Inside Job – di Charles Ferguson (2011)
Giudizio sintetico: da vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: sarebbe ma da mettili tutti a testa ‘n giù
La crisi economica, che ancora stiamo vivendo, conclamatasi nel settembre 2008, con la bancarotta di Lehman Brothers, una delle più grandi finanziarie statunitensi (e del mondo), fondata nel 1850, ha delle cause ben precise, e anche degli sprovveduti come me lo hanno ormai capito. Quello che Ferguson si propone con questo documentario, è di dimostrare, o per lo meno di mostrare, che probabilmente ci sono sia dei colpevoli, sia dei complici, ad altissimi livelli della finanza statunitense, e perfino nel governo. Lo fa ricostruendo, in cinque capitoli (I Come siamo arrivati qui, II La Bolla, III La Crisi, IV Responsabilità, V Dove siamo ora), il “cammino” di questa mostruosa crisi economica, intervistando esponenti di spicco della politica e dell’economia, e facendo i nomi di chi non si è voluto far intervistare, nonostante gli fosse stato richiesto. Il risultato è, come potete facilmente intuire, agghiacciante, perfino se fino ad oggi, ci avevate capito qualcosa.
Personaggino non indifferente e senza dubbio curioso, questo Charles Ferguson. Miliardario per aver fondato, sviluppato, e poi venduto per 133 milioni di dollari (nel 1996) la sua impresa informatica a Microsoft, ben introdotto nel mondo della politica (dottorato di ricerca alla Casa Bianca, tra le altre cose), dopo aver venduto la sua creatura si dedica alla ricerca e alla scrittura, ma c’è anche il cinema tra le sue passioni. No End In Sight, il suo primo documentario (sull’occupazione americana dell’Irak), fu pluripremiato nel 2007, e questo Inside Job ha vinto l’Oscar come miglior documentario ad inizio 2011.
Non è buffo come Michael Moore, non si fa vedere, addirittura lascia la narrazione nientemeno che a Matt Damon (nella versione originale), ma picchia duro: ha una teoria [e, seppure The American Spectator abbia fortemente criticato il film come “intellettualmente incoerente e non accurato”, e per aver intervistato un sacco di cattive persone (e figuriamoci come sono quelle che non si sono volute far intervistare!), è difficile sostenere che la teoria non sia quella giusta] e la persegue, sciorinandola e rendendola sempre più solida con le interviste, sia a economisti che avevano messo in guardia l’amministrazione statunitense dal rischio altissimo (Ferguson pare sia grande amico di Nouriel Roubini, che appare nel film), sia a politici e ad amministratori delegati che erano alla testa di quelle finanziarie che hanno provocato questo sconquasso.
Alternato da qualche suggestiva ripresa aerea delle aree ad alto tasso di banche d’affari, il documentario vale sicuramente la pena di essere visto, seppure non risulti di facilissima fruibilità. Bisogna prestare attenzione, ed essere inoltre pronti a terminare la visione con una notevole incazzatura. Poca musica, ma indovinata.
A questo punto, attendiamo il prossimo docu-film di Ferguson, che pare sarà incentrato su Wikileaks e Julian Assange (andrà probabilmente su HBO).
Giudizio vernacolare: sarebbe ma da mettili tutti a testa ‘n giù
La crisi economica, che ancora stiamo vivendo, conclamatasi nel settembre 2008, con la bancarotta di Lehman Brothers, una delle più grandi finanziarie statunitensi (e del mondo), fondata nel 1850, ha delle cause ben precise, e anche degli sprovveduti come me lo hanno ormai capito. Quello che Ferguson si propone con questo documentario, è di dimostrare, o per lo meno di mostrare, che probabilmente ci sono sia dei colpevoli, sia dei complici, ad altissimi livelli della finanza statunitense, e perfino nel governo. Lo fa ricostruendo, in cinque capitoli (I Come siamo arrivati qui, II La Bolla, III La Crisi, IV Responsabilità, V Dove siamo ora), il “cammino” di questa mostruosa crisi economica, intervistando esponenti di spicco della politica e dell’economia, e facendo i nomi di chi non si è voluto far intervistare, nonostante gli fosse stato richiesto. Il risultato è, come potete facilmente intuire, agghiacciante, perfino se fino ad oggi, ci avevate capito qualcosa.
Personaggino non indifferente e senza dubbio curioso, questo Charles Ferguson. Miliardario per aver fondato, sviluppato, e poi venduto per 133 milioni di dollari (nel 1996) la sua impresa informatica a Microsoft, ben introdotto nel mondo della politica (dottorato di ricerca alla Casa Bianca, tra le altre cose), dopo aver venduto la sua creatura si dedica alla ricerca e alla scrittura, ma c’è anche il cinema tra le sue passioni. No End In Sight, il suo primo documentario (sull’occupazione americana dell’Irak), fu pluripremiato nel 2007, e questo Inside Job ha vinto l’Oscar come miglior documentario ad inizio 2011.
Non è buffo come Michael Moore, non si fa vedere, addirittura lascia la narrazione nientemeno che a Matt Damon (nella versione originale), ma picchia duro: ha una teoria [e, seppure The American Spectator abbia fortemente criticato il film come “intellettualmente incoerente e non accurato”, e per aver intervistato un sacco di cattive persone (e figuriamoci come sono quelle che non si sono volute far intervistare!), è difficile sostenere che la teoria non sia quella giusta] e la persegue, sciorinandola e rendendola sempre più solida con le interviste, sia a economisti che avevano messo in guardia l’amministrazione statunitense dal rischio altissimo (Ferguson pare sia grande amico di Nouriel Roubini, che appare nel film), sia a politici e ad amministratori delegati che erano alla testa di quelle finanziarie che hanno provocato questo sconquasso.
Alternato da qualche suggestiva ripresa aerea delle aree ad alto tasso di banche d’affari, il documentario vale sicuramente la pena di essere visto, seppure non risulti di facilissima fruibilità. Bisogna prestare attenzione, ed essere inoltre pronti a terminare la visione con una notevole incazzatura. Poca musica, ma indovinata.
A questo punto, attendiamo il prossimo docu-film di Ferguson, che pare sarà incentrato su Wikileaks e Julian Assange (andrà probabilmente su HBO).
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