The Great Escape of Leslie Magnafuzz - Radio Moscow (2011)
20111130
la grande fuga
The Great Escape of Leslie Magnafuzz - Radio Moscow (2011)
20111129
sogno
Bimong - di Kim Ki-duk (2008)
20111128
Técnicas de masturbación entre Batman y Robin
20111127
maschiaccio
20111126
terzo o secondo?
Voglio caldeggiare, a tutti voi amanti del ruock, il nuovo disco dei Chickenfoot, il secondo, dopo un "esordio" (nel 2009) incoraggiante ma che lasciava intravedere ovviamente potenzialità enormi ancora da sfruttare. Ho messo esordio tra virgolette, perché una band che come età media fa segnare circa 57 anni, e nella quale il più giovane ha 50 anni e suona da un pezzo nei Red Hot Chili Peppers, dove due dei membri hanno fatto parte dei Van Halen, e il quarto uomo è un notissimo guitar hero, può suonare quantomeno ridicolo. Beh del resto è un supergruppo. Diciamo che sta per diventare l'attività principale pure per Chad Smith, visto che i RHCP sono ormai degli ectoplasmi.
AOR classicissimo, ovviamente con tastiere saggiamente dosate e abbastanza nascoste, perché l'accento va soprattutto sulla chitarra, musicisti con le palle esagonali (Sammy Hagar, voce e chitarra, Michael Anthony basso e cori - ex bassista storico dei Van Halen -, Smith appunto alla batteria, Joe Satriani alla chitarra), che però non si fanno le seghe sui manici degli strumenti o picchiano sodo sulle pelli senza strafare: prima la musica e le canzoni, poi il virtuosismo, ma mai fine a se stesso. Poi, a me la voce di Hagar è sempre sempre sempre piaciuta (e a livello compositivo è uno che sa il fatto suo). Tra l'altro, su questo disco ha lavorato un minimo sui testi, ce ne sono un paio quasi politici (Three and a Half Letters, non bella come canzone, ma ad ascoltarla mette i brividi anche a chi non sa perfettamente l'inglese).
La mia preferita è Come Closer, una ballad super classica con un assolo da vero Silver Surfer della chitarra.
20111125
domande e risposte
allora se hai tempo e non ti scasso la minchia mi fai i 10 album grunge da avere a tutti i costi?
Io:
1)Soundgarden - Bad Motorfinger
2)Soundgarden - Louder Than Love
3)Nirvana - Nevermind
4)Nirvana - Bleach
5)Temple of the Dog - Temple of the Dog
6)Mad Season - Above
7)Pearl Jam - Ten
8)Mudhoney - Superfuzz Bigmuff (nella versione con "Touch Me I'm Sick")
9)Alice In Chains - Dirt
10)Afghan Whigs - Gentlemen
Gli Screaming Trees son rimasti fuori, e sticazzi!*
*Alla romana
gorgo
Giudizio vernacolare: popo' di rigirio
Casualmente, Bibiane incontra Evian, il figlio di Annstein; affascinata ed oppressa dal senso di colpa, che estrinseca in una strana maniera, si spaccia per una vicina di casa dell'anziano.
Secondo film del regista québécois, dopo l'invisibile Un 32 août sur terre del 1998, Maelstrom è un film acerbo ma interessante, che contiene i temi portanti della cinematografia di Villeneuve (temi soprattutto etici), e che, visto oggi, anticipa in parte il suo capolavoro Incendies. Grottesco e surreale, anticonformista come un Hal Hartley, per esempio nella scelta del pesce narrante, fa sorridere ma poi diventa agghiacciante quando si intuisce dove vuole andare a parare.
20111124
the debt
Giudizio vernacolare: un sa’ d’un granché
Tel Aviv, Israele, 1966. Tre agenti del Mossad, una donna e due uomini, Rachel Singer, David Peretz e Stephan Gold, tornano in patria dopo aver portato a termine una missione per la quale saranno venerati: hanno scovato ed ucciso Dieter Vogel, detto “il chirurgo di Birkenau”, un medico tedesco che, un po’ come Mengele, aveva praticato atrocità indicibili sugli ebrei internati in quel campo.
1997: Sara ha scritto un libro sull’operazione portata a termine dal commando del quale faceva parte la madre Rachel, e lo sta presentando al pubblico. Applausi: i tre agenti sono ancora idoli per gli israeliani.
Nel frattempo, un uomo dell’età di Rachel e Stephan si uccide sotto gli occhi di quest’ultimo. Ha qualcosa a che fare con lui. Chi era? E perché si è ucciso?
Avevo dei dubbi su questo film, che altro non è se non un remake di un film israeliano del 2007, dal titolo Ha-Hov (identico, “il debito”), e la sua visione me li ha confermati. E’ peraltro difficile spiegare il perché, in questi casi. Il plot è potenzialmente interessante: c’è la spy-story, i "postumi" dell’Olocausto, il senso di colpa (in questo caso, anche dei discendenti delle vittime, scoprirete il perché vedendo il film, se deciderete di farlo), colpi di scena fino alla fine, flashback e flashforward, attori bravi e belli, e, perché no, il fascino della Berlino divisa del tempo che fu. E’ quindi, così ragiono io, colpa del regista, se non riesce ad imprimere ritmo, se non riesce a far suo (essendo un remake, si può dire così), a rendere indimenticabile una storia potenzialmente interessante come questa.
Il film è infatti straordinariamente debole, senza nessun mordente, e soprattutto, un manipolo di bravi attori, come detto prima, rilascia una prova complessiva assolutamente da non ricordare. Avere a disposizione Helen Mirren (Rachel), Tom Wilkinson (Stephan), Ciarán Hinds (David), la splendida Jessica Chastain (Rachel da giovane), Marton Csokas (Stephan da giovane), Sam Worthington (David da giovane), e non riuscire a tirarne fuori una prova decente, è quantomeno sospetto. Meno male che c’è pure Jesper Christensen (Dieter Vogel alias Doktor Bernhardt), sempre su altissimi livelli (lo abbiamo visto pochi giorni fa in Melancholia – era Little Father -, e ve lo consiglio caldamente nella trilogia delle classi sociali di Per Fly – La panchina, L’eredità e Gli innocenti), l’unico che riesce a strappare emozioni in un film tanto piatto. Prossimamente vorrei anche rivedere Romi Aboulafia (Sara), viso interessante.
E’ vero che Madden fu nominato agli Oscar per Shakespeare In Love (e non vinse, anche se quel film prese sette statuette), ma non dimentichiamoci che è il regista di quel film indimenticabile perché bruttissimo, che rispondeva al titolo de Il mandolino del capitano Corelli…
20111123
dare per vivere
cimitero
Nel marasma delle uscite susseguenti all’estate, c’erano un sacco di dischi inutili, come forse vi ho già accennato. Spesso, quando si scrive di musica (o d'altro) per il gusto di scrivere e di dare il proprio parere, giusto per orientamento, si è portati a fare un po’ come il Mollica televisivo: non si ha voglia di scrivere di quello che ci fa cagare, a meno che non si abbia una folgorazione (tipo quella che ho avuto sul wc a proposito del disco nuovo dei Coldplay).
Ecco quindi che la ristampa del debutto degli svedesi che tanto ci (il plurale è perché so che sono piaciuti anche ad altri amici) sono piaciuti con il loro secondo disco, assume una certa importanza. Teoricamente.
Quando poi si passa alla pratica, cioè all’ascolto, l’importanza viene confermata, e questo conforta. Siamo sempre dalle parti di un certo hard rock di ispirazione seventies, proveniente dal blues con naturalezza, su una struttura che non disdegna dilatazioni che, a volte, più che lisergiche possono apparire come spruzzate progressive, chiaramente omaggianti i Pink Floyd.
Un (altro) disco dannatamente semplice, dannatamente bello, con un susseguirsi di pezzi che provocano un godimento immediato e perdurante.
20111122
le vedove del giovedì
Giudizio vernacolare: ci stavano gobbi ‘n quer posto
Una mattina del 2001, nel country (in Argentina così si chiamano i quartieri privati, formati da abitazioni di lusso, immerse nel verde, e protetti dall’esterno da recinzioni sorvegliate) "Altos de la Cascada", nella piscina principale, vengono ritrovati tre cadaveri. Sono di altrettanti proprietari di case del quartiere, amici tra di loro. Un incidente? Forse. Fuori, intanto, il Paese si sgretola sotto i colpi della crisi economica. Un flashback ci riporta a qualche mese prima, quando Gustavo visita una delle case del complesso, guidato da Mavi, agente immobiliare che abita con la famiglia proprio nel country, e la acquista, senza dire niente alla mogliettina Carla, per farle una sorpresa. Comincia così un viaggio attraverso le vite delle quattro famiglie protagoniste.
Tratto dall’omonimo romanzo di Claudia Piñeiro (quasi omonima, perdonate la ripetizione, del regista), questo lavoro è l’ultimo (per adesso) film del regista argentino/spagnolo, del quale ho personalmente apprezzato Kamchatka, del 2001, ed il precedente El Método (2005), film del quale questo Las viudas de los jueves ricorda il meccanismo “ad orologeria”, tanto che non avendo fatto caso che il regista era lo stesso, pochi minuti prima del finale mi è venuto naturale fare il paragone.
E’ un buon film, a tutti i livelli. L’introduzione è dark e onirica, lo stacco verso il lunghissimo flashback che costituisce il corpo del film è spiazzante, ma comprensibile. I molti personaggi sono introdotti poco alla volta, e delineati piuttosto bene. Le interpretazioni apprezzabili, da parte dell’intero cast; bella fotografia, location elegante, e un crescendo drammatico che culmina con la riflessione “filosofica” a bordo piscina. Ho trovato estremamente interessante, in pratica, la scelta di descrivere il crollo dell’economia argentina attraverso uno degli ambienti più riservati e lussuosi (qualcosa di molto simile al barrio de La zona del messicano Plá), tramite personaggi di una certa cultura e di un certo ambiente, che, forse, si sgretolano più facilmente. Parallelamente, le dinamiche tra le famiglie di “amici”, costituiscono un’altra parte fondamentale del film, una parte che prosegue fino alla fine, illustrando perfettamente la pusillanimità di queste persone.
Come detto, davvero un buon film, che non è uscito in Italia.
20111121
bridesmaids
Le amiche della sposa - di Paul Feig (2011)
20111120
horrible bosses
Come ammazzare il capo e vivere felici - di Seth Gordon (2011)
20111119
madre
Stabat Mater - di Tiziano Scarpa (2008)
20111118
Spagna (Fuerteventura, Canarie) novembre 2011 - 3
Rubalcaba, triste piu' di Rajoy, mi ha dato l'impressione di essere un po' Bersani. Idee molto piu' chiare del candidato PP, ma gia' rassegnato alla sconfitta. Ha sottolineato non so quante volte che il candidato contrapposto non dice quello che ha in mente. E questo, avevo gia' letto, e' un po' il ritornello di questa campagna elettorale. Poi ho beccato su una tv canaria anche un accesissimo dibattito tra candidato PP, quello del PSOE, e una signora candidata di un partito nazionalista canario, a quanto pare di destra, aggueritissima contro il candidato PP.
Vabe'.
A parte questo, oggi doveva essere nuvolosissimo, e invece sole a palla. Pero', non ci crederete, ho quasi malinconia. Di cosa non lo so. Forse basterebbe una bella partita di calcio alla tele, stasera. E invece niente.
Un'altra cosa pero' la voglio dire. Le ragioni che sostengono l'opposizione della Lega Nord al Governo Monti sono a dir poco ridicole. Ma non importava ve lo facessi notare io.
A presto.
antéchrista
Antichrista - di Amélie Nothomb (2004)
20111117
Spagna (Fuerteventura, Canarie) novembre 2011 - 2
1) Giancarlo Santalmassi, qualcuno se lo ricordera', giornalista italiano, in un fondo su El Pais, a proposito del nostro nuovo Governo: "Un diplomatico agli Esteri (parlare con un ex Primo Ministro come Juppe richiede qualcosa in piu' che saper raccontare barzellette)."
2) Lula, ex Presidente brasiliano, si e' fatto fare barba e capelli dalla moglie Marisa. A zero. Perche' ha un cancro alla laringe, ed ha cominciato la chemio.
3) Domenica in Spagna si vota. Il PP, Partido Popular (centro destra, vi ricordate Aznar?), pare che vincera' in maniera schiacciante contro il successore di Zapatero, tale Rubalcaba. Il candidato del PP, Rajoy, gia' ieri sera intervistato ad un tg, mi aveva dato l'idea di essere uno che, alla fine, non dice niente. Oggi mi sono letto una incalzante (e lunghissima) intervista di Javier Moreno, sul giornale che ho citato prima, e l'impressione si conferma: un programma che piu' generico non si puo', una lunga serie di domande schivate, un grande nulla. E i cugini spagnoli lo voteranno in massa. Non voglio dire niente, ma potete immaginarvi il mio pensiero.
4) Forse vi ricorderete Carme Chacon, ministra della Difesa per Zapatero. Pare sia una dei candidati a succedere a Rubalcaba, sicuro perdente, alla testa del PSOE.
5) Introdotto il tema delle donne, ecco che proseguo con qualcosa di piu' triste. Ieri sera mi ha colpito, al tg (ai tg) spagnoli, la notizia dell'accertamento dell'assassino di tale Avellaneda Nunez, diciassettenne di origini dominicane, uccisa appunto dall'ex fidanzatino in un paesino nei pressi di Madrid. Mi ha colpito perche' l'accento non e' stato messo per niente sul fatto che provenisse da famiglia immigrata, bensi' sul fatto che sia la quattrocentesima e passa, vittima della violenza machista. Per chi non ha capito bene, vittima della violenza degli uomini sulle donne, in ambito domestico/familiare/amicale. Qui abbiamo ancora molto da imparare (dico, su come trattare le notizie).
6) Concludiamo con una notizia un po' piu' frivola. Parliamo di Mad Men, la serie. Anche in Spagna ne sono molto appassionati, e sul giornale di oggi ho trovato questa notiziola molto interessante per noi fans. Il creatore della serie, Matthew Weiner, si e' lasciato andare alcune ghiotte anticipazioni. Dopo lo iato lungo (quasi due anni, la prossima serie, la quinta, andra' in onda a marzo 2012, mentre la quarta ando' nel 2010), ci saranno altre tre serie. Il creatore sa gia' come finira', e lo ha rivelato: la serie terminera' nel 2011, con un Don Draper 84enne. Le prossime tre serie, dunque, ci riveleranno come Don ci arrivera'. Gia' come idea, la trovo giusta, totalmente in linea con la serie, e credo che se continuera' sui livelli ai quali ci ha abituati, saranno tre stagioni tutte da godere. Sto gia' godendo, a dire il vero.
Domani nuvoloso, e sabato e' previsto addirittura pioggia. Saranno giorni di riflessione, di lettura e televisione. Pero', se come l'altra sera, trovo Modern Family doppiato in spagnolo, cambio subito canale!
rikos ja rangaistus
Giudizio vernacolare: fenomeno caurismachi dé
Leggera variazione sul tema, rispetto all’omonimo romanzo di Dostoevskij. Helsinki. Rahikainen, che lavora come operaio in un grande macello, uccide l’uomo che qualche anno prima, ubriaco, aveva investito e ucciso la sua fidanzata. Ma in realtà, non lo uccide per vendetta: lo uccide per noia, e sfida la polizia, l’ispettore Pennanen ed il detective Snellman, addirittura una testimone oculare dell’omicidio, Eeva, a trovare le prove, o a testimoniare. Invece, sia l’ispettore, incrollabile nel credere che prima o poi l’assassino crollerà in preda al senso di colpa, sia Eeva, legata da uno strano rapporto di attrazione all’assassino, convinta che deve essere lui stesso a consegnarsi alla giustizia, lasciano che sia Rahikainen a guidare il gioco. Si intromettono anche altri protagonisti nella vicenda, ma neppure questi saranno decisivi.
Film di debutto dell’ormai mitico regista finlandese, se si eccettua il documentario Saimaa-ilmio, su tre rock band finlandesi, e diviso alla regia col fratello Mika, questa personalissima (e liberissima) versione del classico russo, più che gettare le fondamenta, delinea i parametri del cinema di Aki Kaurismaki, perennemente in bilico tra la tragedia e la commedia, sempre con un occhio attento al sociale, senza dimenticare la filosofia e l’alcol. Perfino gli attori, compreso il micidiale (e compianto) Matti Pellonpaa, qui nei panni dell’amico e collega dell’assassino, Nikander, si adeguano già allo stile registico (e di direzione, quindi) dell’uomo che, pare, a proposito di questo film disse “Ho pensato di adattare un classico perché è piuttosto facile prendere e utilizzare un libro bell'e pronto. E ti lascia anche più tempo da passare al bar…”, ma anche “Hitchcock aveva raccontato a Truffaut, che se c'era un soggetto che mai avrebbe osato portare sullo schermo, questo era quello del complicato capolavoro di Dostoevskij. Ero giovane e convinto di provare il contrario ai vecchi. Poi, mi sono reso conto che Hitchcock aveva ragione”.
Minimalista e trendy, accompagnato da una colonna sonora quanto mai anticonformista, Kaurismaki dà l’avvio ad una carriera che non gli porterà certo la ricchezza e i grandi incassi al botteghino, ma di sicuro l’amore incondizionato dei cinefili, che, come nel mio caso, arriveranno addirittura a coniare neologismi e/o termini di paragone quali “faccia da Kaurismaki”, per intendere qualcuno che somigli, nei tratti, nell’atteggiamento e nell’abbigliamento, a uno degli attori dei film del finlandese. Qualsiasi cosa faccia è da vedere.
Spassoso e spiazzante, a tratti inquietante.
20111116
Spagna (Fuerteventura, Canarie) novembre 2011 - 1
Vi basti pensare che gli annunci di lavoro esposti fuori dagli esercizi commerciali recitano "si cerca commessa con conoscenza del tedesco". E quindi, oltre all'onta dello spread, subisco continuamente la beffa di sentirmi parlare in tedesco dai locali (come se avessi la faccia da tedesco).
La benzina qui costa 1,0 e qualcosa al litro. Ci credete? Credeteci. Ho noleggiato una Twingo, ovviamente mi hanno detto che c'era un quarto di serbatoio e invece era in riserva, e alla prima gasolinera ho digitato 30 euro, ma mentre rifornivo ho avuto paura che non c'entrasse tutta! I prezzi sono ridicoli, anche al supermercato, come forse saprete e' una zona franca.
Il mare e' bello, c'e' sempre vento come dice la leggenda, e purtroppo (ma comincio a pensare per fortuna) questa settimana sembra sia sempre un continuo di nubi che passano e vanno, e quindi bisogna stare al pezzo con un certo impegno per abbronzarsi. Pero' qualche risultato si vede. La televisione mi tiene aggiornato, ed oggi, poco fa, ho assistito al giuramento del nuovo governo. Vediamo come si muovera'.
Vi saluto, per il momento.
un orso rosso
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: popo’ di ghinnia
Oso (in italiano Orso) entra in carcere, per rapina a mano armata, quando Alicia, la figlia sua e della sua donna, Natalia, ha poco più di un anno. Natalia lo lascia, e c’è poco da incazzarsi: lui deve rimanere dentro, lei e sua figlia devono continuare a vivere. Dopo più di otto anni, Oso è fuori. Natalia sta con Sergio, ed Alicia non lo conosce. Sergio è un buono a nulla, senza lavoro, col vizio delle scommesse. Le cose non vanno bene per loro.
Oso si cerca un lavoro onesto, e nel frattempo da una parte, cerca di riavere la sua parte del bottino dal Turco, dall’altra cerca di avere un rapporto normale con la sua ex moglie e, soprattutto, sua figlia. Quando si rende conto che Sergio e Natalia non riescono ad arrivare alla fine del mese, capisce che tocca a lui risolvere la situazione, per redimersi almeno un poco. Ma la strada per arrivarci da dove passa?
Caetano, regista uruguaiano di nascita, ma argentino di adozione, conosce bene la realtà argentina; questo è il suo film precedente all’ottimo Cronaca di una fuga – Buenos Aires 1977, e mostra che già qualche anno prima il nostro sapeva ben maneggiare un film d’azione, apprendendo ottimamente la lezione dei maestri statunitensi, senza snaturare lo sfondo a lui più congeniale. Molti critici lo hanno definito un “western urbano”, e mi sento di accodarmi senz’altro a tale definizione.
Il cosiddetto Conurbano bonaerense è ben rappresentato, con tutte le sue miserie e con i segni di una crisi che ha messo in ginocchio una nazione, la sceneggiatura, forse, mette in scena qualche simbolismo di troppo, e troppo ingenuo, ma le interpretazioni dei due protagonisti, coadiuvate da un buon cast di contorno, fanno di Un oso rojo, che fu apprezzato a Cannes nel 2002, una visione interessante.
Julio Chávez (Oso), che personalmente avevo apprezzato moltissimo ne El custodio, è attore molto conosciuto in Argentina per i suoi lavori televisivi (ultimamente per le mini-serie El puntero, Epitafios 2 e Tratame Bien), e qui svolge un lavoro davvero convincente, a dispetto del suo fisico non propriamente da supereroe. Soledad Villamil, che fortunatamente anche qui in Italia è stata finalmente “scoperta” con Il segreto dei suoi occhi, è una delle attrici più conosciute in patria (anche come cantante), e ve l’ho “raccontata” in No sos vos, sos yo e ne El mismo amor, la misma lluvia; anche lei fornisce un’ottima prestazione.
20111115
one of two
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: un tumore ti ‘ambia la vita
Lorenzo Maggi è un giovane avvocato, che a livello professionale fa coppia con Paolo Albini, mentre nella vita sta con Silvia, anche se il loro rapporto non sembra voler sfociare in qualcosa di più “serio”, soprattutto per volere di Lorenzo.
Lorenzo è brillante, astuto, determinato, arrogante quando serve (e, a volte, pure quando non serve), si è costruito una discreta posizione, e sta per portare a termine un’operazione con una società russa, che dovrebbe, come si dice, far “svoltare” il suo studio definitivamente.
Come un fulmine a ciel sereno, arriva una notizia che fa crollare le sue certezze, la sua sicurezza. Recatosi in ospedale per un controllo, in seguito ad un malore lieve, i dottori gli dicono che c’è il sospetto di un tumore al cervello. L’attesa di risultati più approfonditi, catapulta Lorenzo in un limbo in cui è costretto a ripensare il suo approccio alla vita, mentre la degenza, che gli fa conoscere Giovanni, suo compagno di stanza, gli dà modo di affrontare un viaggio che, in apparenza, ha uno scopo di coscienza, ma in realtà serve soprattutto a lui stesso.
Secondo lungometraggio di fiction per il regista di Latina, che avevo apprezzato moltissimo con Volevo solo dormirle addosso. Cappuccio dimostra padronanza del mezzo, destreggiandosi bene tra la prima parte girata a Genova, e la seconda, vagamente on the road verso l’Italia centrale, dando un respiro “poco italiano” (da intendere in senso positivo) ad uno scenario decisamente italiano (ma, appunto, vario). Sceneggiatura scritta a molte mani (quando ho letto che ci ha messo le mani pure Fabio Volo, ho avuto perfino la presunzione di aver capito dove, di preciso), che forse per questo non risulta così perfettamente scorrevole.
Cast con qualche piacevole sorpresa (il “ripescaggio” di un ottimo Ninetto Davoli – Giovanni – ed un cameo sfizioso di Agostina Belli – la madre di Tresy -), oltre ai “soliti” dignitosi Giuseppe Battiston (Paolo) e Anita Caprioli (Silvia), mi permetto di mettere in dubbio la scelta di Volo quale protagonista (Lorenzo): non mi è parso all’altezza, e mi sono ritrovato ad immaginare lo stesso film con un attore principale differente.
Al regista, comunque, immutata stima.
20111114
chiuso per ferie
friends with benefits
Amici di letto - di Will Gluck (2011)
20111113
depressione
Giudizio vernacolare: se tanto tanto vi sentite tristi un ciandate a vedello
Justine e Claire. Due sorelle. Diverse. Justine decide di sposare Michael, un ragazzo bellissimo che la ama profondamente. Claire decide di organizzare la festa di matrimonio nella sfarzosa tenuta dove vive insieme al marito John, al figlio Leo, dove regna l’ordine dettato dal maggiordomo Little Father. Organizza il tutto un wedding planner esperto ma suscettibile. La festa è all’altezza della tenuta, ma comincia in ritardo: la limousine degli sposi non riesce a far manovra nella stretta stradina che porta al castello (lo possiamo tranquillamente definire anche così). Il prosieguo della serata ci mostrerà che Justine, bravissima creativa, ha dei grossi problemi nervosi.
Nella seconda parte, il focus si sposta leggermente su Claire, ma soprattutto sull’avvicinarsi alla Terra di Melancholia: un pianeta interstellare che si sta avvicinando al nostro come mai era successo. Che sia la fine del Mondo? John cerca di rassicurare Claire, che sta entrando nel panico.
C’è poco da fare: per quanto alcuni amanti del cinema possano odiare il regista danese, da lui ci si aspettano sempre grandi cose. E, del resto, grandi cose ha fatto. Per quanto possa ammirarlo personalmente, però, devo dirvi onestamente che questo Melancholia gira a vuoto per almeno 90 minuti su 130 (e vi assicuro che sono stato magnanimo: in realtà, il film poteva limitarsi al breve dialogo tra le due protagoniste, quello sulla fine del mondo, posto poco prima del finale). Di Lars va apprezzata sempre e comunque la ricerca anticonformista, il coraggio di osare sempre; le prime due righe della sua bio su imdb.com riassumono il personaggio alla perfezione: “Probably the most ambitious and visually distintive filmmaker to emerge from Denmark since Carl Theodor Dreyer”.
Ecco quindi che il film si apre con una sorta di riassunto “pittorico” del finale, fotogrammi fermati attorno ai quali ruota la telecamera, sulle note del Tristan und Isolde di Wagner. Fotografia perfetta, impregnata di colori scuri, apocalittici (appunto). Von Trier, espressamente, voleva che lo spettatore non fosse disturbato dalla suspence, ma che si concentrasse su come le due sorelle protagoniste reagiscono all'approssimarsi della fine del mondo. Ecco quindi che, anche assecondandone il ragionamento, soprattutto la prima parte (intitolata “Justine”, come il personaggio interpretato da Kirsten Dunst), che, in pratica, è una sorta di Festen (dell’allievo Thomas Vinterberg, uno dei film girati secondo le regole Dogma) un po’ più breve, che serve a farci capire che Justine è instabile (il suo personaggio nasce da uno scambio di lettere tra il regista e Penelope Cruz, si basa sulla depressione di Von Trier stesso, e in un primo momento ovviamente era stato offerto all’attrice spagnola), risulta abbastanza inutile, se non fosse per il wedding planner interpretato dall’immenso Udo Kier in versione vagamente gay, che ci fa fare qualche risata. Ed è un peccato, anche perché c’è pure Alexander Skarsgard (Michael), ormai conosciutissimo per la sua parte in True Blood (Eric Northman), per la prima volta finalmente con Von Trier e in una delle poche volte in cui divide lo schermo col padre Stellan (Jack, il capo di Justine). La seconda parte (intitolata naturalmente “Claire”, interpretata da Charlotte Gainsbourg, alla quale, dopo aver girato con/per il danese il precedente Antichrist, questo Melancholia deve essere sembrato una passeggiata), solo leggermente più stringente, si specchia molto nella propria immagine, per dire che gira ancora a vuoto per una buona parte, riducendosi ad un tutto sommato gradevole confronto di due belle prove attoriali (Kirsten e Charlotte, guarda caso due delle mie preferite) senza però toccare lo spettatore nel profondo, non riuscendo a destabilizzarlo o a far passare l’angoscia che attanaglia il personaggio di Claire.
Rimane quindi un film troppo lungo, ben recitato (la Dunst è stata premiata all’ultimo festival di Cannes come miglior attrice, ed è effettivamente brava, anche se la Gainsbourg non le è da meno) e fotografato splendidamente, dove la musica è volutamente pomposa ed apocalittica (il già citato Tristan und Isolde di Wagner), con molte inquadrature ispirate alla pittura; ma è un po’ poco, per Lars Von Trier.
20111112
un racconto cinese
Un cuento chino - di Sebastiàn Borensztein (2011)
20111111
troppo grandi per fallire
Giudizio vernacolare: ammazzalli tutti no eh?
2008: il colosso finanziario Lehman Brothers, ed il suo arrogante CEO, Richard Fuld, stanno impensabilmente colando a picco. Il problema è di proporzioni mondiali, e i politici statunitensi, almeno, alcuni di loro, immancabilmente ex dirigenti di qualche colosso finanziario, non ultimo il Ministro del Tesoro Henry Paulson, cominciano lentamente a rendersene conto. Che fare? Trovare acquirenti. Ma altre finanziarie cominciano a crollare. A quel punto, si statalizza, una cosa inconcepibile per una nazione liberista come gli USA. Ma il domino economico non si ferma. Bisogna inventarsi qualcosa d’altro.
Il crollo Lehman Brothers (Inside Job), la riunione fiume con gli executives delle banche statunitensi (Wall Street: il denaro non dorme mai) e i vertici del Tesoro USA, sono ormai parte della nostra storia contemporanea. E’ piuttosto normale, quindi, che si tenda a romanzare, a farne della fiction. Ben venga se a portarla sugli schermi è un buon regista (LA Confidential, 8 Mile), con un cast stellare, nell’ambito di un film per la tv (ma, visto che la tv in questione è HBO, siamo di fronte a qualcosa di cinematografico, e tra l’altro sempre di ottimo livello).
L’intera storia viene ritmata come un film d’azione, si cerca di rendere il tutto comprensibile anche per chi è a digiuno di nozioni economiche, si mostrano quali siano state, con tutta probabilità, le mosse anche politiche [intrigante la parte antecedente al finale, con Paulson che, in pratica, implora i democratici, quindi la sua opposizione, di fargli passare la sua (del suo staff) proposta]. La ricostruzione è soddisfacente, e una vaga sensazione di claustrofobia si impadronisce dello spettatore. Pecca che si può rimproverare al film, lo scarso approfondimento psicologico dei personaggi, che, bisogna riconoscerlo, sono troppi. C’è da dire che, nonostante un William Hurt piuttosto bravo, l’unico personaggio autenticamente strutturato, e con un minutaggio superiore, Henry Paulson, non convince fino in fondo, proprio a livello di psicologia, anche se ci prova fino alla fine. Non si può avere tutto, e in fondo, questo film arriva dopo i due citati in apertura (Inside Job, Wall Street 2), giusto per ribadire il tutto.
E però non è male.
20111110
Super Mario
restless
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: tenerezza
Che uno degli elementi portanti del cinema di Van Sant siano i giovani, adolescenti o meno, è appurato. Come pure la morte: è innegabile che la fine della vita eserciti un fascino particolare, Van Sant ce ne ha parlato spesso. Ecco quindi, l’ennesima variazione sul tema, un adattamento per il cinema di una pièce teatrale di Jason Lew, Of Winter and Water Birds, che si occupa anche della sceneggiatura di Restless (titolo originale, molto più corretto della banalissima traduzione italiana, abitudine che ormai non ho più la forza di combattere). Il risultato è un film non banale, seppure non certo un capolavoro, ma dai toni crepuscolari (così come la fotografia che ci “racconta” una nebbiosa Portland). Una grande storia d’amore, amore intenso, profondo, completo come può essere solo un amore adolescenziale, un amore segnato già in partenza da una scadenza a breve, che riesce a rimanere sobrio, in una maniera che, se non ci fosse la mano di Van Sant, sarebbe sorprendente.
Questa sobrietà che è un altro dei marchi di fabbrica del cinema di Van Sant, quantomeno quando parla d’amore. Alla fine, è un po’ una lezione che in molti dovrebbero apprendere, molti di quelli che fanno cinema, voglio dire. Una storia del genere che riesce a non divenire mai melensa è segno di grande capacità.
Splendide le recitazioni che il regista riesce ad avere dai due giovani protagonisti. Non avevo dubbi su Mia Wasikowska (Annabel), che ormai considero una stella affermata nonostante abbia solo 22 anni, ma di certo non era scontata una prova così densa di sicurezza da parte di Henry Hopper (Enoch), il figlio 21enne del compianto Dennis (e di Katherine LaNasa), qui davvero convincente.
Dopo Last Days e Paranoid Park, che non mi piacquero, direi che Milk e L’amore che resta rimettono Van Sant in carreggiata.
20111109
l'aria difficile
Los aires difíciles – di Gerardo Herrero (2006)
Giudizio sintetico: da evitare (1/5)
Giudizio vernacolare: meno male le zotte un si girano artro che da noi
Spagna. Juan si trasferisce da Madrid a una zona marittima nei pressi di Cadice, con la nipotina Tamara ed il fratello ritardato Alfonso. C’è un passato, doloroso, da lasciarsi alle spalle. I genitori della nipote sono morti in breve tempo; la madre, Charo, in gioventù fidanzatina di Juan, poi passata al fratello più grande Damián, con quest’ultimo si è sposata. Dopo qualche anno di matrimonio, è diventata l’amante di Juan, poi è rimasta incinta (non si sa bene di chi), e la loro storia è proseguita tra alti e bassi. Charo ha avuto altri uomini, e alla fine è morta in un incidente d’auto proprio con uno dei suoi (altri) amanti. Damián è mancato più tardi, e alla fine scopriremo come. L’amico fraterno, nonché poliziotto, Nicanor, è ossessionato dalla colpevolezza di Juan, e cerca di farsi confessare che Juan ha ucciso volontariamente Damián dal povero Alfonso.
Nella loro nuova casa, cercando una nuova vita, si legano a Sara, una donna poco più anziana di Juan, anche lei trasferitasi lì da Madrid, evidentemente per lasciarsi alle spalle un passato scomodo, e a Maribel, la donna tuttofare sia di Sara che di Juan, madre di Andrés, che ha l’età di Tamara, e che è stato abbandonato dal padre detto Panrico, nonostante lui viva ancora in quella zona.
E’ il secondo film che vedo di Herrero, dopo Malena es un nombre de tango, anch’esso tratto da un libro di Almudena Grandes. E, se nel primo caso forse ero stato clemente, soprattutto perché l’interpretazione di una bravissima attrice come Ariadna Gil salvava il salvabile, stavolta devo dire onestamente che questo è un film da far vedere appositamente per spiegare come non dev'essere un bel film.
Il libro omonimo, che ho amato come quasi tutta la produzione della scrittrice spagnola, esce massacrato dalla trasposizione di Angeles Gonzàlez Sinde e Alberto Macìas. Capisco la necessità di compattare e tagliare, ma allora perché volerne fare per forza un film? La storia di Sara sparisce completamente, così come quella tra Tamara e Andrés; tutta la sofferenza di Juan, il suo passato, e il suo dualismo col fratello, la sua storia con Charo, scompaiono o perdono spessore, fino a divenire insignificanti o poco più. Non finisce qui.
La fotografia, su uno sfondo comunque bello come la zona di Cadice, non riesce a rendere affascinante il tutto; la regia è piatta, incredibilmente piatta, manca dinamicità, e le recitazioni sono davvero ridicole. Si salva solo la prova di Carme Elias nei panni di Sara, probabilmente aiutata dalla parte minuscola che le viene affidata. Un vero peccato.
Visti i risultati, e visto che Herrero è uno dei produttori ispano-americani più attivi (e con ottimi risultati), direi che è meglio se dietro alla macchina da presa ci fa stare gli altri.
20111108
moving forward
Conatus - Zola Jesus (2011)