parte 6
Le guerre del greggio
Quasi certamente ci saranno nuovi conflitti. La ricchezza prodotta dal petrolio tende a sconvolgere l’economia e la politica dei paesi, disincentivando la diversificazione produttiva, esacerbando le rivendicazioni etniche e rendendo più facile finanziare le rivolte. Un terzo delle guerre civili in corso nel mondo si combatte in paesi produttori di petrolio (nel 1992 era un quinto). “Si crea un circolo vizioso”, afferma Michael L. Ross, il politologo della Ucla, “e lo vediamo in paesi come l’Iraq e la Nigeria: i conflitti fanno aumentare i prezzi e l’aumento dei prezzi a sua volta alimenta i conflitti”. Imporre un embargo al petrolio proveniente dai paesi in guerra non servirebbe: ridurre il petrolio disponibile sul mercato non farebbe che aggravare una situazione già esplosiva. Secondo Ben Dell, analista della Sanford Bernstein, l’aumento dei prezzi petroliferi incoraggia la tendenza a rinazionalizzare i giacimenti da parte di paesi produttori come la Russia e il Venezuela, ma questo determina spesso un calo della produzione, visto che quasi tutte le aziende petrolifere di stato sono inefficienti. Per giunta, le aziende statali devono fare affari dove possono: ma poiché i giacimenti che si trovano in regioni tranquille come l’Alaska o il mare del Nord sono esauriti, la caccia a quelli nuovi si è spostata verso paesi in guerra (Nigeria, Angola) o zone con caratteristiche geologiche molto dificili, come la Siberia. Intanto ci sono molte tecnologie verdi promettenti, ma nessuna sembra in grado di salvare la situazione a breve termine. “Le energie alternative sono un’illusione”, sostiene il presidente della Pfc Energy, Robin West. “Naturalmente miglioreranno. Ma la gente non si rende conto del livello raggiunto dalle attività petrolifere. L’anno scorso, grazie agli enormi sussidi concessi agli agricoltori, sono stati prodotti 18 miliardi di litri di etanolo. Ma è l’equivalente di quello che produce una sola piattaforma petrolifera al largo delle coste dell’Africa occidentale”. Che fare, allora? Tanto per cominciare i leader politici dovrebbero smettere di chiedere alle grandi aziende petrolifere perché i prezzi sono così alti: visto che controllano solo una piccola percentuale delle riserve, non sono loro a deciderne l’andamento. Inoltre, potrebbero incentivare iniziative verdi più efficaci, come i crediti per l’energia eolica e solare, invece dell’etanolo che è un sogno irrealistico e costoso. Inine, potrebbero smetterla di compiacere gli elettori concedendo sovvenzioni e tagli alle imposte sulla benzina. Le strade prese finora indicano chiaramente che i governi non hanno capito la nuova realtà, e cioè che il petrolio è una risorsa limitata e che la disinvoltura con cui l’abbiamo usata finora non può durare. “Un combustibile poco caro, pulito e disponibile esiste: si chiama risparmio energetico”, sintetizza Robin West. Il mondo potrebbe risparmiare il 25 per cento del petrolio adottando alcuni semplici accorgimenti come non superare mai i limiti di velocità, spegnere le luci e soprattutto sfruttare fino in fondo le tecnologie verdi già disponibili come le energie ibride o un migliore isolamento degli edifici. I paesi ricchi, in particolare gli Stati Uniti, non sono mai stati favorevoli a porre un freno ai consumi, ma con l’aumento dei prezzi dell’energia cambieranno idea. È già successo negli anni settanta e succederà ancora. E sarà questo – se siamo fortunati – l’effetto più importante e duraturo del petrolio a 200 dollari.
fine articolo, continua reportage
Le guerre del greggio
Quasi certamente ci saranno nuovi conflitti. La ricchezza prodotta dal petrolio tende a sconvolgere l’economia e la politica dei paesi, disincentivando la diversificazione produttiva, esacerbando le rivendicazioni etniche e rendendo più facile finanziare le rivolte. Un terzo delle guerre civili in corso nel mondo si combatte in paesi produttori di petrolio (nel 1992 era un quinto). “Si crea un circolo vizioso”, afferma Michael L. Ross, il politologo della Ucla, “e lo vediamo in paesi come l’Iraq e la Nigeria: i conflitti fanno aumentare i prezzi e l’aumento dei prezzi a sua volta alimenta i conflitti”. Imporre un embargo al petrolio proveniente dai paesi in guerra non servirebbe: ridurre il petrolio disponibile sul mercato non farebbe che aggravare una situazione già esplosiva. Secondo Ben Dell, analista della Sanford Bernstein, l’aumento dei prezzi petroliferi incoraggia la tendenza a rinazionalizzare i giacimenti da parte di paesi produttori come la Russia e il Venezuela, ma questo determina spesso un calo della produzione, visto che quasi tutte le aziende petrolifere di stato sono inefficienti. Per giunta, le aziende statali devono fare affari dove possono: ma poiché i giacimenti che si trovano in regioni tranquille come l’Alaska o il mare del Nord sono esauriti, la caccia a quelli nuovi si è spostata verso paesi in guerra (Nigeria, Angola) o zone con caratteristiche geologiche molto dificili, come la Siberia. Intanto ci sono molte tecnologie verdi promettenti, ma nessuna sembra in grado di salvare la situazione a breve termine. “Le energie alternative sono un’illusione”, sostiene il presidente della Pfc Energy, Robin West. “Naturalmente miglioreranno. Ma la gente non si rende conto del livello raggiunto dalle attività petrolifere. L’anno scorso, grazie agli enormi sussidi concessi agli agricoltori, sono stati prodotti 18 miliardi di litri di etanolo. Ma è l’equivalente di quello che produce una sola piattaforma petrolifera al largo delle coste dell’Africa occidentale”. Che fare, allora? Tanto per cominciare i leader politici dovrebbero smettere di chiedere alle grandi aziende petrolifere perché i prezzi sono così alti: visto che controllano solo una piccola percentuale delle riserve, non sono loro a deciderne l’andamento. Inoltre, potrebbero incentivare iniziative verdi più efficaci, come i crediti per l’energia eolica e solare, invece dell’etanolo che è un sogno irrealistico e costoso. Inine, potrebbero smetterla di compiacere gli elettori concedendo sovvenzioni e tagli alle imposte sulla benzina. Le strade prese finora indicano chiaramente che i governi non hanno capito la nuova realtà, e cioè che il petrolio è una risorsa limitata e che la disinvoltura con cui l’abbiamo usata finora non può durare. “Un combustibile poco caro, pulito e disponibile esiste: si chiama risparmio energetico”, sintetizza Robin West. Il mondo potrebbe risparmiare il 25 per cento del petrolio adottando alcuni semplici accorgimenti come non superare mai i limiti di velocità, spegnere le luci e soprattutto sfruttare fino in fondo le tecnologie verdi già disponibili come le energie ibride o un migliore isolamento degli edifici. I paesi ricchi, in particolare gli Stati Uniti, non sono mai stati favorevoli a porre un freno ai consumi, ma con l’aumento dei prezzi dell’energia cambieranno idea. È già successo negli anni settanta e succederà ancora. E sarà questo – se siamo fortunati – l’effetto più importante e duraturo del petrolio a 200 dollari.
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