Intolleranza diffusa
Abbiamo un appuntamento per incontrare Guy Israel al campo d’allenamento del Beitar a Gerusalemme sud. Guy è in ritardo e ad accoglierci c’è un giovane tifoso della Familia che si muove furtivamente, fuma e lancia delle miccette verso di noi. Quando Guy arriva ci racconta come è nato il gruppo di tifosi organizzati del Beitar. Ci spiega che oggi ha il controllo di migliaia di tifosi attraverso una struttura piramidale e una serie di quadri intermedi. Il tifo, dice, ha fatto fallire il suo matrimonio. Sua moglie, anche lei nel gruppo, lo ha messo di fronte a una scelta: o lei o la Familia. Guy, ovviamente, ha scelto gli ultrà: “Questa è la mia casa, la mia vita, tutto quello che ho”. Gli chiedo ancora della preghiera durante l’intervallo della partita contro il Nazareth. “Quando vedo un milione di musulmani che pregano nel mio paese, divento nervoso. Anche loro devono sapere che noi ci siamo. Gli arabi hanno dieci, undici paesi. Noi solo uno. E vogliono proprio il nostro. Perché?”. La partita contro il Nazareth sembrava quasi una guerra... “Il governo si aspetta che il calcio contribuisca al processo di pace. Ma noi non vogliamo la pace. Vogliamo la guerra. Una settimana fa un arabo ha ucciso otto studenti di una yeshiva. Ci prenderemo la rivincita. Vogliamo la rivincita, vogliamo il sangue”. Come finirà? “Non si può fare la pace senza la guerra. Se hai un cane, lo ami, ma se ti morde, allora lo ammazzi. La stessa cosa succede con gli arabi. Se ti uccidono, devi ucciderli. A quel punto si arrenderanno. Solo allora sarà possibile avere la pace”. Pensi che primo o poi succederà? “No”.
Tra i tifosi del Beitar non tutti condividono le parole di Guy. David Frenkel fa l’ingegnere in un’azienda informatica, è una persona tranquilla ed è follemente innamorato del Beitar: lo ha seguito in trasferta alle isole Far Øer e ha attraversato l’Europa in macchina per vedere venti minuti di una partita contro il Wimbledon. Ma l’arrivo di Gaydamak e il razzismo sempre più ostentato hanno rotto l’incantesimo. C’è poi il mite Jochi, che arriva dalla periferia popolare di Gerusalemme ovest e non poteva che tifare Beitar. È uno di quelli che stanno cercando di reagire: registra i cori razzisti e li mette su internet per denunciare l’intolleranza degli ultrà. Il suo attaccamento alla squadra è sempre più debole. Insomma, Guy Israeli non rappresenta tutto il Beitar, e il Beitar non rappresenta l’intero calcio israeliano né è un indicatore affidabile delle posizioni dell’opinione pubblica. Ma in assenza di altre voci critiche, mi chiedo se non sia destinato a diventarlo. Per dimostrare la moderazione dei cittadini israeliani, gli osservatori citano spesso sondaggi secondo i quali il settanta per cento degli ebrei israeliani è favorevole alla soluzione a due stati, e il 64 per cento, compresa quasi la metà dei simpatizzanti del Likud, desidera che il governo tratti con Hamas. Guardando le cose da questa prospettiva, il Beitar e la Familia appaiono come due entità davvero estreme. Ma scavando sotto la superficie dei dati si scopre che le loro opinioni non sono poi così rare. In fondo, anche se esistessero due stati, il 65 per cento degli ebrei israeliani vorrebbe comunque i confini chiusi. Inoltre, la maggioranza immagina un eventuale stato palestinese indipendente come un’entità frammentata, ingabbiata dagli insediamenti ebraici permanenti e divisa da Israele dal muro di separazione. I sondaggi ci dicono anche che due terzi degli ebrei israeliani non vivrebbero nello stesso palazzo in cui ci sono degli arabi, e la metà non farebbe entrare un arabo in casa.
Tra i tifosi del Beitar non tutti condividono le parole di Guy. David Frenkel fa l’ingegnere in un’azienda informatica, è una persona tranquilla ed è follemente innamorato del Beitar: lo ha seguito in trasferta alle isole Far Øer e ha attraversato l’Europa in macchina per vedere venti minuti di una partita contro il Wimbledon. Ma l’arrivo di Gaydamak e il razzismo sempre più ostentato hanno rotto l’incantesimo. C’è poi il mite Jochi, che arriva dalla periferia popolare di Gerusalemme ovest e non poteva che tifare Beitar. È uno di quelli che stanno cercando di reagire: registra i cori razzisti e li mette su internet per denunciare l’intolleranza degli ultrà. Il suo attaccamento alla squadra è sempre più debole. Insomma, Guy Israeli non rappresenta tutto il Beitar, e il Beitar non rappresenta l’intero calcio israeliano né è un indicatore affidabile delle posizioni dell’opinione pubblica. Ma in assenza di altre voci critiche, mi chiedo se non sia destinato a diventarlo. Per dimostrare la moderazione dei cittadini israeliani, gli osservatori citano spesso sondaggi secondo i quali il settanta per cento degli ebrei israeliani è favorevole alla soluzione a due stati, e il 64 per cento, compresa quasi la metà dei simpatizzanti del Likud, desidera che il governo tratti con Hamas. Guardando le cose da questa prospettiva, il Beitar e la Familia appaiono come due entità davvero estreme. Ma scavando sotto la superficie dei dati si scopre che le loro opinioni non sono poi così rare. In fondo, anche se esistessero due stati, il 65 per cento degli ebrei israeliani vorrebbe comunque i confini chiusi. Inoltre, la maggioranza immagina un eventuale stato palestinese indipendente come un’entità frammentata, ingabbiata dagli insediamenti ebraici permanenti e divisa da Israele dal muro di separazione. I sondaggi ci dicono anche che due terzi degli ebrei israeliani non vivrebbero nello stesso palazzo in cui ci sono degli arabi, e la metà non farebbe entrare un arabo in casa.
La seconda vittoria
Sabato sera il Beitar gioca in casa del Maccabi Petah Tikvah (a chi avesse visto il film "La banda", questo nome suonerà familiare, N.d. Jumbolo), la squadra di Avi Luzon, il presidente della Federazione calcistica israeliana. Guy ci spiega che sarà lui il principale bersaglio dei loro
cori. Un’anziana professoressa di Tel Aviv ci racconta che viene alle partite perché “odia gli arabi” e un ragazzino afferma che l’unico arabo buono è quello morto. La Familia si riunisce davanti alla tribuna est. Noi non possiamo entrare e così finiamo nella gradinata opposta, che ospita i giornalisti, i dirigenti e i tifosi anziani. Come i coloni, i membri del gruppo sanno bene come sia importante infiltrarsi e occupare degli avamposti. I capi del gruppo sono nella parte superiore della tribuna da dove coordinano i cori. Ma alcuni membri della Familia sono anche nella tribuna nord e in quella ovest, per intonare cori e influenzare i tifosi più tranquilli. A un certo punto uno striscione enorme compare nella gradinata est: “Ashkelon, Sderot, siamo con voi”. Durante i primi quindici minuti della partita i tifosi del Beitar insultano Avi Luzon. Quando i dirigenti li richiamano all’ordine dagli altoparlanti dello stadio i cori si fanno ancora più insistenti. Il Beitar va in vantaggio. Al 3-0 nessuno si ricorda più di Luzon. I tifosi festeggiano e un urlo sovrasta tutti gli altri: “Kale, Ramat Kal. Kale, Ramat Kal”. Chiedo al mio vicino cosa significa. Sorride. Ci spiega che Tvrtko Kale (foto) è il nome del portiere della squadra, croato, e che Ramat Kal è l’abbreviazione del termine che indica il capo delle Forze armate israeliane. Qualche giorno fa Kale è apparso in televisione: “Molti amici mi chiedono com’è possibile tollerare che Hamas continui a colpire Sderot e Ashkelon”, ha detto. “Noi croati abbiamo avuto lo stesso problema e lo abbiamo risolto sparando e uccidendo. Cinquanta, sessant’anni per cercare di fare la pace, senza alcun risultato. Anche Israele dovrebbe fare come noi”, ha affermato colpendo con il pugno il palmo della mano. E ha aggiunto: “Ora basta!”. “Kale ha avuto il coraggio di dire quello che i politici non dicono”, commenta il nostro vicino di posto. Non sono solo Guy Israeli e i membri della Familia a cantare. L’urlo sale da tutto lo stadio. A metà aprile il Beitar stava vincendo 1-0 con il Maccabi Herzliya. Mancavano quattro minuti alla ine e la squadra di Gerusalemme stava per diventare campione d’Israele. Poi un’invasione di campo ha costretto l’arbitro a sospendere la partita. La vittoria è andata all’Herzliya, il Beitar ha subìto una penalizzazione di due punti e ai suoi tifosi è stato vietato l’ingresso allo stadio per il resto dell’anno. In appello, però, la corte suprema israeliana ha stabilito che la partita doveva essere rigiocata. Il Beitar ha vinto e per il secondo anno di fila si è aggiudicato il campionato. Nel frattempo l’Hapoel Katamon ha perso la partita più importante della stagione ed è rimasto in quarta divisione.
cori. Un’anziana professoressa di Tel Aviv ci racconta che viene alle partite perché “odia gli arabi” e un ragazzino afferma che l’unico arabo buono è quello morto. La Familia si riunisce davanti alla tribuna est. Noi non possiamo entrare e così finiamo nella gradinata opposta, che ospita i giornalisti, i dirigenti e i tifosi anziani. Come i coloni, i membri del gruppo sanno bene come sia importante infiltrarsi e occupare degli avamposti. I capi del gruppo sono nella parte superiore della tribuna da dove coordinano i cori. Ma alcuni membri della Familia sono anche nella tribuna nord e in quella ovest, per intonare cori e influenzare i tifosi più tranquilli. A un certo punto uno striscione enorme compare nella gradinata est: “Ashkelon, Sderot, siamo con voi”. Durante i primi quindici minuti della partita i tifosi del Beitar insultano Avi Luzon. Quando i dirigenti li richiamano all’ordine dagli altoparlanti dello stadio i cori si fanno ancora più insistenti. Il Beitar va in vantaggio. Al 3-0 nessuno si ricorda più di Luzon. I tifosi festeggiano e un urlo sovrasta tutti gli altri: “Kale, Ramat Kal. Kale, Ramat Kal”. Chiedo al mio vicino cosa significa. Sorride. Ci spiega che Tvrtko Kale (foto) è il nome del portiere della squadra, croato, e che Ramat Kal è l’abbreviazione del termine che indica il capo delle Forze armate israeliane. Qualche giorno fa Kale è apparso in televisione: “Molti amici mi chiedono com’è possibile tollerare che Hamas continui a colpire Sderot e Ashkelon”, ha detto. “Noi croati abbiamo avuto lo stesso problema e lo abbiamo risolto sparando e uccidendo. Cinquanta, sessant’anni per cercare di fare la pace, senza alcun risultato. Anche Israele dovrebbe fare come noi”, ha affermato colpendo con il pugno il palmo della mano. E ha aggiunto: “Ora basta!”. “Kale ha avuto il coraggio di dire quello che i politici non dicono”, commenta il nostro vicino di posto. Non sono solo Guy Israeli e i membri della Familia a cantare. L’urlo sale da tutto lo stadio. A metà aprile il Beitar stava vincendo 1-0 con il Maccabi Herzliya. Mancavano quattro minuti alla ine e la squadra di Gerusalemme stava per diventare campione d’Israele. Poi un’invasione di campo ha costretto l’arbitro a sospendere la partita. La vittoria è andata all’Herzliya, il Beitar ha subìto una penalizzazione di due punti e ai suoi tifosi è stato vietato l’ingresso allo stadio per il resto dell’anno. In appello, però, la corte suprema israeliana ha stabilito che la partita doveva essere rigiocata. Il Beitar ha vinto e per il secondo anno di fila si è aggiudicato il campionato. Nel frattempo l’Hapoel Katamon ha perso la partita più importante della stagione ed è rimasto in quarta divisione.
fine
Nessun commento:
Posta un commento