Il responsabile delle risorse umane - di Eran Riklis (2010)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: badalì a vorte la vita com'è strana
Gerusalemme, pochi anni fa. Il responsabile delle risorse umane di un grande panificio sta per andare a casa dopo una faticosa giornata di lavoro. Ha già detto alla segretaria di andare. Mentre muove i primi passi in corridoio, sente il fax che sta ricevendo. Scocciato, torna indietro. Prende il fax, lo legge. Ancora non lo sa, ma quel fax gli cambierà la vita.
Immediatamente, va a rapporto dal suo capo, una ricca vedova. Un quotidiano cittadino ha scoperto che tra le vittime di un kamikaze, c'era una loro dipendente, il cui corpo è rimasto giorni all'obitorio senza che nessuno lo reclamasse o lo riconoscesse. Il fax avverte che l'articolo verrà pubblicato nel fine settimana, ed è evidente che il danno d'immagine è piuttosto grande. La vedova intima al manager di scoprire come sia potuto succedere. Rapidi controlli, qualche domanda al capo turno: la donna, Yulia, l'aveva licenziata lui un mese prima, e non l'aveva comunicato alla direzione, per cui risultava ancora a libro paga. Il manager non insiste oltre, ha altro a cui pensare, ma il capo turno dopo qualche ora lo ricontatta e gli confessa un segreto.
Il manager ha problemi a casa: è separato, con la moglie, o ex moglie, ci sono alti e bassi, e non ha mai tempo per stare con sua figlia. Promette alla bambina di andare in gita scolastica con lei, come accompagnatore. L'avesse mai fatto.
Yulia era immigrata in Israele dalla Romania (ma non era ebrea). Aveva lasciato un figlio, e, si suppone, un marito. La vedova comunica al manager che per rimediare al danno di immagine si farà carico di tutte le spese per il funerale e per il rimpatrio. Siccome la colpa ricade su di lui, nonostante le rassicurazioni della vedova, sarà lui che dovrà accompagnare la bara in Romania.
Ma non pensiate che all'arrivo in quella terra che, come dice la console israeliana, che accoglie il manager all'atterraggio, "non è né oriente, né occidente", ci sia la famiglia, il funerale, e la cosa finisca lì.
Difficilmente, credo, si potesse chiudere un anno con un film migliore. E, fateci caso, quando si arriva di questi tempi, mentre i cinema sono ingolfati da cartoni animati, per buoni che siano, e da cinepanettoni insulsi, da qualche parte, in qualche sala decadente, vi aspetta sempre una sorpresa. Dico sul serio: fateci caso.
Di Eran Riklis conosciamo solo le ultime tre produzioni, ma bastano ed avanzano a farne una specie di mito: La sposa siriana, per fassbinder miglior film del 2005, Il giardino di limoni, tra i migliori del 2008, e questo sommesso nuovo lavoro, candidato per Israele agli Oscar 2011, tratto dal libro omonimo di Abraham Yehoshua.
E' sommesso, ma non passa inosservato, a patto che gli si dia uno sguardo. Parte come una commedia nera, diventa un road movie, ma molto, molto introspettivo. Il protagonista diventa un'altra persona, sicuramente migliore, grazie ad un corpo ed una bara, una morta della quale non ricordava neppure il volto. Per chi ama un certo tipo di cinema caciarone, chiassoso, spassoso, surreale, tipico dei balcani ma pure delle ex repubbliche sovietiche, qualcosa che si avvicini all'indimenticabile Luna Papa, ci sarà un momento in cui sembrerà che il film possa prendere quella piega; ma non sarà così, ed è giusto, perché la cifra stilistica di Riklis è questa, la stessa che riconosciamo negli altri suoi film. Umorismo caustico, appena accennato, situazioni grottesche, persone che hanno i problemi di tutti i giorni, perfino in situazioni estreme. C'è posto per tutto un po', in questo film: la stampa scandalistica alla ricerca di uno scoop che porta conseguenze anche a chi non ha colpa di niente, l'immigrazione alla ricerca di una vita migliore che da una parte squassa le famiglie, dall'altra pone chi va da una paese povero verso uno ricco, nella spiacevole situazione di accettare impieghi umilianti, i conflitti generazionali, l'alienazione, rispetto ai sentimenti e alle relazioni umane, che l'ossessivo ritmo lavorativo del capitalismo ci impone, l'eterno conflitto israelo-palestinese sullo sfondo. Ma, a volte, basterebbe rallentare un momento, cambiare panorama, punto di vista, per tornare ad essere quelli che volevamo diventare.
Cast pescato non a caso, ma per noi praticamente sconosciuto, fatto da caratteristi, e, questa è un'altra caratteristica che mi colpisce di questo regista, sempre diverso dal film precedente; tutti ottimi, con Mark Ivanir senza difetti nei panni del protagonista, e altre facce difficili da dimenticare.
Movimenti di macchina delicati, fotografia impeccabile, colonna sonora con suggestioni balcaniche. Uno dei migliori film di questo anno appena terminato. Non lasciatevelo scappare.
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