In trasferta
Dopo essere passati attraverso tre perquisizioni, finalmente riusciamo a entrare nell’unica gradinata dello stadio dell’Ahi Nazareth. Dietro le porte ci sono grandi bastioni di cemento sormontati da filo spinato che sembrano far parte del muro di separazione dalla Cisgiordania.
Tre quinti della tribuna sono occupati dai tifosi del Nazareth, separati dai circa sei o settecento sostenitori del Beitar da un imponente schieramento di forze di polizia. Guy Israeli e la maggior parte della Familia sono bloccati sugli autobus ai checkpoint lungo la strada che sale verso lo stadio, ma i tifosi del Beitar già sugli spalti non passano inosservati. Attaccano subito con i cori che ricordano ai tifosi del Nazareth la loro modesta posizione nella società israeliana: “Pooortami l’huuummus, ragazzo pooortami l’huuummus”. Il tono non è dei più amichevoli nemmeno nei confronti di Raleb Majadele, il ministro dello sport, laburista e di origini arabe, che prima della partita entra in campo insieme agli allenatori delle due squadre per ricordare l’importanza del rispetto e della pace. I dirigenti del Nazareth si avvicinano alle inferriate che separano il campo dalle tribune e passano due scatole di baklava ai sostenitori del Beitar. All’inizio i tifosi li prendono, poi scoppia una discussione e alla fine le scatole con i dolci vengono gettate a terra. Un ragazzo si alza e urla che nessuno deve mangiare la roba “di quella feccia umana”. I dolci restano sparpagliati per terra, ricoperti dalle bucce dei semi di girasole e dai mozziconi di sigaretta. La Familia arriva quando la partita è già cominciata da dieci minuti. Un centinaio di ultrà occupa la parte bassa della tribuna. Cantano a squarciagola senza fermarsi, passando dai cori di incitamento per la squadra agli insulti agli avversari. Alla fine del primo tempo il risultato è ancora sullo 0-0. Mentre la maggior parte dei tifosi fa una pausa, una trentina di loro si reca sul muro posteriore delle gradinate. Alcuni si mettono la kippah in testa, altri si coprono il capo con le sciarpe del Beitar, e tutti cominciano a pregare, oscillando come se fossero davanti al muro del pianto. Salgo tra i devoti a cercare Guy. È un tifoso dall’aspetto normale: pantaloni neri, felpa del Beitar con il cappuccio, capelli rasati e un viso che rivela la curiosità e l’eccitazione di un ragazzino. Al fischio d’inizio del secondo tempo mi stringe la mano e grida: “La mia famiglia vive a Gerusalemme da cinquecento anni. Siamo venuti a pregare non perché siamo religiosi, ma perché siamo ebrei. Dobbiamo mostrare loro che siamo ebrei”. Il Beitar segna. I tifosi ballano, e Guy abbraccia i suoi vicini. “Sì, sì... Ci vediamo a Gerusalemme”. Uno a zero. Due a zero. Il Beitar ha la partita in pugno e non corre pericoli. I tifosi del Nazareth sono ammutoliti, quelli del Beitar sempre più rumorosi: “Il muezzin è andato a casa”. Il Beitar segna la terza rete e i tifosi chiedono l’otto a uno: un gol per ogni studente ucciso nell’attentato alla yeshiva. Mancano dieci minuti alla fine. I tifosi del Nazareth escono a testa bassa.
Tre quinti della tribuna sono occupati dai tifosi del Nazareth, separati dai circa sei o settecento sostenitori del Beitar da un imponente schieramento di forze di polizia. Guy Israeli e la maggior parte della Familia sono bloccati sugli autobus ai checkpoint lungo la strada che sale verso lo stadio, ma i tifosi del Beitar già sugli spalti non passano inosservati. Attaccano subito con i cori che ricordano ai tifosi del Nazareth la loro modesta posizione nella società israeliana: “Pooortami l’huuummus, ragazzo pooortami l’huuummus”. Il tono non è dei più amichevoli nemmeno nei confronti di Raleb Majadele, il ministro dello sport, laburista e di origini arabe, che prima della partita entra in campo insieme agli allenatori delle due squadre per ricordare l’importanza del rispetto e della pace. I dirigenti del Nazareth si avvicinano alle inferriate che separano il campo dalle tribune e passano due scatole di baklava ai sostenitori del Beitar. All’inizio i tifosi li prendono, poi scoppia una discussione e alla fine le scatole con i dolci vengono gettate a terra. Un ragazzo si alza e urla che nessuno deve mangiare la roba “di quella feccia umana”. I dolci restano sparpagliati per terra, ricoperti dalle bucce dei semi di girasole e dai mozziconi di sigaretta. La Familia arriva quando la partita è già cominciata da dieci minuti. Un centinaio di ultrà occupa la parte bassa della tribuna. Cantano a squarciagola senza fermarsi, passando dai cori di incitamento per la squadra agli insulti agli avversari. Alla fine del primo tempo il risultato è ancora sullo 0-0. Mentre la maggior parte dei tifosi fa una pausa, una trentina di loro si reca sul muro posteriore delle gradinate. Alcuni si mettono la kippah in testa, altri si coprono il capo con le sciarpe del Beitar, e tutti cominciano a pregare, oscillando come se fossero davanti al muro del pianto. Salgo tra i devoti a cercare Guy. È un tifoso dall’aspetto normale: pantaloni neri, felpa del Beitar con il cappuccio, capelli rasati e un viso che rivela la curiosità e l’eccitazione di un ragazzino. Al fischio d’inizio del secondo tempo mi stringe la mano e grida: “La mia famiglia vive a Gerusalemme da cinquecento anni. Siamo venuti a pregare non perché siamo religiosi, ma perché siamo ebrei. Dobbiamo mostrare loro che siamo ebrei”. Il Beitar segna. I tifosi ballano, e Guy abbraccia i suoi vicini. “Sì, sì... Ci vediamo a Gerusalemme”. Uno a zero. Due a zero. Il Beitar ha la partita in pugno e non corre pericoli. I tifosi del Nazareth sono ammutoliti, quelli del Beitar sempre più rumorosi: “Il muezzin è andato a casa”. Il Beitar segna la terza rete e i tifosi chiedono l’otto a uno: un gol per ogni studente ucciso nell’attentato alla yeshiva. Mancano dieci minuti alla fine. I tifosi del Nazareth escono a testa bassa.
Contrasti religiosi
Nella città santa il calcio è arrivato tardi.Gli ebrei europei giocavano a pallone nelle pianure costiere già prima del 1917, ma né la piccola comunità ebraica di Gerusalemme ovest né i vicini arabi di Al-Quds sembravano molto interessati. Il calcio fu importato in Palestina
dall’esercito britannico e diventò subito parte del conlitto politico. Nel 1929, un ragazzino ebreo calciò un pallone nel giardino di un arabo. Nella lite che ne seguì il ragazzo fu ucciso e il suo funerale fu la causa scatenante di una serie di scontri tra le due comunità. Forse senza temere il rischio che il calcio avrebbe potuto generare nuove tensioni, nei primi anni trenta le autorità della Gerusalemme ebraica allestirono un campionato. Le squadre della città rappresentavano le diverse posizioni politiche all’interno del movimento sionista: l’Hapoel a sinistra, al centro il Maccabi e a destra il Beitar. Il Beitar Jerusalem fu fondato nel 1936 come associazione sportiva
dell’omonimo gruppo politico, ispirato al sionismo revisionista, cioè radicale e fortemente nazionalista, di Vladimir Jabotinsky. Temendo le posizioni politiche del Beitar, i britannici deportarono la maggior parte della squadra in Eritrea. I sospetti erano giustificati: nel 1946 l’Irgun, l’ala militare del movimento Beitar, fece esplodere la parte dell’Hotel King David che ospitava il Criminal investigation department (Cid) della polizia britannica. Il luogo che per anni è stato il cuore della cultura calcistica di Gerusalemme, il circolo della Ymca con il suo piccolo stadio, è proprio davanti al nostro albergo. Il complesso fu aperto nel 1933 da Lord Allenby, comandante dell’autorità mandataria britannica in Palestina. Su una piccola targa sono incise le parole che dovrebbero riassumere gli obiettivi e lo spirito dell’associazione: “In questo posto è possibile dimenticare i contrasti religiosi e politici e sviluppare la concordia internazionale”.
Non è andata esattamente così.
continua
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