No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20091113

I was there

Green Day + Prima Donna, Casalecchio di Reno - Bologna, Futurshow Station, mercoledi 11 novembre 2009

Come dice l'amica che mi accompagna a questo concerto, mentre torniamo verso casa, chissà se quando hanno cominciato a suonare, i tre Green Day si immaginavano di arrivare fino a qua. Mercoledi 11 novembre, al palasport di Casalecchio, gremito fino alla capienza di legge (si parla di 13mila persone), abbiamo assistito ad un classico concerto rock: volumi alti, belle canzoni, divertimento, cazzeggio, omaggi a grandi band del passato, coinvolgimento totale, cori, pubblico in delirio, e immancabilmente giovani ragazzine urlanti sugli spalti e sotto il palco. Ma gli occhi attenti di persone che hanno sulle spalle decenni di concerti e chilometri di strada, notavano una fortissima trasversalità degli spettatori: questa volta i genitori non lasciavano i e le più giovani all'ingresso, per riprenderseli a concerto finito. C'erano famiglie intere, magari non nel parterre, ma sulle gradinate. Esempio classico, il padre rocchettaro, la madre divertita e il figlio/la figlia/i figli anche lui/loro fan(s) dei Green Day. Un po' quello che vorremmo sempre vedere allo stadio per il calcio, ma questa è un'altra storia: qui si tifa tutti per la stessa squadra.

Figuraccia dell'organizzazione, che dopo ripetuti annunci per l'orario anticipato dell'inizio del concerto, e conseguente apertura anticipata dei cancelli (ore 18,30), apre i cancelli in ritardo, e cioè oltre le 19,00, facendo creare lunghissime file di spettatori che subiscono il freddo bolognese, e penalizzando leggermente la band che apre il concerto (alle 19,30), i Losangelini Prima Donna, 5 elementi dal look post-glam, ma che musicalmente assomigliano ad una cover band di Paul Anka col distorsore.

L'attesa si taglia col coltello, per usare un luogo comune, e alle 20,50 circa ecco che le note di Song Of The Century annunciano l'arrivo dei tre di Berkeley, che attaccano a suonare ovviamente con 21st Century Breakdown. La risposta del pubblico è fragorosa fin da subito. C'è da sottolineare, anche se i più accorti se lo immaginano, che i tre non sono esattamente tre. Sul palco sono in sei: oltre a Billie Joe, Mike e Tré Cool, ci sono Jason White alla chitarra, Jason Freese (tastiere, sassofono, fisarmonica) e Mike Pelino, chitarra soprattutto acustica e cori. Qui il primo (dei pochissimi) appunti che mi sento di muovere: da una band di sei elementi ci si aspetterebbe molto di più, sia a livello di armonia, sia a livello di impatto, di ricercatezza e di arrangiamento. E invece, i pezzi che riescono meglio sono quelli dove suonano in quattro, i tre componenti base più Jason White. Qualcosa da migliorare in futuro.
Com'è, come non è, il vostro inviato preferito, nonché critico per eccellenza su tutto e tutti, nonostante l'inizio lo lasci un po' dubbioso (sto parlando di me in terza persona, e so che non è bello, ma rimedio subito), si ritrova gli occhi umidi al pezzo numero 7 (senza contare l'intro), dal titolo Are We The Waiting, già nella prima parte dedicata soprattutto agli ultimi due album, per alcuni quelli della maturità, per altri quelli del tradimento e della "via commerciale".
Are We The Waiting, pezzo ruffiano e anthemico, perfetto per un concerto, è un po' lo spaccato di un concerto dei Green Day. Il punk, se mai c'è stato, è nei ricordi, nell'attitudine un po' cazzara, ma a livello musicale, nonostante almeno i tre componenti ufficiali dimostrino, ancora una volta, la loro pochezza tecnica (altro elemento punk, se vogliamo), ci sono superbe e semplicissime canzoni rock che citano continuamente, e forse talvolta inconsapevolmente, tutta la storia del rock. Altra dimostrazione la si ha un po' più avanti in scaletta, nel "momento juke-box", dove Billie Joe accenna diversi pezzi storici come, tra gli altri, War Pigs dei Sabbath, o eseguendo una strofa più ritornello di Highway To Hell degli AC/DC (e qui, devo dirvelo, mi sono venuti brividi di piacere sentendo il pubblico cantarla in coro perfettamente, tenendo conto dell'età media), e soprattutto nella tag infinita posta in mezzo ad una versione straripante e spassosa di King For A Day, contenente di tutto, da I'll Be There dei Jackson 5 a Hey Jude (ovviamente dei Beatles), da Shout degli Isley Brothers a (I Can't Get No) Satisfaction (ovviamente degli Stones). Qui, è importante dirlo, perchè a me piace da sempre ascoltare attentamente pure quelli che amo chiamare ancora i "nastri", la musica prima del concerto, assumono un significato particolare Don't Stop 'Til You Get Enough (Michael Jackson) e Surrender (Cheap Trick).
La scaletta dura più o meno due ore e venticinque minuti (20,50-23,15), anche se, calcisticamente parlando, di "gioco effettivo" ce n'è meno (ne parliamo tra pochissimo), ma, davvero, si stenta a trovare un momento di noia, di calo d'attenzione, e non è solo merito degli strilli delle ragazzine (e io che pensavo che non mi ci sarei mai ritrovato, a vedere band che hanno fra il pubblico ragazzine urlanti): il ritmo dei Green Day è incessante, e i pezzi tutti di grande impatto.

Altro punto forte del concerto, l'attitudine di Billie Joe Armstrong, che tiene in mano il pubblico con il suo carisma e la sua simpatia, più con i gesti e le espressioni che con le chiacchiere, a differenza di molte altre rockstar, e con una dose di ruffianeria che gli si può concedere. Ma non solo: le trovate sceniche, che sono vere e proprie gag, mi hanno strappato più di un sorriso, a me che spesso mi guardo intorno e quasi mi vergogno di non smuovermi più per nessun motivo.
Bambini sul palco, fan che prendono il microfono e cantano una strofa di un pezzo, addirittura tre che suonano chitarra, basso e batteria (in maniera più che dignitosa!), con annesso stagediving al momento di lasciare il palco per tornare in platea, tutto questo su esplicita richiesta di BJ; e poi, oltre alle classiche trovate sceniche spettacolari come le esplosioni, i fuochi d'artificio, le fiamme, i coriandoli, un palco enorme e funzionale, un impianto luci super usato con dovizia, uno sfondo con scenari suggestivi e dove si susseguono immagini proiettate e create sul momento da un buon regista, quelli che voglio definire gadget. Passi per i fucili ad acqua giganti, sfoderati sempre da BJ, alternati con i tubi di gomma con relativo rubinetto, sempre per sparare acqua sulle prime file, sia per rinfrescarle sia per disturbarle, ma il ventilatore spara-carta igienica (vedi foto di Angela in merito), che disegna figure astratte srotolando, appunto, i due rotoli posti ad una delle estremità, e soprattutto il fucile spara-magliette, col quale BJ distribuisce, appunto, t-shirt lontanissimo dal palco, fanno tutti parte di uno spettacolo grandioso, anche pacchiano se volete, ma divertente e, come già detto, mai noioso.

Primo gruppo di bis con una superba versione di Jesus Of Suburbia, il loro indiscusso masterpiece, secondo con BJ solo con la chitarra acustica, ad eseguire Last Night On Earth, Wake Me Up When September Ends e Good Riddance (Time Of Your Life), e saluti senza troppi convenevoli (anche se BJ aveva espresso più volte un grande apprezzamento per il pubblico italiano), chiudono una serata memorabile. Ci avviamo verso casa, lungo il Boulevard Of Broken Dreams...

5 commenti:

sam ha detto...

Sono un paio di giorni che cerco di dire la mia sul concerto di Milano... ma una volta letta questa non so che altro aggiungere.

Gran concerto
anche per me che ho visto Cremonini all'Alcatraz.

Anonimo ha detto...

Damiano:
Leggere il "pezzo" di Ale mi ha fatto sentire per un attimo li accanto a lui in mezzo alla folla; per colpa della mutua son rimasto HSA...ma un giorno mi rifarò...GRANDE ALEEEEEEEEE

jumbolo ha detto...

granzie Damiano. ci vediamo lunedi, nel frattempo abbiamo già fatto fuori 2 panettoni e 1 panforte

lafolle ha detto...

era finanziato da moira orfei?
con tutte quelle robe lì sembra un circo..

lafolle ha detto...
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