Portishead + A Hawk and A Hacksaw, 31 marzo 2008, Firenze, Saschall
Eccoci qua, loro 10 anni dopo Roseland NYC Live, io 10 anni dopo averli visti al Vox di Nonantola. Pienone delle grandi occasioni al Saschall, guardo qualche faccia giovane e mi domando come diavolo conoscano i Portishead; ma, si sa, sono domande senza senso. Il disco nuovo, ufficialmente, non è ancora uscito, ma ovviamente lo abbiamo già sentito, ed apprezzato, anche se non mi ha colpito al cuore come Dummy e l'omonimo del 1997.
Aprono A Hawk and A Hacksaw, e non ci mettono molto a venirci a noia. Suonano anche troppo, una specie di folk sinfonico con archi e altre amenità. Verso le 22,00 l'intro in portoghese di Silence, l'opener del nuovo Third (e che fantasia...) ci annuncia che sono davvero lì. Beth è la stessa ragazza invecchiata di 10 anni fa, fisico ingobbito, attaccata al microfono e alla sua asta, Adrian molto ingrassato. I suoni sono perfetti da subito, tra l'altro con volumi per niente alti, il tutto godibilissimo. Segue Hunter, ancora dal disco nuovo. Il terzo pezzo è Mysterons, ed ecco lo scratch e il theremin. Mi viene un po' di nostalgia, e penso che ci vorrà un po' di tempo per digerire la nuova direzione dei Portishead. Infatti, qui sta la differenza tra il vecchio e il nuovo corso. L'elettronica si è fatta più dura, c'è meno morbidezza e meno scratch, che, in fondo, fa o faceva molto (appunto) Portishead. Ancora un pezzo nuovo, The Rip, interessante nella sua progressione che parte da una chitarra acustica e un finale che occhieggia ai suoni dei primi Air, poi già al quinto pezzo Glory Box. Che pezzo gente. Vecchio 14 anni e ancora sinuoso e devastante come l'acqua cheta. Segue Numb, e si gode. Pieno trip-hop old style. Magic Doors dal nuovo disco è struggente e ricorda melodie mediterranee. Ancora da Dummy ecco Wandering Star, poi si torna al nuovo con il singolo Machine Gun fatto di elettronica durissima e cantanto con sofferenza e trasporto: marchio di fabbrica con la P maiuscola. Arriva il primo estratto da Portishead, ed è Over: ecco l'inconfondibile pronuncia della S seguita dalla T di Beth sullo spettrale intro, dopo di che ti ritrovi ad ondeggiare lentamente quando entra la batteria, con quel tempo rallentato e inconfondibile. Sour Times, e qui siamo dalle parti del jazz, si sa. Struggente, l'ho già usato questo aggettivo, ma del resto cos nobody loves me, it's true, not like you do. Si rimane da quelle parti con Only You. Wow. Nylon Smile, nuova ma suona molto bene, e chiusura col botto con Cowboys, un altro classico, tra l'altro una versione tesissima, com'è giusto che sia, prima della pausa, brevissima fortunatamente. Brevissima riflessione: soprattutto Beth appare felicissima e perfino loquace, anche se la voce, quando parla tra un pezzo e l'altro, si percepisce appena. Vabbè, l'importante è che quando invece canta, lo fa senza risparmiarsi, ma soprattutto senza sforzo alcuno, ed è nitida e sempreverde.
I bis. Threads dal nuovo, piacevole ma nulla più, il tempo di rimanere delusi che tutto svanisce in una superba versione di Roads. Chiude We Carry On ancora da Third, del resto devono fare promozione, sostenuta e incalzante, ansiogena.
Sono tornati, Beth Gibbons ha ancora una voce che incanta. La band dal vivo non sbaglia una nota, è cristallina e dà profondità al suono. Il nuovo disco è valido, ma accostati, come dev'essere dal vivo, ai vecchi classici, i pezzi nuovi fanno da cuscinetto.
Ooh, can't anybody see....we've got a war to fight...saluto e me ne vado canticchiando.
1 commento:
Recensione perfetta...mi hai riportato a quella magica serata!!
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