Drive – di Nicolas Winding Refn (2011)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: deli’ato lulì dé
Driver, così lo chiameremo visto che nessuno, in tutto il film, lo chiamerà per nome (e così è accreditato, nei titoli), è un giovane taciturno, senza passato, arrivato a Los Angeles forse per sfuggire a qualcosa, a qualcuno, o solo alla noia. Lavora nell’officina di Shannon, sempre per Shannon, che gli fa da agente, fa lo stuntmen-driver nei film di Hollywood, e la notte guida per rapinatori vari, per arrotondare: dà a tutti 5 minuti, quelli in cui lui guida l’auto e li porta in salvo. Tutto quello che succede prima e dopo, non è affar suo. Vive solo, non ha amici apparentemente. Un giorno, nell’ascensore, incontra Irene, sua vicina di casa, col figlio Benicio. Non si parlano, ma lui è colpito da lei. Poco dopo, davanti allo stesso minimarket, l’auto di Irene rimane in panne, e Driver dà loro un passaggio. Da quel momento, Driver entra in punta di piedi nella vita dei due, che però stanno aspettando che il padre di Benicio, l’uomo di Irine, Standard, esca di prigione.
Mentre Shannon convince Bernie, ex produttore cinematografico (che non ha fatto soldi col cinema perché produceva film giudicati “troppo europei”) e adesso legato alla mafia, ad investire una grossa cifra per mettere su una scuderia; della macchina se ne occuperà Shannon, ma il pilota sarà naturalmente Driver. Bernie coinvolge l’amico e alleato Nino.
Driver nel frattempo, familiarizza con Standard dopo il suo rilascio, soprattutto perché, dopo qualche giorno, Driver ritrova l'uomo sanguinante dopo un pestaggio. Si fa dire che cosa succede, ed ecco che salta fuori che Standard deve dei soldi a Cook (uno sgherro di Nino), e che per ripianare il debito esige che lui faccia una rapina ad un banco dei pegni. Driver entra in gioco: lui guiderà l’auto per scappare dal banco dei pegni, ma in cambio Cook lascerà in pace Standard, Irene e Benicio.
Davanti ad un film del genere, prima di tutto va aperta una parentesi sulla distribuzione italiana, nonché alla sua reclamizzazione. Drive è stato “venduto” come un Fast & Furious qualunque; il trailer insisteva su gangster, violenza, macchine veloci e pupe sexy. Perfino, scendo nel particolare per spiegarmi meglio, la sala del multicinema dove sono andato a vederlo era la stessa, la più grande, dove recentemente ho portato mio nipote a vedere Fast & Furious 5. Infatti, allo spettacolo pomeridiano del venerdì, giorno di uscita del film, oltre a me c’era un gruppetto di incivili capitanati da un padre di famiglia, con figli e nipoti, che si attendeva esattamente un film come Fast & Furious, armati della vasca di popcorn d’ordinanza, e naturalmente irrequieti davanti al ritmo del film di Refn.
Conoscendo ormai piuttosto bene lo stile del regista danese, una via di mezzo tra Tarantino e Von Trier, sapevo bene che non dovevo aspettarmi cose del genere. E infatti.
Come ha detto giustamente Dassisti all'interno de La rosa purpurea, trasmissione di cinema su Radio24 (e che inneggia tranquillamente al capolavoro di stagione), Refn lavora per sottrazione dove altri registi infarcirebbero inutilmente il film. Ispirandosi anche ai western di Leone, Refn (che rimpiazza Neil Marshall alla regia, per questo progetto, pensate un po’) spiazza tutti andando a Hollywood e mettendo in scena un Driver loquace poco più di One Eye (protagonista del suo Valhalla Rising), innestandolo in uno scenario che ricorda quello della trilogia Pusher traslocata appunto a Los Angeles. Ryan Gosling (ma il ruolo doveva essere di Hugh Jackman, e ringrazio che sia andata così), ormai uno degli attori del momento, richiestissimo e visto moltissimo ultimamente, su evidenti ordini del regista, diventa il suo tramite, recitando di sopracciglia, parlando il minimo, trasmettendo al tempo stesso angoscia e sicurezza, tracciando un personaggio memorabile nella sua impalpabile disperazione, nella sua gravissima incomunicabilità.
Prende attori caratteristi, ma bravissimi, rilanciati o lanciati dalla tv (Bryan Cranston – Breaking Bad -, Christina Hendricks – Mad Men -, Ron Pearlman – Sons Of Anarchy -, Albert Brooks – Weeds -), e un paio di questi (i primi due) li rende, almeno all’inizio, quasi irriconoscibili. Assembla una coppia discutibile, Carey Mulligan (Irene), davvero troppo monoespressiva (ripensate ai film in cui l’avete vista ultimamente, Wall Street: il denaro non dorme mai, Non lasciarmi, An Education, e vi renderete conto che sembra perennemente afflitta da un male incurabile), e Oscar Isaac (Standard; visto in Agora e ottimo nel pessimo Sucker Punch), e qui poteva andare meglio.
Sceglie una colonna sonora (di Cliff Martinez, ma la parte del leone la fanno un paio di pezzi, Nightcall di Kavinsky & Lovefoxxx, e A Real Hero di College feat. Electric Youth) smaccatamente anni ’80, spudoratamente moroderiani (per non ripetere carpenteriani, come fatto per Contagion); anni ’80 come il guardaroba del Driver, del resto; due pezzi che sono già storia, insieme alle sequenze del film.
Il film non è perfetto, nonostante abbia vinto il premio per la miglior regia a Cannes. Ma è, come sempre nella filmografia di Refn, una poesia nera, una danza macabra, un balletto mortale; soprattutto, è una collezione di scene madri. Questo si: dal punto di vista prettamente registico, Refn ora come ora dà letteralmente la merda a (quasi) tutti. La scena dell’ascensore (quella violenta), l’avesse girata Tarantino grideremmo alla sua (di Tarantino) resurrezione. Ed è degna del miglior Sergio Leone, credetemi.
Seppur scorrevole, ancorché lento, il film, tratto dal libro omonimo di James Sallis, soffre di un’atmosfera ovattata, già sperimentata nella trilogia Pusher. E’ un marchio di fabbrica, una sensazione spiazzante anche per i fans. Gli possiamo imputare un’eccessiva freddezza, che impedisce allo spettatore una totale empatia per il protagonista, e una sottile prevedibilità.
Driver non è un film per tutti. Anzi, direi che è un film per pochi. E non è neppure di quei film che ti fanno gridare al capolavoro quando si accendono le luci della sala. Ma è un film che cresce nei momenti, e nei giorni seguenti alla visione.
Giudizio vernacolare: deli’ato lulì dé
Driver, così lo chiameremo visto che nessuno, in tutto il film, lo chiamerà per nome (e così è accreditato, nei titoli), è un giovane taciturno, senza passato, arrivato a Los Angeles forse per sfuggire a qualcosa, a qualcuno, o solo alla noia. Lavora nell’officina di Shannon, sempre per Shannon, che gli fa da agente, fa lo stuntmen-driver nei film di Hollywood, e la notte guida per rapinatori vari, per arrotondare: dà a tutti 5 minuti, quelli in cui lui guida l’auto e li porta in salvo. Tutto quello che succede prima e dopo, non è affar suo. Vive solo, non ha amici apparentemente. Un giorno, nell’ascensore, incontra Irene, sua vicina di casa, col figlio Benicio. Non si parlano, ma lui è colpito da lei. Poco dopo, davanti allo stesso minimarket, l’auto di Irene rimane in panne, e Driver dà loro un passaggio. Da quel momento, Driver entra in punta di piedi nella vita dei due, che però stanno aspettando che il padre di Benicio, l’uomo di Irine, Standard, esca di prigione.
Mentre Shannon convince Bernie, ex produttore cinematografico (che non ha fatto soldi col cinema perché produceva film giudicati “troppo europei”) e adesso legato alla mafia, ad investire una grossa cifra per mettere su una scuderia; della macchina se ne occuperà Shannon, ma il pilota sarà naturalmente Driver. Bernie coinvolge l’amico e alleato Nino.
Driver nel frattempo, familiarizza con Standard dopo il suo rilascio, soprattutto perché, dopo qualche giorno, Driver ritrova l'uomo sanguinante dopo un pestaggio. Si fa dire che cosa succede, ed ecco che salta fuori che Standard deve dei soldi a Cook (uno sgherro di Nino), e che per ripianare il debito esige che lui faccia una rapina ad un banco dei pegni. Driver entra in gioco: lui guiderà l’auto per scappare dal banco dei pegni, ma in cambio Cook lascerà in pace Standard, Irene e Benicio.
Davanti ad un film del genere, prima di tutto va aperta una parentesi sulla distribuzione italiana, nonché alla sua reclamizzazione. Drive è stato “venduto” come un Fast & Furious qualunque; il trailer insisteva su gangster, violenza, macchine veloci e pupe sexy. Perfino, scendo nel particolare per spiegarmi meglio, la sala del multicinema dove sono andato a vederlo era la stessa, la più grande, dove recentemente ho portato mio nipote a vedere Fast & Furious 5. Infatti, allo spettacolo pomeridiano del venerdì, giorno di uscita del film, oltre a me c’era un gruppetto di incivili capitanati da un padre di famiglia, con figli e nipoti, che si attendeva esattamente un film come Fast & Furious, armati della vasca di popcorn d’ordinanza, e naturalmente irrequieti davanti al ritmo del film di Refn.
Conoscendo ormai piuttosto bene lo stile del regista danese, una via di mezzo tra Tarantino e Von Trier, sapevo bene che non dovevo aspettarmi cose del genere. E infatti.
Come ha detto giustamente Dassisti all'interno de La rosa purpurea, trasmissione di cinema su Radio24 (e che inneggia tranquillamente al capolavoro di stagione), Refn lavora per sottrazione dove altri registi infarcirebbero inutilmente il film. Ispirandosi anche ai western di Leone, Refn (che rimpiazza Neil Marshall alla regia, per questo progetto, pensate un po’) spiazza tutti andando a Hollywood e mettendo in scena un Driver loquace poco più di One Eye (protagonista del suo Valhalla Rising), innestandolo in uno scenario che ricorda quello della trilogia Pusher traslocata appunto a Los Angeles. Ryan Gosling (ma il ruolo doveva essere di Hugh Jackman, e ringrazio che sia andata così), ormai uno degli attori del momento, richiestissimo e visto moltissimo ultimamente, su evidenti ordini del regista, diventa il suo tramite, recitando di sopracciglia, parlando il minimo, trasmettendo al tempo stesso angoscia e sicurezza, tracciando un personaggio memorabile nella sua impalpabile disperazione, nella sua gravissima incomunicabilità.
Prende attori caratteristi, ma bravissimi, rilanciati o lanciati dalla tv (Bryan Cranston – Breaking Bad -, Christina Hendricks – Mad Men -, Ron Pearlman – Sons Of Anarchy -, Albert Brooks – Weeds -), e un paio di questi (i primi due) li rende, almeno all’inizio, quasi irriconoscibili. Assembla una coppia discutibile, Carey Mulligan (Irene), davvero troppo monoespressiva (ripensate ai film in cui l’avete vista ultimamente, Wall Street: il denaro non dorme mai, Non lasciarmi, An Education, e vi renderete conto che sembra perennemente afflitta da un male incurabile), e Oscar Isaac (Standard; visto in Agora e ottimo nel pessimo Sucker Punch), e qui poteva andare meglio.
Sceglie una colonna sonora (di Cliff Martinez, ma la parte del leone la fanno un paio di pezzi, Nightcall di Kavinsky & Lovefoxxx, e A Real Hero di College feat. Electric Youth) smaccatamente anni ’80, spudoratamente moroderiani (per non ripetere carpenteriani, come fatto per Contagion); anni ’80 come il guardaroba del Driver, del resto; due pezzi che sono già storia, insieme alle sequenze del film.
Il film non è perfetto, nonostante abbia vinto il premio per la miglior regia a Cannes. Ma è, come sempre nella filmografia di Refn, una poesia nera, una danza macabra, un balletto mortale; soprattutto, è una collezione di scene madri. Questo si: dal punto di vista prettamente registico, Refn ora come ora dà letteralmente la merda a (quasi) tutti. La scena dell’ascensore (quella violenta), l’avesse girata Tarantino grideremmo alla sua (di Tarantino) resurrezione. Ed è degna del miglior Sergio Leone, credetemi.
Seppur scorrevole, ancorché lento, il film, tratto dal libro omonimo di James Sallis, soffre di un’atmosfera ovattata, già sperimentata nella trilogia Pusher. E’ un marchio di fabbrica, una sensazione spiazzante anche per i fans. Gli possiamo imputare un’eccessiva freddezza, che impedisce allo spettatore una totale empatia per il protagonista, e una sottile prevedibilità.
Driver non è un film per tutti. Anzi, direi che è un film per pochi. E non è neppure di quei film che ti fanno gridare al capolavoro quando si accendono le luci della sala. Ma è un film che cresce nei momenti, e nei giorni seguenti alla visione.
3 commenti:
ale bella recensione!
piaciuto tantissimo...tu l'avevi visto "bronson"?
buongiorno! grazie.
avevo visto bronson
http://fassbinder.blogspot.com/2010/10/il-giustiziere-della-notte.html
ah ok!;-)
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