No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20091229

charlie oh charlie


Factotum – di Bent Hamer 2006


Giudizio sintetico: no!!


Henry Chinaski è un loser, di quelli veri e senza via di scampo. Vive, o meglio, sopravvive a Los Angeles, cerca continuamente lavoro, o meglio, cerca quel che basta per pagarsi una camera e ubriacarsi. Preferisce giocare alle corse dei cavalli che lavorare, infatti si adatta a qualsiasi cosa, garzone per una ditta di surgelati, addetto all’inscatolamento di sottaceti, impacchettatore di ganasce per freni d’auto, addetto in un negozio di biciclette, pulitore di statue, ma dura più sott’acqua che a lavorare. Gli piacciono le gambe delle donne, e scoparle (in maniera piuttosto tradizionale, si direbbe) e scoparne il più possibile.

Ma il demone che lo divora veramente, è quello della scrittura, cosciente di essere il migliore, e di essere il solo e unico giudice di se stesso e della sua vena prosaica. Tutto il resto è abitudine, e niente lo scalfisce più di tanto, neppure i continui rifiuti, o meglio, il continuo non essere considerato dagli editori ai quali spedisce continuamente i suoi scritti. Decine, centinaia, migliaia.


Factotum è l’ennesimo tentativo di far vivere la magia decadente e maledetta di Charles Bukowski e dei suoi scritti, inarrivabili, sul grande schermo. Tratto da uno dei suoi tanti libri, l’operazione è stata fortemente voluta da Bent Hamer, qui regista, sceneggiatore e produttore (negli ultimi due ruoli affiancato da Jim Stark), autore dello sghembo ma bellissimo “Kitchen Stories”, gioiellino non-sense norvegese uscito circa tre anni fa, che riscosse un buon successo di pubblico grazie al passaparola, unito ad un grande consenso critico.

E’ questo successo, unito al grande amore per Bukowski, che probabilmente ha convinto Hamer a gettarsi in questa impresa, che comportava il rischio di inimicarsi l’intera schiera di fans bukowskiani sparsi per tutto il mondo. Non ci sono, evidentemente, altre spiegazioni, davanti ad un film estremamente deludente, e sorprendentemente ben recensito dai più.

Possiamo tentare di indagare a fondo sulla non riuscita di questo film, che, detto tra noi, attendevo con favore, e, ne sono certo, come me molti altri. Lo stile di Hamer, evidentemente, non è adatto a descrivere un pezzo dell’immaginario (ma anche della realtà) di Bukowski. Non lo è perché il suo stile tende ad appiattire tutto, partendo dalla fotografia, che rende tutto grigio ma non cupo. Non lo è perché il suo senso dell’umorismo è talmente freddo da non sposarsi affatto con quello graffiante, ma soprattutto molto autoironico (e autodistruttivo) proprio di Bukowski. Non lo è perché Bukowski stesso e i suoi personaggi erano, e sono, molto, ma molto più disperati di come ce li dipinga Hamer; quella disperazione che ti fa capire che non hai più niente da perdere, quindi è meglio che te la passi alla grande anche solo per un minuto.

Questo, e molto altro, Hamer non riesce a descriverlo, a padroneggiarlo, a raccontarlo.

E non bastano un paio di (belle) inquadrature della città dal basso in alto, metaforicamente, dove si vede il quartiere (i quartieri) dove abitualmente bazzica Chinaski e, sullo sfondo, i grattacieli che dominano il resto, a farci capire che di qua ci sono, appunto, i losers, e di là ci sono quelli che vincono. Non basta neppure la scena finale (bellissima), dove c’è il sunto di tutto Bukowski, e dove Matt Dillon ci fa capire, con un paio di movimenti di sopracciglia, cosa sarebbe potuto essere questo film nelle mani di un altro regista.

Probabilmente la camera (troppo) fissa di Hamer non fa rendere per niente la fisicità estrema con la quale recitano sia Dillon (Chinaski) che Lili Taylor (Jan), in due buone prove, ma non eccelse (non sapremo mai se dovute al contesto del film o a loro stessi); risulta quasi più convincente una rediviva Marisa Tomei (Laura), che risulta sempre carina ma gonfia e sfatta quanto basta: se lo ha fatto per il film è bravissima, se è così adesso, vuol dire che, come si dice dalle mie parti, “ha fatto il frano” (è invecchiata, non è più come prima).

La scansione un po’ troppo spezzettata, quasi a piccoli episodi, complica ulteriormente la messa in scena, privando il film di una certa fluidità che gli avrebbe quantomeno giovato.

Il risultato è, in definitiva, di una freddezza unica, una freddezza che non avremmo mai voluto trovare in un qualcosa che si riferiva a Charles Bukowski, per nulla al mondo.

Perché la sua prosa era, ricordiamolo, musica per organi caldi.
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Edit: come gran parte delle recensioni di film non di recente uscita, questa è una critica scritta all'epoca dell'arrivo sugli schermi del film in questione (2006); la precisazione è importante soprattutto per il discorso fatto su Marisa Tomei: le sue apparizioni dopo questa pellicola ci dimostrano che si è, come dire, "ben conservata", ed appariva "sfatta" per il film.

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