Materie prime
Tutto questo, unito al programma Bolsa família, ha cominciato a intaccare le diseguaglianze
sociali, che erano il sintomo più evidente del fallimento del Brasile. Il paese è stato citato a lungo come esempio di pessima distribuzione della ricchezza. Nell’indice di concentrazione di Gini, che serve per misurare le diseguaglianze, il valore più alto (1) significa che un solo cittadino guadagna l’intero reddito del paese e quello più basso (0) che tutti i cittadini hanno le stesse entrate.
Tra il 1996 e il 2006 il coeficiente di Gini del Brasile è sceso dallo 0,6 allo 0,56, mentre gran parte del resto del mondo andava nella direzione opposta. La sensazione che il Brasile stia diventando
un paese più equo favorisce un capitalismo più sano. Oggi i miliardari che ronzano su São Paulo in elicottero sollevano meno indignazione di prima, compaiono sulle copertine delle riviste e
vengono lodati per le loro abilità invece di essere sempre presi di mira per la loro avidità. I giovani imprenditori, sostiene Antonio Bonchristiano di Gp investments, un fondo d’investimento, si stanno rendendo conto che “non serve solo essere nati ricchi o avere contatti politici per fare soldi”. E aggiunge: “Non mi sembra che in Messico o in Argentina stia succedendo qualcosa di simile”. Alcuni di questi cambiamenti sono stati favoriti dal buon andamento
dell’economia. L’anno scorso la produttività degli operai industriali è cresciuta del 4,2 per cento, a dimostrazione che l’idea di aumentare gli investimenti dà i suoi frutti. Molti cambiamenti, inoltre,
dipendono dall’aumento dei prezzi delle materie prime esportate dal Brasile. “Le materie prime pagano il conto della festa”, afferma Candido Bracher, della banca di investimenti Itaú Bba. Il Brasile rappresenta in questo settore quello che la Cina rappresenta per i prodotti manifatturieri. La maggior parte della carne bovina, del succo d’arancia, della soia e dei minerali ferrosi del mondo, infatti, proviene dal paese carioca. Il business è così fiorente che ha convinto anche i più scettici: perfino chi pensava che rifornire il mondo di materie prime avrebbe condannato il paese
alla povertà sembra aver cambiato idea. Secondo Edmar Bacha, un noto economista brasiliano, il paese non godeva di condizioni globali così favorevoli dalla metà degli anni sessanta, quando per un decennio fu la seconda economia con la crescita più veloce del pianeta. Negli ultimi anni i prezzi delle materie prime hanno dato al paese un ampio surplus di bilancio. Questa situazione ha
aiutato a far lievitare il valore del real rispetto alle valute dei suoi partner commerciali. Nel 2001, nel momento di maggior debolezza finanziaria, la moneta nazionale valeva un terzo di meno rispetto a oggi. Una moneta locale forte può comprare più beni di importazione. Ed è proprio quello che è successo in Brasile, tanto che entro la fine del 2008 ci si aspetta un deficit nella bilancia commerciale, anche se le esportazioni continuano a crescere. È incoraggiante il fatto che gran parte delle importazioni sia costituita da macchinari e da altri beni capitali. Secondo Sergio Valé, della Mb Associados, il Brasile investe solo il 19 per cento del pil. Anche questa cifra, però, sta aumentando in fretta. Quando gli investimenti avranno raggiunto un quarto del pil, il paese dovrebbe essere in grado di crescere almeno del 5 per cento all’anno, invece di raggiungere lo
stesso traguardo alla ine di un ciclo economico. Secondo Valé questo dovrebbe succedere verso il 2015. Grazie al real forte e ai tassi d’interesse più bassi, il potere d’acquisto della classe media è aumentato. Quando il credito al consumo era ancora sconosciuto e la combinazione di una
moneta più debole con barriere commerciali alte rendeva i prodotti d’importazione troppo costosi, la domanda interna era molto limitata. Oggi la situazione sta cambiando. Negli ultimi due
anni il credito al consumo è aumentato di più del 25 per cento all’anno. E nei centri commerciali molti negozi fanno credito a chi vuole comprare un televisore più grande. La moneta forte ha aiutato a far quadrare i conti delle aziende brasiliane con aspirazioni internazionali. Secondo la
business school Fundação Dom Cambral e la Columbia university di New York, nel 2006 le aziende brasiliane erano la seconda fonte di investimenti diretti all’estero tra i paesi in via di sviluppo, dopo la Cina. I dirigenti di queste aziende tendono a tenere a freno il loro spirito d’avventura, conservando la cautela appresa durante i giorni dell’inflazione selvaggia. “In quel periodo non potevo sapere neanche quanto avrei pagato l’afitto del mio appartamento il mese successivo”, sostiene Alvaro Novis, direttore finanziario di Odebrecht, una società di costruzioni
e prodotti chimici. “Non sapevo neanche quanto mi sarebbe costato andare a tagliarmi i capelli”.
Tutte queste novità hanno prodotto un’ondata di entusiasmo e la sensazione che il mercato finanziario non sia un casinò. “Far parte dell’economia mondiale è un vantaggio”, spiega Arminio Fraga, ex governatore della banca centrale e ora consulente di Gávea Investimentos. L’economia brasiliana è ancora relativamente chiusa, ma oggi molte persone lavorano per le aziende che importano ed esportano prodotti. E chi lavora per le aziende straniere di solito ottiene più
benefici e guadagna di più. Insomma, lasciar entrare il mondo ha fatto bene al paese. Ma il panorama dell’economia mondiale non promette bene e lo stesso vale per i traguardi ottenuti dal
Brasile. Così è nato un acceso dibattito sulla loro solidità. Secondo il governo, l’economia è destinata a crescere al ritmo attuale per i prossimi quindici o vent’anni a prescindere da quello che succederà nel resto del mondo. Tuttavia gli osservatori più pessimisti e alcuni economisti credono che il Brasile abbia appena superato il picco di un ciclo economico e che presto ricadrà nel torpore abituale. Ma chi pensa che il paese sia isolato si sbaglia. Per anni la sua economia è stata
legata a quello che succedeva nel resto del mondo, anche quando si nascondeva dietro alle alte barriere doganali. Pochi anni dopo il crollo di Wall street, nel 1929, la democrazia brasiliana fu soppiantata da una dittatura (lo stesso capitò anche ad altri quindici paesi dell’America Latina). Negli anni cinquanta l’economia crollò insieme al prezzo del caffè, che allora era il principale
prodotto d’esportazione del paese, e attraversò una nuova crisi negli anni settanta con il boom del prezzo del petrolio. Infine, il Brasile accusò il contraccolpo della ripresa finanziaria dell’Asia e quello della crisi argentina.
continua
Nessun commento:
Posta un commento