Da D la Repubblica delle donne, nr. 615
«OGNI SETTE MINUTI UNA DONNA MUORE A CAUSA DI UN ABORTO ILLEGALE.
ECCO PERCHÉ HO FONDATO WOMEN ON WAVES»
REBECCA GOMPERTS (foto)
INCHIESTA
Viaggio nel mondo delle Organizzazioni non governative. Tra emergenze, controversie e battaglie di civiltà. Come quella di un medico olandese, che lotta perché l’interruzione di gravidanza sicura
sia un diritto ovunque
di Marco Mathieu
"Le donne oggi potrebbero praticare da sole l’interruzione di gravidanza, ma occorre garantire
loro l’accesso ai farmaci e alle informazioni necessarie". Gli occhi azzurri illuminano il viso di Rebecca Gomperts: 42 anni, medico, madre di due figli (di 2 e 3 anni) e fondatrice (nel 1999) di Women On Waves, l’Ong olandese che si batte per il diritto delle donne a «poter utilizzare la Ru486. Sono quasi 70mila le donne che ogni anno muoiono ancora per le conseguenze di aborti illegali», denuncia Rebecca, seduta nel piccolo ufficio che è sede dell’associazione. Due computer su altrettante scrivanie, una libreria, il divano, qualche sedia e un tavolo. Tutto dentro questo stanzone affacciato sul parco, al secondo piano di un palazzo in Domselaerstraat, zona orientale di Amsterdam. Al muro è appesa la carta geografica del mondo, con il rosso a segnare i Paesi in cui
l’aborto è illegale. Possibili obiettivi delle missioni delle “donne sulle onde”. Nelle acque internazionali, infatti, vigono le leggi del Paese di cui l’imbarcazione batte bandiera. Quindi, a 12 miglia dalla costa, nell’ambulatorio allestito da Rebecca, vale la legge olandese che prevede la possibilità di interrompere la gravidanza entro sei settimane e mezza dalla fecondazione.
«Rispondiamo all’invito di associazioni locali, a terra distribuiamo volantini e informazioni, poi organizziamo un servizio per traghettare le donne a bordo della nostra imbarcazione». La prima
missione di Women On Waves fu al largo delle coste irlandesi, nel 2001.
Poi in Polonia, 2003, quando gruppi di attivisti antiaborto manifestarono contro Rebecca e le altre («una dozzina in tutto, compreso l’equipaggio»). Peggio andò l’anno successivo in Portogallo, con le navi da guerra inviate a bloccare le “donne sulle onde”. Seguirono polemiche e condanne, sui media e alla Commissione Europea. «Hanno poi riconosciuto le violazioni della nostra libertà di movimento da parte del governo portoghese, però...». Però? «Hanno stabilito che rappresentavamo una reale minaccia a cui i portoghesi hanno reagito». Ride, Rebecca.
«Evidentemente non potevamo sconfessare così apertamente il governo portoghese, il risultato è stato che abbiamo sofferto un lungo periodo di pausa nelle nostre azioni, ma deve ancora pronunciarsi la Corte Europea per i Diritti Umani». Pausa. «Quello che conta però è che nel 2007 l’aborto in Portogallo è diventato legale e allora penso che la nostra azione sia stata utile comunque». Non potendo navigare per mare, l’hanno fatto nel web (http://www.womenonweb.org/ ), per offrire assistenza telematica alle donne di tutto il mondo. «Rendere legale e disponibile l’interruzione di gravidanza con metodo farmacologico sarebbe un segnale di civiltà, oltre che di difesa dei diritti delle donne», sostiene Rebecca, che prima di tutto questo era con quelli di Greenpeace e fu proprio allora che ebbe l’idea di Women On Waves. Molto diversa dalle altre Ong, soprattutto quelle più grandi, «che operano nelle zone di guerra, in situazioni causate dalle circostanze, mentre le nostre azioni, informative e mediche, prevedono una responsabilità diretta». Come per tutte le associazioni no profit che rifiutano i contributi governativi, c’è il problema del fundraising. «Dobbiamo riuscire a far coincidere i tempi delle azioni con la ricerca dei fondi necessari. Il nostro budget annuale è 100mila euro: le donazioni arrivano soprattutto da singoli individui, ma ci aiutano anche piccole organizzazioni internazionali, come Mama Cash e Hivos». Rebecca ferma le parole, poi aggiunge. «Certo, vorremmo poter avere più soldi e una barca più grande». Ma a luglio in Ecuador le “donne sulle onde” hanno dovuto rinunciare alla loro “ragione sociale”. «Una tempesta ha distrutto la barca che avevamo affittato, così la missione si è trasformata in una linea telefonica per offrire assistenza informativa e psicologica alle donne. Più di dieci chiamate al giorno, dopo le azioni di comunicazione che ci siamo inventate». Come lo striscione con il numero telefonico esposto allo stadio e sui monumenti di Quito, “Aborto Seguro”. «Ma la situazione è grave anche in Europa, le donne sono costrette a viaggiare da un Paese all’altro per poter abortire e spesso sono messe in condizioni di umiliante difficoltà». Ecco perché la prossima azione, a ottobre, avverrà nel Vecchio Continente. Destinazione “ancora segreta”. Potrebbe essere addirittura l’Italia? «In effetti da voi la situazione negli ultimi mesi è peggiorata ulteriormente».
continua
3 commenti:
no aspetta
è di Marco, l'articolo. riMarcalo cazzo!
grande grande grande
mi vien da piangere.
Mau
è tutto un progetto. forse non ci hai mai fatto caso ma mathieu è responsabile delle news su D le repubblica delle donne, spesso scrive degli articoloni anche su repubblica.
ne parlerò con un post amarcord appena torno a casa
è uscito un suo libro sul Torino.
bè io sapevo che era nel mondo editoriale che conta... mi diede il biglietto da visita di GQ...
così va la vita.
"dovunque andremo saremo sempre unici"
Mau
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