto o la maglietta di Emergency, tutti conoscono il nostro nome, tutti danno per scontato che esistiamo: questo rischia di far passare in secondo piano che noi siamo una Onlus. E una Onlus, per sopravvivere, ha sempre bisogno di fondi».
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