No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20090104

a proposito di morte 5

La quarta parte ieri

"Siediti. Ascolta. Tocca"

"C'è un grande fraintendimento culturale sugli hospice. Per la gente sono l'ultima risorsa. Se qualcuno ci finisce significa che non c'è speranza. Per me non è così. Sono posti adatti per avere una cura intensiva e senza interruzioni in una parte importante della vita".

Frank Ostaseski, autore di Saper accompagnare (Mondadori), ex direttore dello Zen Hospice di San Francisco, ha fondato una scuola, la Metta, parola indiana che significa amorevole gentilezza, per insegnare a medici e infermieri come si assiste psicologicamente e spiritualmente chi muore.

Anche negli Usa i pazienti arrivano tardi?

"Sì, anche qui il tempo di degenza media è due settimane: troppo poco per sviluppare una relazione. Ma quando dirigevo lo Zen Hospice era due mesi, davvero inusuale. Ci sono tanti fattori che contribuiscono al ritardo: il tabù di cui parlavo prima, la rete assistenziale domiciliare che anche se non funziona bene è preponderante. Gli stessi ospedali che perdono - anche economicamente - un paziente. E la cultura medica che vede le cure palliative come una sconfitta".

In Italia c'è grande imbarazzo ad affrontare l'argomento.

"Siete un Paese ad alta emotività. Non ammettete la paura. Negli Usa se ne parla spesso. C'è grande attenzione mediatica sugli hospice".

Quando parla di cura intensiva a cosa si riferisce?

"Dobbiamo capire che l'assistenza medica - e parlo anche di cure palliative - non basta. Morire è un atto sacro, non solo un evento medico. In quei momenti bisogna avere vicino anche una presenza compassionevole, attenta, calma e degna di fiducia che parli senza tabù. Se tutti colludiamo nel tabù il paziente viene isolato nella paura".

Molta gente non sa che sta per morire.

"Nella mia esperienza, nel 90% dei casi sa. O sospetta. Mi ricordo una famiglia di Latinos: mi chiedevano di non dir nulla al padre per non fargli paura. Promisi. Quando parlai con lui mi disse che si aspettava di morire ma di non dire nulla alla famiglia perché aveva paura. Era una situazione con risvolti comici. Ma alla fine riuscirono a comunicare".

Secondo lei è importante essere consapevoli?

"Sì, perché è un momento fondamentale per guardare indietro senza giudicare cosa si è fatto e curare vecchie ferite".

Sembra una cosa difficile da realizzare.

"Noi abbiamo un rapporto ambiguo con la morte. Da una parte la neghiamo e non vogliamo parlarne, dall'altra siamo curiosi. Facciamo lo stesso con gli incidenti stradali: non vogliamo guardare, ma poi con la coda dell'occhio... Per questo è importante saper parlare ad anima aperta. Molti pazienti parlano con me perché io non ho paura".

E cosa fa?

"Chiedo come si sentono, cosa pensano stia accadendo. Se hanno paura, di cosa. E da lì cominciamo una conversazione che tocca anche il territorio del mistero e delle domande senza risposta, perché anche cosa pensano succederà "dopo" influenza la maniera di andarsene".

Cosa consiglia ai suoi allievi?

"Siediti, non stare in piedi, stabilisci una relazione alla pari. Parla - con gentilezza - meno e ascolta di più. E tocca il paziente se ti sembra appropriato. Non lasciarlo solo, sii come una mamma che accompagna un bambino in un territorio inesplorato, senza imporre nulla".

M.A.

continua il 6 gennaio 2009

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