Antony and The Johnsons, Prato, Teatro Politeama, 31 marzo 2009
Ed eccoci a Prato, nella cui piazza principale campeggia una striscione della CGIL con su scritto "Prato non deve chiudere", segno tangibile della preoccupazione per l'attuale crisi economica. Noi che ci ostiniamo a pensare che passerà, e che abbiamo la fortuna di poter spendere 37 euro (più prevendita) per un biglietto di un concerto, siamo qui, in questa serata di primavera che non ne vuole sapere di arrivare, in cerca di un bar aperto dopo le 20 visto che il Politeama non ne vuole sapere di aprire e noi vogliamo un caffè come fossimo napoletani.
Mentre quasi come ai vecchi tempi, preso il caffè e constatato che oltre al Duomo c'è poco altro a Prato, ci piazziamo davanti alle saracinesche del teatro in attesa che si sollevino, facciamo conoscenza con una siciliana che vive e lavora a Sesto Fiorentino che ha voglia di chiacchierare, e meno male, così passiamo il tempo. Invidio un poco la ragazza, sinceramente: in lei sento l'eccitazione pre-concerto che io non provo più ormai da anni. Lo dico senza supponenza, e con un po' di nostalgia, perfino.
Ed eccoci occupare la nostra poltroncina in platea, osservando il pubblico che affluisce fino quasi a riempire il teatro: sul sito ufficiale di Antony questa era una delle poche date non sold out, ma sono convinto che a fine serata saranno rimasti davvero pochi posti liberi. Molti post grunge, nu hippies, coppie gay, coppie etero follemente innamorate. Qualche over 50.
Alle 21,30 le luci si abbassano, partono note registrate vagamente techno-industrial (che poi muteranno), entra sul palco una figura femminile dal fisico iper-atletico che in quasi 20 minuti si esibirà in una performance di teatro sperimentale: come suggerisce giustamente Paolo Iasevoli di Loud Vision, che mi pare decisamente saperne, l'artista rappresenta un angelo che si spoglia in sequenza delle vesti, della carne e della sua essenza, fino a diventare una bestia. Azzeccata introduzione per il concerto di un artista sicuramente fuori dagli schemi: la performance ipnotizza e destabilizza. Sfuma nell'ingresso della band e di Antony, vestito di nero. Si sistemano ai loro posti e parte Where Is My Power, il lato B del singolo di Epilepsy Is Dancing, un pezzo che mi emoziona immediatamente. E io che dopo averlo visto un paio di volte, non avevo quasi più voglia di vederlo live. In effetti però, non avevo riflettuto sul fatto che entrambe le volte precedenti, la location non era adatta. Questa sera siamo in teatro, e per Antony credo sia davvero la collocazione ottimale. Riconosco quasi immediatamente, nella band, Parker Kindred, che avevo visto l'estate passata con Joan (As Police Woman), un batterista con uno stile totalmente diverso da quelli che piacciono a me, ma nonostante questo (anzi, forse proprio per questo) veramente bravo. Da lontano, mi ricorda Paul Weller, si dà da fare anche ai cori e, quasi, ricorda Weller anche con la voce. Anche se gli altri musicisti sono bravi altrettanto, Parker ha una discreta personalità, e dagli sguardi che i musicisti e lo stesso Antony gli rivolgono durante le pause e i pezzi, si capisce che è il fulcro. Lo guardano anche quando i pezzi sono senza batteria. E' l'unico componente della band maschio (a parte Antony, of course) che non porta giacca e cravatta, per dire una futilità. Al basso c'è Jeff Langston, l'unico sempre in piedi, dietro al piano di Antony, mentre seduti davanti ci sono Rob Moose (chitarra solista e violino), Doug Wieselman (fiati), Maxim Moston (violino e un po' di tutto) e, last but not least, l'imperfetta ma affascinante Julia Kent al violoncello.
Si prosegue con una scaletta dominata ovviamente dal recente The Crying Light, album che non mi aveva impressionato come i precedenti, che però con gli arrangiamenti dal vivo, spesso profondamente diversi, acquista una dimensione più che interessante. Oserei definirlo un pop intellettuale, se non avessi paura di coprirmi di ridicolo. Her Eyes Are Underneath The Ground, Aeon, Kiss My Name (coinvolgente seppur leggera), Another World, Epilepsy Is Dancing, The Crying Light, One Dove (intensa), Everglade (che Antony introduce spiegando le "visioni" che hanno ispirato la sua composizione, pezzo davvero delicato e onirico), sono inizialmente inframezzate dai pezzi di repertorio, For Today I Am A Boy è la prima, ed è, come sempre, straziante non solo per quello che racconta (Parker superbo nel controcanto permette ad Antony di "volare" altissimo), poi da semi-inediti, Shake That Devil, dall'EP Another World, è un pezzo che scuote il teatro, una sorta di ragtime moderno nella sua versione dal vivo, che coinvolge e diverte al massimo la band, e durante il quale Antony accennerebbe perfino a qualche passo di danza, se non avesse il timore di risultare goffo, infine addirittura da una cover (apparsa sulla compilation Dark Was The Night) di Bob Dylan, I Was Young When I Left Home, la cui introduzione dà il via ai siparietti fatti di battute che non ti aspetteresti mai da un timidone come Antony, che addirittura qui scherza sul suo essere "donna" (partendo dal fatto che il pezzo in questione è un pezzo country, e quindi fuori dalle sue corde, ironizza sul fatto di non essere una country girl, bensì una city girl), e raggiungerà il suo apice qualche pezzo più avanti, nell'introduzione del quale Antony, dondolandosi sul panchetto su cui siede, cadrà di schiena sul palco dimostrando di essere davvero goffo, ma non per questo perdendosi d'animo e continuando a scherzare e a cazzeggiare, arrivando perfino a mettere in guardia i presenti dal "non credere al Papa, perchè siamo fatti più che altro d'acqua, e non d'anima".
Il finale è un crescendo da brividi, ringraziamenti e commozione. You Are My Sister è il pezzo sul quale ognuno dei presenti, mi piace immaginare, pensa agli affetti familiari, o a quelli amicali divenuti tali. Twilight è il pezzo della maliconia e dell'attesa, dove Antony mette le ali metaforicamente, visto che la sua voce vola e fa sognare. Fistful of Love è esasperata come una specie di jam session rock-blues al punto da sembrare musicalmente Yellow Ledbetter dei Pearl Jam (che poi a sua volta deve tutto a Little Wing di Hendrix, ma questa è un'altra storia).
Il bis ci consegna un Antony sempre più spigliato, anche se è un aggettivo che davvero non gli si confà, che gioca canticchiando un ringraziamento al pubblico, dopo di che ci regala la stupenda I Fell In Love With A Dead Boy, il mio personale climax della serata, un pezzo che mi fa sempre ripensare alla prima volta che mi "imbattei" in Antony del tutto casualmente, e conclude con la sempre meravigliosa Hope There's Someone, con la quale tutti sussurrano la loro voglia d'amore: hope there's someone who'll set my heart free nice to hold when I'm tired...
Applausi convinti dal pubblico, inchini e ringraziamenti da Antony e dai The Johnsons. La voce di Antony è inarrivabile, ora come ora: ti tocca e ti emoziona, anche se lui, durante le introduzioni, dice che una delle sue ispirazioni è stata Joan Armatrading (e sa di ricordarla, in alcuni passaggi). Facce soddisfatte si avviano dentro questa notte di primavera che sa d'inverno. Dopo questo concerto, Antony si avvia a lasciare la sua posizione di cantante di culto, e di conseguenza di nicchia, verso una condizione che potrebbe addirittura dargli notorietà amplissima. Gli arrangiamenti di classe ma intelligentemente pop, uniti a comparsate utili e perfino divertenti come quella con gli Hercules And Love Affair, non vi allarmate subito ma rifletteteci, potrebbero farlo diventare l'Elton John di questa prima parte di secolo. E non importa se anche il buon Iasevoli, che ho già citato prima, richiama il paragone prima di me: ci avevo pensato prima di leggere la sua recensione. Segno evidente che non sono stato l'unico ad avere una "visione" del genere.
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