Uzak - di Nuri Bilge Ceylan 2002
Giudizio sintetico: si può vedere
Istanbul, Yusuf, licenziato al paese natìo causa chiusura della fabbrica dove lavorava, va dal cugino Mahmut, fotografo, a chiedergli ospitalità per alcuni giorni, nei quali cercherà lavoro come mozzo, al porto, per girare il mondo e guadagnare dei bei soldi. Non andrà così, anzi, i caratteri dei due arriveranno a cozzare notevolmente, a dispetto del legame di sangue.
Vincitore a Cannes 2003 del Gran Premio della Giuria, Uzak è un film di quelli dei quali avremmo bisogno più spesso, per uscire dall'omologazione, per capire che il cinema è qualcosa di più che sogno, è anche psicanalisi, anche se superficiale. Una storia talmente semplice da fare paura (se di storia vogliamo parlare; in pratica, vediamo i due impegnati nella vita di tutti i giorni), uno sfondo (Istanbul grigia, sotto la neve, piena di occidente, pure troppo) normalissimo che ci cala dentro il film (e ci suggerisce, forse, che tutto questo stupore quando si parla di "Turchia in Europa" è ingiustificato), due personaggi che ci assomigliano spaventosamente, che, senza parlare quasi mai, mettono a nudo tutte le nostre paure, tutte le nostre paranoie, i nostri vizi, i nostri difetti. Un sacco di cose pesanti, che rendono la visione impegnativa, ma che ripagano con improvvisi sprazzi di poesia grezza, ancora da tagliare, come i panorami che Mahmut vorrebbe fotografare durante il suo servizio, quando si porta dietro come assistente Yusuf, e ai quali rinuncia, ormai disilluso nelle sue aspirazioni abbandonandosi alla piattezza dell'esistenza, o come la scena finale, quando Mahmut si siede sulla panchina in faccia al mare, scena ripresa dalla locandina (ma modificata, in quella scena non si vede la neve). Inutile, superfluo, aggiungere altri particolari, che scoprirete da soli, se accettate la sfida di questo tipo di cinema.
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